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Il Re degli orchi: La leggenda di Drizzt 20
Il Re degli orchi: La leggenda di Drizzt 20
Il Re degli orchi: La leggenda di Drizzt 20
E-book563 pagine8 ore

Il Re degli orchi: La leggenda di Drizzt 20

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Info su questo ebook

Drizzt è tornato per  affrontare un mondo cambiato per sempre! La pace precaria stipulata tra i nani di Mithral Hall e gli orchi del nuovo Regno di Many-Arrows non è destinata a durare a lungo. Le varie tribù degli orchi, unite sotto la guida di Obould, sono in lotta tra loro e Bruenor vuole approfittarne affinché si concluda una guerra che ha quasi distrutto il suo regno e ucciso i suoi amici.
Per riportare la pace nelle regioni della Spina Dorsale del Mondo, forse ci sarà bisogno non solo delle armi, ma anche della saggezza.
I potenti, da entrambe le parti, dovrebbero cambiare il modo in cui vedono l’un l’altro e iniziare a confrontarsi. Ma non sarà facile...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita16 dic 2019
ISBN9788834436059
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    Anteprima del libro

    Il Re degli orchi - R.A. Salvatore

    Parte 1

    Il perseguimento

    della verità superiore

    Una delle conseguenze del vivere un’esistenza che abbraccia secoli anziché decenni è l’ineluttabile maledizione del dover guardare continuamente il mondo attraverso il prisma focalizzatore usato dagli studiosi di storia.

    Dico «maledizione» – quando in verità credo sia una benedizione – perché qualunque speranza di prescienza richiede un incessante interrogarsi su ciò che è, e una radicata convinzione nella possibilità di ciò che potrebbe essere. Osservare i fatti con gli occhi di uno storico richiede da parte mia l’ammissione che le mie iniziali e intense reazioni a questi fatti apparentemente importanti possano essere sbagliate, che il mio «istinto viscerale» e le mie necessità emozionali possano non reggere alla luce della ragione nella visuale più ampia; o persino che questi fatti, così rilevanti nella mia esperienza personale, possano non essere tali nel mondo esterno e durante il lungo e lento scorrere del tempo.

    Quante volte ho visto che la mia prima reazione era basata su mezze verità e su intuizioni preconcette! Quante volte ho scoperto che le mie aspettative venivano completamente rovesciate o scartate, a mano a mano che gli eventi si svolgevano e giungevano a completamento!

    Perché l’emozione annebbia la razionalità, e molte prospettive diverse guidano l’intera realtà. Osservare i fatti correnti con l’ottica di uno storico significa tenere conto di tutti i punti di vista, persino di quelli dei nostri nemici. Significa conoscere il passato e servirsi della sua storia come di uno stampo per le aspettative. Significa, principalmente, porre in primo piano la ragione a scapito dell’istinto, rifiutarsi di demonizzare ciò che si odia, e, soprattutto, accettare la propria fallibilità.

    E così vivo sulle sabbie mobili, dove gli assoluti si dissolvono col passaggio dei decenni. È un’estensione naturale, credo, di un’esistenza nella quale ho frantumato i preconcetti di innumerevoli persone. A ogni sconosciuto che giunge ad accettarmi per quello che sono, e non per quello che lui o lei si aspettano che sia, io agito le sabbie sotto i suoi piedi. Indubbiamente, si tratta di un’esperienza di crescita per ciascuno di essi, ma tutti siamo creature fatte di rituali, abitudini e nozioni accettate di ciò che è e di ciò che non è. Quando la cruda realtà si scontra contro le aspettative interiorizzate – quando per esempio vi imbattete in un drow perfettamente integrato nel mondo di superficie! – allora si crea una dissonanza interna, capace di creare altrettanto disagio di una piena di primavera.

    C’è libertà nel vedere il mondo come un quadro in fase di esecuzione, e non come una scena già raffigurata, ma ci sono momenti, amico mio…

    Ci sono momenti.

