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Napoli miliardaria
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E-book138 pagine1 ora

Napoli miliardaria

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Info su questo ebook

Napoli, 1943. Maria ha sei anni quando i partenopei insorgono cacciando i nazisti. È una bambina silenziosa e ben educata, la preferita della maestra Lisetta. Mentre la Seconda guerra mondiale scema, Maria scopre la violenza di genere e al contempo la grande forza e determinazione della madre che non esita a soccorrere Lisetta, vittima di un fidanzato manesco. La sua famiglia, pur nelle difficoltà economiche, è una famiglia unita, che compatta la vita a testa alta.
Nel corso dei due decenni successivi, Maria avrà modo di rendersi conto delle contraddizioni che gli anni Cinquanta portano con sé. Mentre l’Italia rifiorisce con il boom economico, Maria, sua madre Aquila e le amiche si uniscono nell’unico legame attraverso cui rispondere al sopruso maschile: la sorellanza. C’è Sofia, che è cacciata di casa per essersi iscritta all’università, c’è Elena, c’è Anna, lasciata sola nel momento più difficile, ci sono Cinzia e Flora, che cercano di ritagliarsi uno spazio adeguato nel mercato del lavoro. E poi c’è Napoli, bella, accecante, madre di queste donne e ragazze che amano la propria terra e per questo, nel loro piccolo, lottano per cambiarla.
Un romanzo intenso costruito attorno a una giovane donna in grado di essere sempre se stessa.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788832929355
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    Anteprima del libro

    Napoli miliardaria - Stefano Ceccanti

    1

    Allerta

    A scuola ci andava a piedi, contando i passi, che proprio passi non erano: saltelli, corsette, ogni tanto inciampando e venendo strattonata dai fratelli, più grandi e forti, che la dovevano tenere per mano e stare attenti a non perderla d’occhio, pena gli sculaccioni di mammà. Lei però si distraeva facilmente, come eccitata dalla grandezza di tutto ciò che la circondava: quando si è piccoli tutto sembra enorme, fuori portata e per questo irresistibilmente attraente, a tal punto che, ritornati da adulti negli stessi luoghi, questi ci sembrano infinitamente piccoli, meno affascinanti ma più familiari e per questo ammorbiditi.

    Allora, però, a lei tutto pareva esageratamente grande, dai palazzi in cemento alle strade principali, affollate e chiassose, dalle bancarelle della frutta ai lampioni della luce, ancora accesi la mattina presto, in contrasto con il cielo buio e nuvoloso, in cui non si scorgeva una speranza di sole né si potevano contare le stelle. Le stelle: così luminose, numerose, minuscole e silenziose eppure così venerate. Lei le ammirava, le stelle: la riempivano di una serenità e di una calma difficile da trovare in una città così caoticamente viva. Anche loro, pensava, erano vive, ma indisturbate, restavano senza bisogno di nessun supporto in alto, sopra tutti i problemi e le complicazioni. Non che all’epoca conoscesse problemi irrisolvibili: la sua preoccupazione più grande era l’affetto dei suoi genitori e dei fratelli e la simpatia dei compagni.

    Non era neanche una di quelle bambine lagnose che spesso popolano le classi delle elementari, con i loro occhi sempre umidi, pronte a far dannare le madri già piene di grattacapi, di ragioni per cui essere scontente. Era silenziosa e ubbidiente, una donnina in miniatura accompagnata da uno spirito pratico anacronistico ma da una capacità di sorpresa che è propria solo dell’infanzia, e a volte neanche di quella.

    Sulla strada, però, il suo raziocinio da bambina matura cedeva sempre il passo alla curiosità e allo stupore, alla volontà di allungarsi un po’ di più verso la frutta colorata, verso i cappotti delle signore della Napoli dabbene, così morbidi e lunghi che lei immaginava di sprofondarci dentro, dormendoci avvolta come in sontuose lenzuola, di arrampicarsi sulle schiene dei piccoli uomini partenopei per prendere in prestito i loro cappelli neri e beige, marroni, blu, di provarli sui suoi ricci scuri scuri. In prestito, chiaro, perché la mamma le aveva spiegato che era peccato prendere le cose altrui, che fossero i cappelli di quei signori uguali al padre o le caramelle delle compagne di classe, rotonde e rosa, così appetitose che, se non fosse stato per il pudore, avrebbe fatto qualunque cosa per farsene donare una.

