Ladri a Milano Vol. 3: Una libreria e le sue storie
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Info su questo ebook
In collaborazione con Progetto Aisha, il Covo della Ladra presenta la raccolta di racconti “Ladri a Milano Vol.3”, alla quale hanno partecipato alcuni degli autori che sono passati in libreria nel corso dei suoi primi cinque anni di vita.
Dal giallo alla fantascienza, Ladri a Milano è un inno alle storie e a chi le scrive, ma soprattutto è una festa per tutti i lettori.
Ladri a Milano Vol.3 raccoglie le firme di: Andrea Ferrari, Livia Sambrotta, Alessia Sorgato, Fabiano Massimi, Mauro Biagini, Roberto Ghidorsi, Barbara Cagni, Annelies Romanin, Roberto Pegorini, Andrea Cotti, Angelo Gil Balocchi, Marina Visentin, Ferdinando Salamino, Cristina Stanescu, Roberto Ottonelli, Letizia Vicidomini, Annalisa Stancanelli.
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Ladri a Milano Vol. 3 - Andrea Ferrari
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Ladri a Milano Vol. 3
Una libreria e le sue storie
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Indice dei contenuti
Un covo di Storie
Ladri a Milano Vol. 3
Il Covo
Denti
Amina sta scrivendo
Un sabato in rosso
Cibarsi di Nuvole
Ladri
Il covo di famiglia
La Ladra di Covi
Allergico alla disciplina
32 Centesimi
Vic
Un grappino filosofico
Nel Covo dell’Anima
Colazione per tre
Il sogno del piccolo Carlo
Il bambino nato due volte
Vita
Un Covo di Vipere al Castello di Porta Giovia
Ringraziamenti
Un covo di Storie
Quasi una prefazione (di Maddalena Papa)
Mi chiamo Alessia Martini, sono una libraia e questa non è la mia storia.
Non è neppure la storia di Federica Giambue, la mia socia che ha preso in gestione la libreria mentre io sono altrove. Me ne sono andata da più di un mese e, anche se la versione ufficiale è che mi sono presa un tempo per scrivere il romanzo della mia vita, la verità la conosciamo solo io e lei ed è che devo guarire. Dalle persone, dai libri e dalle storie. Prima di mollare tutto e rifugiarmi il più lontano possibile, ogni cosa gravitava intorno al mio lavoro e trascorrevo le mie giornate ad ascoltare le storie e le vite degli altri, perdendo di vista la mia.
Mi chiamavano la ladra, nel senso che nella libreria che ho messo su in cinque anni di lavoro, rubavo storie e avventure per regalarle ai miei lettori, quando venivano a chiedere consiglio. Ma il lato più affascinante di questa avventura era la possibilità di ascoltare le storie che i lettori mi raccontavano. Dopo una vita trascorsa a studiare, viaggiare, conoscere, ora era proprio la vita che mi veniva a trovare nel mio covo, senza che dovessi più girare il mondo. In libreria sembrava accadere di tutto. Giovani coppie che dichiaravano il proprio amore. Nuove vite che venivano annunciate al mondo. Figli arrabbiati che si sfogavano contro genitori stanchi. Bimbi profumati di biscotto e giochi, pronti ad ascoltare storie meravigliose. Professori di un altro tempo che, una volta a settimana, depositavano un loro ricordo del cuore tra queste quattro, piccole pareti. C’erano pomeriggi in cui i lettori si incontravano per caso e, tra una chiacchiera e l’altra, si trascorreva così il tempo a parlare dell’ultimo libro letto e della ricetta perfetta per cucinare le polpette al sugo. C’erano giornate in cui le difficoltà venivano discusse insieme, ci si confrontava e si cercavano soluzioni anche tra sconosciuti.
Poi, però, qualcosa è cambiato. Non so dire se in me o negli altri. E non saprei dire neppure bene come. Ma ricordo esattamente quando me ne accorsi.
Quella mattina, sopra Milano, il cielo era terso e di un azzurro cobalto come raramente accade nella nostra città, sempre avvolta dalla nebbiolina grigia dello smog. Avevo appena alzato la saracinesca e sulla soglia della libreria lo sguardo era andato a tutta quella luce inaspettata che illuminava la città, il nostro piccolo vicolo, l’insegna che dondolava affissa al muro, con la sua scritta bianca libri
. In altri giorni mi sarei commossa davanti a quella luce improvvisa. Ma non quella mattina. C’era un angolo buio, nel fondo della mia anima, che tutta quella bellezza non riusciva a rischiarare. Era nato qualche giorno prima, durante l’ennesima discussione con l’ennesimo fornitore, a libreria piena di clienti, a ridosso di una delle presentazioni più importanti del mese, stretta tra chi cercava di addossare la colpa ad altri, e chi tentava di farla ricadere su noi libraie. In quel momento mi sono accorta che alcune parole non le pronunciava più nessuno.
