Paolo VI e il Novecento: Una poetica della vita
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Paolo VI e il Novecento - Giacomo Scanzi
Giacomo Scanzi
PAOLO VI E IL NOVECENTO
Una poetica della vita
ISBN: 9788838247415
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Prefazione
Introduzione
I. UNA DIAGNOSI DEL NOVECENTO
In istile moderno
Milano: la modernità si fa carne
La vita, il vero sacrificio alla modernità
II. IL CANTO ALLA VITA
All’inizio un amore
Il sacerdozio: un amore senza confini
L’amore ha bisogno di metodo
L’amore ha bisogno di un luogo
L’amore ha bisogno di un linguaggio
III. L’UNDICESIMA ORA
IV. FRAMMENTI DI UN DISCORSO D’AMORE
Amore
Bellezza
Chiesa
Demonio
Ecumenismo
Famiglia
Gesù Cristo
Immortalità
Linguaggio
Matrimonio
Natura
Ottimismo
Pace
Ragione
Santità
Tempo
Uomo
Vita
Universale
Studium
94.
Nuova serie
Spiritus veritatis / 18.
A Paola, Carolina, Edoardo e Federico
Giacomo Scanzi
PAOLO VI E IL NOVECENTO
Una poetica della vita
Prefazione di Giovanni Maria Vian
Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura
ed Universale
sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.
Realizzato con il contributo della Fondazione Giulio
e Giulio Bruno Togni e Paolina Cantoni Marca Togni
di Brescia.
Copyright © 2018 by Edizioni Studium - Roma
ISBN 9788838247415
www.edizionistudium.it
Prefazione
Una prospettiva diversa dalle ricostruzioni abituali è quella di questo nuovo libro di Giacomo Scanzi su Paolo VI. Giornalista dalla solida formazione storica e intellettuale vivace, l’autore aveva già affrontato la figura di Montini, alla vigilia della beatificazione, in un tentativo intelligente dal taglio biografico. Ma già il titolo, Paolo VI, fedele a Dio, fedele all’uomo , indicava l’ambizione di una narrazione non facile, che non si fermava alla vicenda esteriore ma puntava più in alto, mirando all’essenziale. In questo altro libro, quasi una seconda parte, il compito che si è prefisso Scanzi è ancora più arduo, nella volontà di spiegare direttamente l’uomo e il cristiano di fronte al suo tempo, straordinario e drammatico, come Montini lo descrive nei suoi scritti.
Testi che l’autore conosce benissimo, che domina con sicurezza e che ha messo larghissimamente a frutto in queste pagine, al punto che nel libro è la voce stessa di Paolo VI a rispondere alle domande di Scanzi. Questioni non banali, di chi vuole capire il rapporto con il Novecento di questo cristiano divenuto papa. E non banale risulta la scelta di sostenere le tre parti del libro con un’appendice costituita da un dizionario che colloquialmente l’autore non esita a definire amoroso.
Frammenti di un discorso d’amore ha dunque intitolato senza paura Scanzi questa ultima parte del suo libro, che si apre appunto con la voce amore. «E qui ci si presenta una formidabile questione: non è questa parola fra quelle più usate, e perciò fra le più difficili a definirsi?», si chiede nel 1972 il Papa (e s’interroga evidentemente l’autore). Seguono: bellezza, chiesa, demonio, ecumenismo, famiglia, Gesù Cristo, immortalità, linguaggio, matrimonio, natura, ottimismo, pace, ragione, santità, tempo, uomo, vita. Una scelta naturalmente personale, ma non piatta né scontata. Che ha il coraggio d’inoltrarsi in una massa di testi, spesso poco noti benché il più delle volte pubblici. E che risalgono direttamente alla scrittura del Pontefice, in una misura mai più registrata, e non solo dell’arcivescovo, del prelato e del giovane Montini.
