La novellaja milanese: Esempii e panzane lombarde raccolte nel Milanese
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Anteprima del libro
La novellaja milanese - Vittorio Imbriani
2018
INTRODUZIONE DEL TRADUTTORE
Vittorio Imbriani nacque a Napoli nel 1840. Trascorse la giovinezza tra Nizza e Torino, studiò a Zurigo, si arruolò per combattere la Seconda Guerra d’Indipendenza, si trasferì prima a Berlino e poi a Napoli. Visse tra Firenze e Roma, prima di diventare un soldato garibaldino nella Terza Guerra d’Indipendenza, durante la quale fu prigioniero in Croazia. Infine tornò a Napoli, si sposò a Milano e, tornato a Napoli, morì a soli 45 anni.
Studioso di letteratura e filosofia, e curioso di come le varie culture popolari fossero interlacciate tra loro, girovagò per la neonata Italia raccogliendo fiabe e storielle, facendosele raccontare direttamente da contadine, operaje, domestiche; e quindi trascritte senza farmi lecito di mutar sillaba alla dicitura ingenua primitiva (cit.).
Questa piccola antologia che segue era quindi in una lingua lombarda che sfortunatamente al giorno d’oggi è parlata da pochi e letta da pochissimi. Ho deciso quindi di imbarcarmi nell’avventura di tradurla in lingua, perdendo sicuramente parte della spontaneità e della genuinità originali, oltre alle annotazioni linguistiche dell’Imbriani stesso, e in più facendomi carico dell’incombenza di adattare lo stile spontaneo e ingenuo dell’epoca alle esigenze (di leggibilità ma anche di grammatica e ortografia) di un racconto scritto ai giorni nostri.
Spero di esserci riuscito almeno in parte e pubblico quindi quest’opera facendomi coraggio con le parole dell’Autore: dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia che mediocremente, ha dritto almeno a qualche indulgenza.
Buona lettura!
Milano, maggio 2018
Alberto Pandiani
AVVERTENZA
Da parecchi anni io raccolgo fiabe e novelline popolari. Finora ho sempre accumulato materiale, proponendomi di stampare in seguito ogni cosa assieme, ravvicinando e confrontando le diverse lezioni del medesimo racconto, diverse per dialetto e pel modo in cui svolgesi il tema. Adesso, riflettendoci meglio, ho risoluto di stampare separatamente le novelle raccolte in ciascun dialetto. Procrastino il lavoro di raffronto e di paragone, pel quale è necessario un accumulo preventivo di materiale, che da un solo mal può procacciarsi. Se a me non riuscirà mai di eseguirlo, altri più felice sottentrerà prima o poi nel mio luogo e mi sarà merito l’avergli agevolato il compito.
Comincio dal mandar fuori un gruzzoletto di fiabe, facezie e novelline lombarde, raccolte in Milano stessa e nel contado. Le ho stenografate mentre si narravano da contadine, operaje, domestiche; e quindi trascritte senza farmi lecito di mutar sillaba alla dicitura ingenua primitiva. Non ho cancellata una ripetizione, non un foderamento di parole; non ho supplito lacune. Avrei stimato delitto l’alterar checchessia, anche dove fondatamente poteva credere di migliorare.
Malgrado l’ajuto benevolo di parecchi amici non posso lusingarmi di non essere incorso in errore di sorta: è sempre grandissima temerità l’affaccendarsi intorno ad un dialetto del quale non s’è udito sillaba prima del sesto lustro. Ma dove nessuno fa, chi pel primo fa, quantunque non faccia mediocremente, ha dritto almeno a qualche indulgenza.
Della utilità d’un simigliante lavoro per la mitologia comparata, per la novellistica e per la filologia, credo inutile parlare, perché non suppongo esista al mondo chi la revochi in dubbio. Risparmio al lettore lunghe note intorno alle origini ed alle vicende di ciascuna novella o fiaba, e voglio solo aver dichiarato che non questi ventotto racconti non pretendo mica di aver dato tutti quelli che si raccontano in Lombardia, né la miglior versione di ciascuno. So benissimo essere questo lavoro di quelli, ne’ quali non può mai farsi tanto che non rimanga da fare altrettanto e più.