    E uno di questi è proprio davanti a me adesso, con Obould e le sue migliaia di orchi accampati davanti alle porte di Mithral Hall. In cuor mio non voglio altro che un’altra possibilità, un’altra occasione per poter affondare la mia scimitarra nella sua pelle gialla dalle sfumature grigiastre. Bramo di poter cancellare quel sorriso di superiorità dalla sua brutta faccia e di seppellirlo sotto uno schizzo del suo stesso sangue. Voglio vederlo soffrire… soffrire per Shallows e per tutte le altre città rase al suolo dai pesanti piedi degli orchi. Voglio che provi il dolore arrecato a Shoudra Stargleam, a Dagna e a Dagnabbit, a tutti i nani e ai tanti altri che giacciono senza vita sul campo di battaglia che lui ha contribuito a creare.

    Riuscirà Catti-brie a camminare di nuovo normalmente? Anche questo è colpa di Obould.

    Perciò maledico il suo nome e ricordo con gioia quei momenti di pena che Innovindil, Tarathiel e io abbiamo inflitto ai servi di quel sudicio re orco. Reagire contro un nemico invasore è davvero catartico.

    Questo non lo posso negare. E nondimeno, nei momenti di razionalità, quando mi siedo a ridosso del fianco roccioso di una montagna e osservo ciò che Obould ha favorito, non ne sono più così sicuro.

    Non sono più sicuro di nulla, temo.

    Era giunto alla guida di un esercito, un esercito che ha arrecato dolore e sofferenza a molti abitanti di questa terra che io chiamo casa. Ma il suo esercito ha smesso di marciare, per ora almeno, e i segni che Obould vuole qualcosa di più che non semplici razzie e vittorie sono evidenti.

    Vuole forse la civiltà?

    È possibile che stiamo assistendo adesso a un gigantesco cambiamento nella natura culturale degli orchi? È possibile che Obould, che inizialmente lo volesse o no, abbia dato il via a una situazione nella quale gli interessi degli orchi e quelli delle altre razze della regione si fondano in un rapporto di reciproco beneficio?

    È possibile che ciò accada? È persino pensabile?

    Vengo meno alla fiducia di tutti coloro che sono morti nel prendere in considerazione una tale eventualità?

    Oppure sarà utile ai morti se io, se noi tutti ci innalzeremo al di sopra di questa sequenza infinita di guerre e di vendette e troveremo dentro di noi – orchi e nani, umani ed elfi – un terreno comune sul quale costruire un mondo di pace?

    Fin da tempi immemorabili, che nemmeno il più anziano degli elfi riesce a ricordare, gli orchi hanno combattuto contro le razze dei popoli «gentili». Malgrado tutte le vittorie – e sono innumerevoli! – e nonostante tutti i sacrifici, sono forse gli orchi meno numerosi ora di quanto lo fossero millenni fa?

    Non credo, e questo solleva lo spettro di un invincibile conflitto. Siamo destinati a ripetere queste guerre, generazione dopo generazione, all’infinito? Oppure noi – elfi e nani, umani e orchi – stiamo condannando i nostri discendenti alla stessa miseria, allo stesso dolore dell’acciaio che penetra la carne?

    Non lo so.

    E tuttavia non c’è nulla che io desideri maggiormente del conficcare la mia lama tra le costole di Obould Many-Arrows, del godere della smorfia d’agonia che comparirà sulla sua bocca zannuta, e del vedere la luce affievolirsi nei suoi occhi gialli e iniettati di sangue.

    Ma che diranno gli storici di Obould? Verrà visto come l’orco che spezza, finalmente, il ciclo di guerra perpetua? Mostrerà egli agli orchi, coscientemente o no, il cammino verso una vita migliore, un cammino che essi percorreranno – dapprima riluttanti, senza ombra di dubbio – alla ricerca di ricompense più grandi di quelle che potrebbero trovare sulla punta di una rozza lancia?

    Non lo so.

    Ed è proprio lì che sta il mio tormento.

    Mi auspico che ci troviamo sulla soglia di una grande epoca, e che nell’indole di ogni orco si nascondano le stesse scintille, gli stessi sogni e speranze che guidano gli elfi, i nani, gli umani, gli halfling e tutte le altre razze. Ho sentito dire che la speranza universale del mondo è che i nostri figli possano avere una vita migliore della nostra.