L’appendice dunque non solo sostiene il libro, ma bilancia la scelta di scandirlo in tre parti originali: sulla diagnosi del Novecento, sulla vita, sulla morte. E questo bilanciamento è necessario per scansare l’impressione di un papa pessimista che si potrebbe trarre dalla breve introduzione biografica, intesa a favorire l’indispensabile contestualizzazione storica, dalle prime due parti, dove tuttavia altri testi avrebbero potuto aiutare di più a capire l’uomo Montini. «Forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell’amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero», scrive Paolo VI in un appunto posteriore al 1964 dove medita su se stesso.
Scanzi ha in realtà solidi motivi per fondare la sua ricostruzione della diagnosi montiniana, raffrontata con originalità al pensiero di Marcuse. Quella di Paolo VI è infatti un’analisi lucida della distanza, peraltro non incolmabile, tra contemporaneità e tradizione cristiana. Diagnosi che si fonda sulla riflessione del giovane Montini: rivolgendosi all’amatissima nonna paterna Francesca Buffali il prete non ancora ventitreenne ragiona della «speranza di far rivivere, in istile moderno, la sapienza che alimentò l’età di cui tu ci porti presente il ricordo».
Altrettanto fondata nelle radici più autentiche, quelle della famiglia, è l’interpretazione della dimensione riassunta dall’autore nella parola vita. Parola che torna nell’enciclica più controversa, e incompresa, del Papa: l’ Humanae vitae, appunto, nel cui cinquantenario Montini è canonizzato e sulla quale Scanzi insiste molto, con ragione. Del resto, nel bilancio solenne del pontificato quaranta giorni prima della morte, è lo stesso Paolo VI a evocarla, ma insieme alla Populorum progressio, che nella visione del libro resta invece solo sullo sfondo.
Suggestiva e convincente è infine la terza parte, sulla morte. Su questa, e sul trascorrere inesorabile del tempo, Montini riflette in testi bellissimi, e merito dell’autore è quello di metterli in luce di nuovo. In una ricostruzione complessiva che, grazie a uno sguardo inconsueto, permette di avvicinarsi con originalità a Paolo VI. Un Papa dimenticato, ma anche un uomo e un cristiano che come pochi ha compreso, e amato, il suo e il nostro tempo.
Giovanni Maria Vian
Introduzione
Quando Giovanni Battista Montini nasce, il 26 settembre 1897, si sta chiudendo un secolo straordinario, ricco di grandi trasformazioni. L’Ottocento europeo era iniziato con le baldanze napoleoniche, estrema appendice della Rivoluzione francese, e con il suo miraggio di unificazione europea sotto le insegne imperiali. Si stava chiudendo, quel secolo, con un’Europa che covava nel suo intimo già tutti i semi di una duplice tragedia. Che avrebbe tuttavia affidato al secolo entrante. L’Italia aveva finalmente trovato la sua unità, ma l’aveva fondata su basi fragili, alimentando al suo interno una duplice, vivacissima opposizione: quella socialista e quella cattolica. Quest’ultima radicava nelle modalità stesse con cui il Risorgimento aveva portato a termine il progetto unitario, sia militarmente sia socialmente: contro il Papa e contro il popolo ad esso fedele.
Questi ultimi anni dell’Ottocento chiudono definitivamente la fase eroica dell’opposizione cattolica. Quella degli Albertario, dei fratelli Scotton, dei Medolago Albani, dei Paganuzzi e dello stesso Giuseppe Tovini, il padre del movimento cattolico bresciano che, con Giorgio Montini, papà di Giovanni Battista, aveva condotto il cattolicesimo bresciano sulla strada nuova e moderna dell’accettazione di fatto dell’Italia unita, come arengo culturale e politico in cui portare la battaglia per una nazione libera e cristiana, giusta e solidale. Le cannonate di Bava Beccaris sulla folla che chiede pane a Milano, nel 1898, chiudono definitivamente tale fase. Il Novecento si apre addirittura con un regicidio: a Monza la monarchia sabauda lascia sul terreno Umberto I. Ma il secolo, per quanto passerà alla storia come secolo breve si preannuncia lunghissimo, interminabile. E Giovanni Battista Montini lo attraverserà quasi per intero.