Firenze, XXIII Marzo MDCCCLXX.
Vittorio Imbriani.
Tredicino
C’era una volta un pover uomo. Tutti lo chiamavano Tredicino perché aveva tredici figli e non sapeva come sfamarli. Un bel giorno disse a questi ragazzi: Andiamo in campagna a cercare qualche anima buona che ci dia del pane o qualcosa d’altro da mangiare
. Camminando camminando, trovarono una cascina e, pieni di ottimismo, decisero di entrare nel cortile. Lì c’era una donna e Tredicino le chiese se potesse dargli qualcosa per sfamare i figli.
La donna rispose: Mi spiace, pover uomo, ma in questo momento non posso darvi niente, anzi vi devo nascondere al più presto. Se torna a casa mio marito, che è un orco, è capace di mangiare tutti i suoi figli. Quindi prima vi metto tutti in cantina, poi gli servirò la cena, in modo che non sia più affamato. Dopodiché, anche col suo permesso, vi farò salire e finalmente potrò sfamare tutti voi
.
Quando l’orco tornò a casa disse: Ucci ucci, sento odor di cristianucci!
. La moglie, prevedendo questa reazione, rispose pronta: Mangia la tua cena, prima che si raffreddi: qua non c’è nessuno
.
Una volta che fu sazio, la moglie confessò: Avevi ragione, caro, ho nascosto in cantina un pover uomo coi suoi tredici figli affamati. Anche noi abbiamo dei bambini: sai che bisogna dare da mangiare a questi poveri sventurati
.
Va bene.
rispose l’orco, Falli salire, sfamali e, quando avranno finito, manda tutti a dormire: ai nostri figli metti le cuffie da notte bianche e agli altri dai quelle rosse
.
Una volta scesa la notte, quando tutti erano addormentati, Tredicino piano piano tolse le cuffie da notte a tutti i bambini e le scambiò: ai suoi le bianche, a quelli dell’orco le rosse.
All’alba, appena sveglio, l’orco si avvicinò ai bambini con le cuffie rosse, li uccise tutti senza pietà ed uscì di casa come se niente fosse. Tredicino assistette sgomento alla scena in silenzio. Aveva immaginato che l’orco tramasse qualcosa e, non appena il malvagio se ne andò, vestì i suoi figli in fretta e furia, e fuggì da quel posto maledetto.
Quando la moglie dell’orco andò a svegliare i figli, scoprì che erano stati uccisi tutti e, quando il marito rincasò, gli urlò: Cosa hai fatto, disgraziato?! Hai ucciso i nostri figli!
. Allora l’orco rispose: Quel maledetto Tredicino: ha capito che li volevo ammazzare e ha scambiato le cuffie e io ho ucciso i miei stessi figli!
Tredicino era già lontano e aveva sempre il problema di sfamare le tredici bocche. Ma le voci girano in fretta e un servitore del re, che aveva saputo di quello che era accaduto, l’aveva riferito al sovrano per sapere se potesse dare qualcosa a questo sventurato e ai suoi figli. Il re disse: Ascolta, digli così: se saprà tornare dall’orco e rubare il suo pappagallo, avrà come ricompensa una bella somma di denaro
.
Una volta saputo della sfida, Tredicino pensò: Come posso riuscire? Proverò ad andare quando l’orco non è in casa. Se troverò la moglie da sola forse riuscirò nell’impresa
. E così andò e vide che, come sperato, c’era solo la moglie dell’orco. Prese il pappagallo ma, non appena catturato, rientrò l’orco che esclamò: Ah, ancora tu! Già me l’hai fatta una volta e adesso sei tornato per la seconda?
. Lo legò e disse alla moglie: "Tienilo d’occhio. Io vado a prendere l’acquaragia, così poi gli darò fuoco. Tu intanto prendi