Un grazie
, un per favore
, uno scusa
, un come stai
erano frasi scomparse. Quel pensiero è stato come una macchia d’inchiostro che cade su un foglio bianco mentre stai cercando di scrivere qualcosa. In poco tempo ha coperto tutto ciò che di bello c’era stato sino a quel punto. E tutte le storie che passavano dalla libreria, quelle che intercettavo in strada, rientrando a casa, quelle che leggevo sui libri e giornali, così come quelle che ascoltavo in radio.
Era come se ne intravedessi il meccanismo segreto, la spinta che le generava e che portava le persone a raccontarle. E avevo capito, per la prima volta, che a quelle storie non importava che qualcuno le ascoltasse. Per la maggior parte di loro, l’importante era solo esistere, prepotenti, prevaricanti, maleducate. Non importava il dove e il come, nè tantomeno il quando. Loro volevano solo essere raccontate perché qualcuno potesse dire che belle
, oppure mi spiace
, o ancora davvero incredibile
. Se poi arrivava un consiglio, un confronto, un però forse avresti potuto
, facevano a gara a zittire l’interlocutore, prevaricando con l’ennesimo ma io
.
Così, in quella mattina, sulla soglia di un piccolo vicolo di una delle città più caotiche, mi sono accorta che qualcosa non andava. E che quel qualcosa ero io. O forse erano anche le storie degli altri. O, peggio, ero io a non essere più interessata alle storie degli altri.
Me ne sono andata, così su due piedi, e sino a oggi, l’unica a sapere tutto questo era la mia socia, Federica. Ha preso le redini della libreria, aggiornandomi ogni sera, dopo cena, su come vanno gli affari e le persone che passano dal piccolo vicolo su cui affaccia la nostra vetrina. Un modo per non perdersi di vista, ma a debita distanza.
E andava tutto bene, sino ad oggi. Nella buca delle lettere del mio rifugio, ho trovato questo libro che ora state leggendo anche voi. Non racconta la mia storia, né quella di Federica. Ma racconta le storie degli scrittori e dei lettori che sono passati dalla nostra piccola libreria in questi ultimi anni. Racconta le storie di chi, invece di mettere davanti un io
alla propria narrazione, ha messo davanti un tu
o un loro
, di chi si è messo in gioco e, nonostante tutto, si è messo in ascolto. Sono storie che raccontano storie. E sono storie che raccontano anche questa piccola libreria, spersa tra le mille librerie più alla moda di una città sempre in corsa.
Le ho lette tutte d’un fiato e mi hanno fatto venire tanta nostalgia di quel tempo in cui si diceva ancora grazie
, per favore
, scusa
, come stai
.
Mi chiamo Alessia Martini, sono una libraia e questa non è la mia storia.
Non è neppure la storia di Federica Giambue, la mia socia che ha preso in gestione la libreria mentre io sono altrove, mentre io cerco di guarire. Me ne sono andata perché non sentivo più passione in quello che stavo facendo.
Ma forse, dopo aver letto questa raccolta, potrei anche pensare di tornare.
Ladri a Milano Vol. 3
Una libreria e le sue storie
In un piccolo vicolo di una grande città.
In una libreria ancora più piccola.
C’è un menù che non avete
ancora assaggiato.
Ed è un menù
per veri gourmet della lettura.
Il Covo
di Andrea Ferrari
Milano, ottobre 1978, in una via di periferia
L’aria dell’alba è tagliente come una coltellata.
Il freddo ha un sapore cattivo e sferza la gola fino alle tonsille.
L’odore della fabbrica e dei lacrimogeni, in piazza, è solo un ricordo lontano.
Fumo per scaldarmi, la sigaretta nascosta nel palmo della mano.
L’auto puzza.
Cicche spente, colonia da quattro lire e uomo stantio.
Siamo in quattro, uno più teso dell’altro.
I mitra, già pronti, ci stanno in grembo come bimbi in fasce.
Li reggiamo con la disinvoltura di padri alle prime armi.
Fra qualche istante potremmo ammazzare i figli di qualcuno, o potremmo morire. Entrambe le cose non ci piacciono.
Per lo meno non a tutti.
Il Comando è stato chiaro: il Generale ha detto vivi o morti.
Io so che morti sarebbe meglio per tutti. Per noi, per loro e anche per me. Però accoppare un cristiano non è una passeggiata per nessuno. Nemmeno per noi che siamo addestrati a farlo.
Stazioniamo in una via qualsiasi di un quartiere operaio della grande città di Milano.
Un insieme di case del popolo dove convivono, con una certa armonia, milanesi e terroni.
L’ora è presta, ma c’è già molta gente in giro nonostante il freddo e la nebbiolina di fine ottobre.