Brescia lascia segni indelebili nel futuro Paolo VI. Non solo perché è la sua città di nascita, ma perché in quei primi decenni del Novecento, che per il giovane Giovanni Battista sono decisivi per la formazione e per l’affinamento di una sensibilità e di un linguaggio, la città di Faustino e Giovita, ma anche di Arnaldo, costituisce un luogo di sperimentazione di un’esperienza di fede tanto profonda quanto attenta e sensibile ai cambiamenti che stanno avvenendo a grande velocità nella società italiana e nello stesso popolo di Dio.
La vocazione sacerdotale di Giovanni Battista Montini sboccia in tale contesto, un humus fatto di contemplazione e di azione, di spiritualità profonda e di impegno radicale, di linguaggi della fede e insieme della cultura e della politica.
L’Oratorio della Pace è un punto di riferimento per Montini. Lì ha modo di incontrare padre Giulio Bevilacqua e padre Paolo Caresana. Sono già essi stessi l’espressione, in unità, di due sensibilità differenti che sopravviveranno in Montini per sempre. La Pace è un luogo di amicizia, in cui il giovane Montini ha modo di intrecciare relazioni che resteranno nel ricordo per tutta la vita. In questo contesto sboccia la vocazione che va a collocarsi nell’ambito più ampio della Chiesa di Brescia, guidata da mons. Giacinto Gaggia.
Il desiderio del novello sacerdote è la parrocchia, il nucleo costitutivo della Chiesa, dove l’incontro con il popolo di Dio è diretto e, soprattutto, è vivo l’incontro con i semplici, con i poveri, con gli umili, la radice della Chiesa. Ma le numerose linee spezzate che caratterizzeranno la vita di Montini lo portano altrove. A Roma, a contatto con la diplomazia vaticana che, nei primi decenni del Novecento, è punto attivo e imprescindibile delle relazioni politiche mondiali; poi nella fondamentale e dolorosa esperienza della guida spirituale della Federazione degli universitari cattolici (Fuci) dove Montini fa l’esperienza delle inquietudini giovanili e della forza culturale della fede. In questo caso ha modo di misurarsi con le grandi tensioni culturali che caratterizzano gli anni Trenta del Novecento e che diverranno una sorta di incubatrice della modernità. Ma anche tale esperienza ha fine, e drammaticamente. E non sono assenti, in tale sbocco, le invidie, le tensioni, le contrapposizioni che caratterizzano la Chiesa di questo periodo e che trovano nel giovane sacerdote bresciano la vittima sacrificale.
La seconda guerra mondiale travolge il mondo e la Chiesa stessa. Chiamato di nuovo a servire la Chiesa col linguaggio della diplomazia
, Montini diviene punto di riferimento dell’attività della Santa Sede durante il drammatico pontificato di Pio XII.
Il ritorno alla libertà e alla democrazia pone nuovi interrogativi. L’esperienza politica dei cattolici, che raccoglie almeno in parte la tradizione politica del movimento cattolico italiano e del Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, nel nuovo contesto storico non è pacificamente metabolizzata dall’istituzione ecclesiastica e in essa si attestano tensioni e tentativi per orientarla nella sua evoluzione. La paura del comunismo si è sostituita all’esperienza drammatica del fascismo. Ma ormai i connotati della società italiana sono profondamente cambiati e non si possono più utilizzare vecchi criteri di giudizio in un contesto caratterizzato da un benessere sempre più diffuso, da una libertà rivendicata e praticata, da stili di vita che dicono di un processo di secolarizzazione ormai avviato. E ancora Montini si trova nel mezzo dell’equivoco e ne paga il prezzo più alto.
Una nuova linea spezzata lo porta nel cuore della modernità, a Milano, la terra di Ambrogio e Carlo. Dal 1955 al 1963, la diocesi ambrosiana diverrà terreno fertile per mettere in pratica, sul piano spirituale, pastorale e culturale, una nuova stagione di relazioni tra la Chiesa e la società moderna, tra Cristo e l’uomo contemporaneo. Un prototipo conciliare, si potrebbe definire l’esperienza milanese, prima che il Concilio maturi nel cuore di Giovanni XXIII.