    A casa sua non c’erano caramelle, non se ne parlava nemmeno, non si chiedevano. Non potevano averle, punto e basta, lo aveva detto mammà, non come rimprovero, anzi aveva pure riso. Lei non aveva capito perché mammà avesse riso, ma le piaceva tanto quando rideva: era come se il sorriso le allargasse l’intera faccia oltre che la bocca carnosa e rossa, rossa in modo innaturale, perché non era normale avere delle labbra così spesse e colorate senza trucco, e mammà di trucchi non ne aveva: lei lo sapeva per certo, perché la vedeva guardare torva, in centro, le signore imbellettate, con gli occhi come due fari incorniciati di nero e quelle bocche scarlatte.

    All’epoca non poteva sapere se fosse invidia o solo tristezza per doversi presentare così sciatta, sempre uguale a se stessa in ogni occasione. Lei non sapeva cosa fosse la mondanità, né capiva perché alla messa dovesse andare sempre più pulita del solito e con l’abito buono, che ormai le andava piccolo, eppure non chiedeva, non più di tanto. Non poteva chiedere sempre a mammà, e i fratelli si scocciavano presto di sentire quelle domande difficili, a cui nemmeno loro sapevano rispondere, e la zittivano. Così lei sognava i bei vestiti e i cappelli neri, senza sapere che solo in certe circostanze vanno messi, e che solo poche persone li portavano, e si avvicinava alle mele verdi e alle banane gialle senza poterle toccare, sperando di poterle assaporare per più giorni di fila. Tutto questo cercando di non farsi arrotare dalle biciclette degli scugnizzi che marinavano la scuola e dalle macchine dei vecchi ricchi.

    C’erano sempre meno macchine in giro da qualche anno a quella parte: meno macchine, più stranieri che parlavano senza vocali e un sacco di soldi messi da parte per comprare le radio. La via per la scuola era l’unica che potesse fare andando lontana da casa senza i suoi genitori, e solo perché i suoi fratelli quella strada la percorrevano da anni, la conoscevano a memoria; lì tutti i bambini imparavano a orientarsi nell’arco di pochissimo tempo, conoscevano i vicoli come le piazze più grandi, si trovavano dei punti di riferimento precisi: quella statua accanto alla gelateria, quel palazzone vicino alla banca, quella scalinata dietro il parchino. Lei non ce lo aveva quel sesto senso tutto campano, quella prima manifestazione di amore per la propria città, per quella terra che sembrava grande come tutto un mondo. Quanto avrebbe voluto rubare un po’ di indipendenza e sapienza geografica a quei guaglioni, quei ragazzi con le ginocchia sempre sbucciate e i vestiti stracciati che correvano, in bici, a piedi, sul bus preso senza biglietto.

    Eppure, eccola lì, legata per mano e nell’animo ai fratelloni, spinta a seguirli con la diligenza e la sottomissione alle quali aveva pronunciato fede sin dalla culla, quando mammà le cantava le ninne con una dolcezza senza pari, che lei non ricordava allora, ma che avrebbe sognato da grande, quando, nei momenti di sconforto, avrebbe avuto bisogno di una figura adulta a cui affidarsi, una buona figura, calda di abbracci e sorrisi, di una melodiosa voce che le facesse da guida.