Io non ci sono nato in questa città e credo che fra qualche tempo mi trasferiranno. Però, da quando sono arrivato, ho avvertito subito un certo non so che. Come se ci fossimo annusati, alla maniera dei cani, e ci fossimo riconosciuti. Quest’anno le vacanze di Natale me le passo in città. Non ci torno al paese. Tanto mia madre non fa che dirmi di trovarmi una fidanzata e di sposarmi. Vuole i nipotini, ma io ho venticinque anni. Per certe cose ci sarà tempo più avanti, quando tutto sarà finito e avremo vinto questa guerra sporca.
Sporca e incivile.
Bazzichiamo il circondario da quasi tre mesi.
Quando abbiamo iniziato faceva un caldo da morire e sull’asfalto penso ci siano ancora le mie impronte, lasciate mentre facevo la posta all’appartamento del primo piano.
Non farsi notare è impossibile.
Quelli bravi, e io sono uno fra quelli, non si fanno riconoscere.
La differenza sembra sottile, ma è grossa quanto una casa quando l’operazione sta per finire.
E ogni fine rappresenta un nuovo inizio.
Il prestinaio, qui lo chiamano così, in fondo alla via ha già tirato su la saracinesca e le luci della bottega sembrano un’alba da poco. Niente a che vedere con quella che si può solo intuire in cielo, là in fondo, nascosta dietro i volti dei palazzi scuri.
In lontananza, un tram esce dal deposito e sferraglia fiducioso per il primo viaggio del mattino. Sembra un esploratore del Klondike. A sera rientrerà sfatto, come tutti gli operai che partono da questi civici per le fabbriche di Sesto San Giovanni e di Lambrate. Sempre più in crisi e sempre più vuote.
Geraci tossisce che sembra uno con la tubercolosi. Gli schizzi di saliva imperlano il parabrezza proprio in corrispondenza del volante.
Geraci viene da un paese sulle montagne di Enna, fuma come un turco e guida come un pilota di rally.
Dietro ci sono Troise e De Zorzi, rispettivamente da Napoli e Udine. Sembrano il diavolo e l’acqua santa per quanto sono diversi. Però sanno sparare bene e in comune hanno una devozione quasi maniacale per la Benemerita.
Io sono quello più tiepido di tutti e infatti comando il nucleo d’intervento.
Mitra a parte, chi passasse di fianco alla nostra auto civetta, una 128 con qualche ammaccatura studiata ad arte, vedrebbe solo quattro muratori intenti a prender servizio in uno dei cantieri in fondo a via Palmanova. Un’infinita linguaccia di asfalto che sta a poche centinaia di metri da qui.
Il portone che stiamo puntando è ancora chiuso.
Solo il vecchietto del pianterreno ha portato fuori il cane e non è ancora rientrato.
Bravo cittadino il vecchietto. Anche la moglie. Quando li abbiamo interrogati sui ragazzi del primo piano sono stati molto milanesi. Dubitavano, non conoscevano nessuno e non volevano problemi.
Però, poi, come i bravi milanesi sapevano osservare, discreti, senza essere invadenti, e avevano l’orecchio fino. Quindi pensavano che gli sbarbati del primo piano fossero studenti. Almeno due dei quattro che ci vivevano. Gli altri dovevano essere impiegati o operai, ma non nell’industria pesante. Il ragazzo e la ragazza più giovani avevano l’aria di stare insieme. Gente discreta. Pochi rumori, fatto salvo il continuo ticchettio, un picchiettare incessante come di macchina da scrivere.
Qualcuno stava scrivendo una tesi, forse. Oppure le batteva a macchina, dal tardo pomeriggio fino a sera, per arrotondare. Sembravano gente operosa, in ogni caso. Gente da Milano.
Stiamo per scendere e aggredire il portone.
Raccomando a tutti di tirare giù il passamontagna e do il via all’operazione.
Attraversiamo di corsa la strada. Addosso ci sentiamo gli occhi del garzone del panettiere che ci seguono, increduli, fino a quando non scompariamo dentro al palazzo. Abbiamo le chiavi. Uno dei nostri obiettivi ha perso il borsello su un autobus, qualche tempo fa. Noi, che gli eravamo alle terga, lo abbiamo recuperato e abbiamo ringraziato la sua dabbenaggine. Da lì in poi, tutta discesa. Gli appostamenti, le foto segnaletiche che combaciavano con quelle scattate dall’appartamento di fronte. Lei, una primula rossa, nome troppo romantico per una con il suo pedigree di rivoluzionaria e criminale. Latitante da qualche mese, in predicato di almeno un ergastolo. Lui, quello che hanno scambiato per il fidanzato, un altro pezzo da novanta. O per lo meno, presunto tale. Gli altri due, anche loro rivoluzionari di un certo calibro che ci hanno portato a quattro appartamenti in città più uno in Toscana.