Alla morte di papa Giovanni, l’ultima linea spezzata porta il cardinale di Milano al soglio pontificio. La sua elezione, il 21 giugno 1963, non è inattesa. Solo Montini se ne stupisce restandone come atterrito. È una chiamata di cui, per tutta la vita, si domanderà il senso, la ragione, la finalità e che solo con gli occhi della fede saprà accogliere con animo grande e sereno.
Il Concilio, la sua conclusione, è il cuore del pontificato di Paolo VI. Non solo perché esso resterà il faro di tutta l’esperienza papale montiniana, ma perché esso diverrà il linguaggio e la sostanza della relazione complessa della Chiesa con il mondo.
La cosiddetta modernità, tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta (Paolo VI muore il 6 agosto 1978), ormai ha imposto i suoi stili di vita e i suoi linguaggi e, sul piano momentaneo della storia, Paolo VI appare come sconfitto. Quella modernità che lo aveva interrogato per tutta la vita, di cui aveva raccolto la sfida nella certezza che fosse possibile un dialogo aperto e franco, costruttivo e amorevole tra il messaggio di Cristo e della sua Chiesa dalle radici millenarie e sempre attuali, ed un mondo in rapida trasformazione, sembra avere la meglio.
L’uomo con il suo mistero, con la sua grandezza e con la sua abiezione, resta il centro, il cuore, dello sguardo amorevole di Paolo VI. Il papa lo sa, nulla è perduto fintanto che si preferirà la sconfitta alla mimetizzazione. Laddove la ragione modernizzata non sa più cogliere le verità che vengono dalla natura stessa dell’uomo, ecco farsi strada la visione poetica ed epica della vita che il papa, sempre più vecchio e stanco, trasformerà in un vero e proprio canto alla vita, all’uomo e al suo misterioso destino.
Le pagine che seguono ripercorrono proprio i sentieri montiniani nel loro dispiegarsi prima in una grande visione diagnostica del Novecento, sulla scorta delle straordinarie relazioni culturali che Montini intesse nel corso degli anni. Letture, incontri, amicizie: tutto concorre ad immetterlo nel grande novero dei pensatori critici della modernità.
L’uomo e la sua vita sono il cuore di tale diagnosi, per nulla intellettualistica, ma orientata sempre ad offrire una risposta di salvezza e di libertà ad un uomo sbalordito dalle mode, dai linguaggi, dalla sua ansia scomposta di liberazione.
La vita, nella sua dimensione parziale ed assoluta, nelle sue manifestazioni storiche e nella natura misteriosa del dono, diviene così il filo conduttore di un magistero lungo più di mezzo secolo. Celebrare la vita, promuoverla nella sua giusta dimensione, ridonarle un linguaggio pertinente: questo è l’impegno che caratterizza la sacerdotalità montiniana. In essa si celebra il Cristo e la sua semantica amorosa. Su questo percorso, attingendo agli scritti giovanili come ai documenti episcopali e soprattutto agli Insegnamenti pontifici, si è cercato di seguire Paolo VI, rintracciandone le orme lessicali, le grandi visioni poetiche, il suo stesso discorso amoroso. Questa è la natura dei frammenti che chiudono l’opera, come in una sorta di piccolissimo dizionario della poetica montiniana. Perché è nella parola, nella sua modulazione umana, che è possibile rintracciare l’innesco vitale della poetica montiniana. Parola carne, parola vita. Ovvero proprio il terreno su cui la modernità ha ingaggiato la sua polemica distruttiva e mistificatrice. Rubare un linguaggio pertinente ad un popolo equivale a rubarne l’anima, cancellandone ogni traccia, sviandone il percorso.
Per questo l’uomo moderno, a Paolo VI, si presenta innanzitutto, più che uomo peccatore, come uomo perso.