    Com’era buona con lei mammà, anche se non poteva comprarle regali, anche se spesso era seria seria e le metteva quasi soggezione, anche se le diceva sempre di stare in silenzio, lei lo sapeva che era buona come poche altre donne. Persino più pia delle suore e più preziosa delle maestre. Alle maestre lei piaceva, lo sapeva anche se era così piccola. Piaceva loro nonostante parlasse piano piano, forse proprio per la sua voce sottile e i suoi occhioni scuri, sempre sull’attenti, che non si lasciavano sfuggire nulla, né una parola né una scritta sulla lavagna scura. Le maestre venivano da lei per farle i complimenti e per sistemarle il grembiule, per aiutarla a contare, nonostante la marea di bambini e bambine di ogni età, il cui ininterrotto parlare, strillare, piangere e lamentare aveva fatto venir loro i capelli bianchi a soli trent’anni. A lei sembrava normale che fossero canute: trent’anni sono anche troppi per chi ne ha soli sei.

    Quella mattina fredda, arrivata a scuola, vide la maestra parlare con mestizia e cercare di toccarsi dei brutti lividi sul volto. Poteva essere bellissima quando era contenta, eppure quel giorno era indicibilmente triste, no, forse arrabbiata, così Maria scoppiò a piangere. Lei, che non aveva pianto nemmeno quando era cascata dalla bicicletta dello zio, era lì a bagnare il vestito con le lacrime, a vedere la maestra nera di ferite e quella subito a calmarla, a dirle che andava bene e che stava bene, che era cascata, forse dalla bicicletta pure lei, sì cascata come una sciocca, lei che era grande e grossa, eppure cascava ancora come una poppante.

    "Non piangere, " le diceva , "se mi fai un sorrisone poi se ne vanno via anche le sbucciature, eh?"

    Così era riuscita a calmarla, ma poi aveva dovuto sforzarsi per far stare tranquilla la classe, che i bambini, si sa, sono come tasselli del domino, colpito uno affondano tutti. Così ora piangevano, si disperavano, come se l’avessero picchiata loro la maestra, come se l’avessero fatta cadere lungo distesa, come se avessero potuto, trasformatisi insieme in una creatura mostruosa dalle membra enormi, un violento agglomerato di infanti dai cinque agli otto anni. La maestra ci riuscì, inutile dirlo, come era riuscita ad alzarsi dolorante e col fiato corto quella mattina e andare a piedi fino alla scuola, sarebbe riuscita a tranquillizzare quei ragazzini che avevano sempre le dite sporche di colore e le faccette piene di graffi. Era una donna davvero bella, piena di vita, con due fianchi grossi come cuscini e braccia carnose, di una sensualità che i capelli un po’ brizzolati non scalfiva. Aveva pianto fin troppe lacrime perché consentisse che le cicatrici del suo corpo si allungassero fino a coprire quello dei suoi piccoli studenti. Dopo la fine delle lezioni si avvicinò a Maria, la rincuorò, sussurrandole che non doveva piangere, che lei era forte e voleva che anche le sue studentesse crescessero forti, con la testa alta. La piccola sembrava attenta come sempre, forse un po’ impaurita ancora, ma più calma. Non le piacevano le botte, si giustificò, non le piaceva che i grandi soffrissero: pensava che nessuno avrebbe potuto proteggere nessun altro se persino i grandi potevano essere deboli e tristi, malmessi e picchiati.

    Quel giorno tornò a casa più spaventata che curiosa, non si fermò per la strada ad ammirare i passanti, né si allontanò dai fratelli, anzi: dritta di schiena e bassa di testa si precipitò a casa, con un sentimento dentro di sé a cui non sapeva ancora dare nome, e che mai prima di allora aveva davvero provato; era diffidenza, sospetto. Aveva iniziato a non fidarsi più degli altri, quello sarebbe stato solo il primo passo di un cammino fatto di allerta.

    2

    Famiglia

    Arrivando in prossimità della casa si sentì più tranquilla. La casa era un palazzone alto alto in mezzo a una via poco trafficata, un posto di un bianco ingrigito, pieno zeppo di gente. Aveva sempre avuto paura che sarebbe scoppiato tutto, l’edificio, la strada, Napoli, il mondo intero: un sacco di bambini e vecchi popolavano gli appartamenti, che non erano mai abbastanza; mai abbastanza caldi, puliti, grandi, silenziosi. Era impossibile che quel palazzo

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