Un colpo grosso per noi. Un colpo da non sbagliare per nessuna ragione al mondo. Un colpo da biliardo, con le biglie che girano. Flirtano con il castello. Birillo per birillo. Centimetro per centimetro del tappeto verde. E, mentre tutti guardano il birillo rosso, nell’attesa che venga abbattuto, nessuno si accorge della palla che per troppa foga finisce in buca.
Bevuto.
Il portone si apre, pesante ma senza nessuna resistenza.
Nell’atrio e sulle scale profumo di detersivo e candeggina.
Pulito.
La luce dell’androne, un grosso lampadario impiccato al soffitto altissimo, illumina il pavimento di graniglia e lo fa sembrare una distesa di caramelle appena cadute di tasca a un bambino.
Andrà tutto bene.
La porta ci si para davanti in tutta la sua impotenza. Una lastra di legno, testa di moro, con un telaio di acciaio spesso poco più di un foglio di carta velina.
Potremmo abbatterla senza usare l’ariete che Geraci brandisce come la clava di un cavernicolo, ma preferiamo fare le cose per bene.
«Carabinieri!» grido. «Arrendetevi, stiamo entrando.»
Il passamontagna mi gratta la fronte, sembra quasi scorticarmi la faccia. Pare volersi fondere con il mio viso e con i miei baffi da uomo. Come a diventare un tutt’uno. Maschera, faccia, mani e mitra. Un individuo senza volto, una macchina da morte. O semplicemente quello che ci si aspetta da chi sceglie una parte ben precisa. Uno che distingue fra giusto e sbagliato. Uno che non è mai in borghese.
Faccio un cenno con il capo e, solo allora, Geraci sfonda la porta.
Viene giù come con uno schiocco che mi ricorda quando mio padre finiva il suo bicchiere di vino appena fatto. Un vino duro come la vita, che gli torceva la bocca e gli ricordava di essere vivo in barba a tutto e tutti.
Geraci si fa da parte e lascia campo libero a Troise e De Zorzi. Io sto dall’altro lato della porta.
Ce li troviamo di fronte in mutande, gli occhi pesti di sonno.
La donna ha la faccia di chi sa cosa fare. Non ha paura, sembra più scocciata. È già stata catturata una volta, in una situazione simile. Sa che il prossimo viaggio sarà senza ritorno.
Riesce perfino a essere carina, ma in modo diverso dall’ultima volta che l’ho vista in foto. Invecchiata, direi.
Quello che faceva la parte del fidanzato ha la canottiera sporca di rosso, forse sugo, e sposta lo sguardo da me alla macchia come se volesse sincerarsi di essere ancora vivo. Uno scherzo. Nessuno muove un muscolo. Non una parola, niente di più. Si sono arresi e immediatamente chiusi in un mutismo inquietante. Gli altri due sono praticamente già ammanettati quando sento arrivare il cellulare che li tradurrà in carcere. Di lì, la trafila sarà l’inizio del Calvario. Per loro e per noi. Loro si dichiareranno prigionieri politici, poi verranno torchiati – ci siamo capiti – e non tutti sapranno resistere e mettere l’idea e la rivoluzione davanti al dolore. Fisico e morale. La rivoluzione fra quattro mura è un fatto mentale. Qualcosa che non è per tutti. Altre case andranno perdute, altri regolari, come si dice, finiranno nella rete e il castello del popolo cadrà, fiaccato dall’assedio dello Stato e di chi con lo Stato scende a patti.
Per noi, che stamattina abbiamo vinto il nostro round, si profila un’infinita attività di certosina repertazione e analisi. Ogni buco di questo covo andrà aperto, spulciato e richiuso con coscienziosa perizia. Una volta di più saremo poco altro che braccia armate che sottostanno a volontà superiori. Ordini da eseguire, compiti da portare a termine e poco, pochissimo spazio per pensare. Ma in fondo va bene così. Da una parte all’altra della barricata. Le ragioni di chi combatte sono sempre altrove, lontano dal fronte.
Le tapparelle sono abbassate, le tende tirate, e la lampada del salotto cerca di vincere la sua battaglia contro l’oscurità. Non appena l’appartamento è sgombrato dai compagni
ci liberiamo dei passamontagna e ci dedichiamo a una prima ispezione. Sul tavolo, grosso e rotondo come la ruota di un camion, la macchina da scrivere, fogli di carta copiativa e un corposo malloppo di carte e lettere.
Me ne impadronisco e inizio a leggere qua e là, per farmi un’idea e per confermare che questa base operativa è calda e molto importante. Il malloppo è roba che scotta. Sono le lettere del Presidente, indirizzate a tutto l’arco costituzionale. Ci sono quelle alla direzione della Democrazia cristiana:
"Parlo innanzitutto della DC alla quale si rivolgono accuse che riguardano