I. UNA DIAGNOSI DEL NOVECENTO
«È contro l’uomo che dovete difendere l’uomo, l’uomo minacciato di non essere altro che una parte di se stesso, ridotto, come si è detto, a una sola dimensione (cfr. per es. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione )» [1] .
Il 10 giugno 1969 Paolo VI interveniva a Ginevra al Bureau international du travail, con un passaggio singolare che faceva riferimento ad un’opera fondamentale di un grande pensatore dell’Occidente come Herbert Marcuse [2] , grande teorico della crisi, immettendosi così in una linea di lettura del Novecento che dimostrava di conoscere in profondità quanto venivano elaborando i protagonisti della Scuola di Francoforte. E le citazioni del filosofo tedesco emigrato negli Stati Uniti, ricorreranno spesso negli scritti montiniani, in chiave critica talvolta, ma anche come riferimento ad una diagnosi che, almeno per un piccolo tratto, sembrava potersi sviluppare su un sentiero comune, anche – e forse soprattutto – nel linguaggio, nell’ordine del discorso [3] .
Non è necessario sottolineare quali fossero le differenze tra il Papa e quegli intellettuali che andavano analizzando il mondo moderno attraverso una disamina critica della società post-industriale che affondava le proprie radici in una rivisitazione post-bellica del pensiero marxiano.
Tuttavia, almeno in una prospettiva diagnostica del Novecento che si andava a concludere con esiti che né il Papa né quei pensatori cresciuti intorno a Theodor Adorno [4] e a Max Horkheimer [5] , avrebbero potuto immaginare, sono rintracciabili punti di contatto che appaiono sorprendenti, perfino nell’uso della parola.
Se a ciò si aggiunge che, al di là del Reno, un altro grande scrittore come Albert Camus [6] , aveva colto quasi vent’anni prima i drammatici collassi antropologici che la modernità provocava sotto la cenere di un’apparente euforia democratica e consumistica, attraverso un’opera decisiva come L’uomo in rivolta [7] , ci si rende conto che vi era in Europa un consistente numero di spiriti che sapeva vedere oltre la siepe delle apparenze e appuntava il proprio sguardo proprio sulla natura della crisi e sul suo soggetto: era l’uomo che stava cambiando e soprattutto stava cambiando la sua umanità. E non è forse un caso che, a distanza di quasi trent’anni dalla morte di Paolo VI, portate alle estreme conseguenze le deformità della modernità e senza che se ne potesse vedere un approdo, il 19 gennaio 2004, l’ultimo rappresentante della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas [8] , si ritrovava a dialogare con un futuro Papa, Joseph Ratzinger, proprio sul tema centrale che attraversava la riflessione dei loro rispettivi predecessori [9] . E poco più tardi, dallo stesso Habermas veniva addirittura la proposta di un’alleanza tra «la ragione rischiarata della modernità» e «la coscienza teologica delle religioni mondiali». L’obiettivo era «mobilitare la ragione moderna contro il disfattismo che le cova dentro» e che prende corpo «sia nella declinazione post moderna della dialettica dell’illuminismo sia nello scientismo positivistico» [10] .
La questione riguarda direttamente il Novecento. Il secolo che Giovanni Battista Montini ha attraversato quasi per intero, cogliendone gli orrori generati dalle due guerre mondiali, la storicizzazione del male, le rapide trasformazioni socio-culturali, e poi l’evoluzione delle conoscenze umane, lo sviluppo della scienza, il potere della tecnologia, la sua presuntuosa amoralità e i suoi disastrosi effetti sull’uomo, annichilito nella sua personalità e allontanato dalla sua radice, finanche privato di un discorso capace di dire il mondo e perfino se stesso. Ma soprattutto Montini si rende perfettamente conto che la questione diviene drammatica nel momento in cui la rivolta abbandona il circoscritto ambito dei libertini o dei dandies, e diviene rivolta di massa, di popolo e investe, surrettiziamente,