    Questo stesso principio guida di civiltà si trova anche nella natura emozionale della razza dei goblin? Oppure Nojheim, quell’insolito schiavo goblin che ho conosciuto un tempo, rappresentava soltanto un’anomalia?

    Obould è un visionario o un opportunista?

    È forse questo l’inizio del vero progresso per la razza degli orchi, o un’impresa inutile per tutti quelli che, me compreso, permetteranno a quelle bestie di restare in vita?

    Il fatto di ammettere che non lo so deve farmi riflettere. Se devo cedere alle necessità del mio cuore assetato di vendetta, come verrà giudicato allora Drizzt Do’Urden dagli storici?

    Farò parte della compagnia di quegli eroi che mi hanno preceduto e che hanno contribuito a fermare la carica degli orchi, e i cui nomi sono tenuti in grande stima? Se Obould deve guidare l’avanzata degli orchi, non verso la conquista ma verso la civilizzazione, e io sono la mano che lo umilia, allora saranno davvero indotti in errore quegli storici che non riusciranno mai a percepire le possibilità che io ho visto prendere forma davanti a me.

    Forse si tratta di un esperimento. Forse si tratta di un grandioso passo su una strada che vale la pena di percorrere.

    O forse mi sbaglio, e Obould cerca il potere e il sangue, e gli orchi non hanno alcun senso di comunanza e non aspirano a una via migliore, a meno che quella via non calpesti i territori dei loro mortali ed eterni nemici.

    Ma mi è concesso del tempo per riflettere.

    Perciò aspetto e sto a guardare, tenendo però le mie lame a portata di mano.

    Drizzt Do’Urden

    1

    Orgoglio e concretezza

    Lo stesso giorno in cui Drizzt e Innovindil erano partiti, diretti a est in cerca del corpo di Ellifain, Catti-brie e Wulfgar avevano attraversato il Surbrin sulle tracce della figlia smarrita di quest’ultimo. Ma il loro viaggio era durato solo un paio di giorni, perché poi erano stati costretti a tornare indietro a causa dei venti gelidi e dei cieli cupi di una terribile bufera invernale. Rallentati dalla gamba ferita di Catti-brie, i due non avevano alcuna speranza di poter avanzare abbastanza veloci da distanziare il fronte freddo in arrivo, perciò Wulfgar si era rifiutato di proseguire. A detta di tutti, Colson era al sicuro, e Wulfgar confidava che la pista che portava a lei non sarebbe stata cancellata durante quella pausa forzata, dato che in quei mesi di gelo quasi tutti gli spostamenti attraverso le Marche d’Argento si sarebbero praticamente fermati. Tra le recriminazioni di Catti-brie, i due avevano riattraversato il Surbrin e fatto ritorno a Mithral Hall.

    Subito dopo, lo stesso fronte di maltempo aveva procurato seri danni al traghetto, che era ancora fuori uso nonostante fosse già trascorsa una settimana. Ovunque, intorno a loro, l’inverno era inoltrato, più vicino alla primavera che non all’autunno. L’Anno della Magia Selvaggia era arrivato.

    Catti-brie aveva l’impressione che quel freddo, che pervadeva ogni cosa, si fosse impossessato per sempre della sua gamba ferita, tanto che non aveva riscontrato grandi miglioramenti nella sua mobilità. Era in grado di camminare con l’aiuto di una stampella, ma, anche così, ogni passo le procurava dolore. Tuttavia, non voleva accettare una sedia a rotelle come quella che i nani avevano costruito per l’invalido Banak Brawnanvil, e di certo non voleva aver niente a che fare con il marchingegno che Nanfoodle aveva creato per lei: un comodo palanchino concepito per essere trasportato a braccia da quattro nani volenterosi. Cocciutaggine a parte, la sua gamba malata non sosteneva granché il peso del corpo, e di certo non per un periodo di tempo prolungato, perciò Catti-brie aveva optato per la stampella.

    Nel corso di quegli ultimi giorni, aveva gironzolato dalle parti dei confini orientali di Mithral Hall, oltre la Gola di Garumn, chiedendo in continuazione notizie sugli orchi che avevano scavato trincee appena fuori Keeper’s Dale, o su Drizzt, che era stato visto sorvolare le fortificazioni orientali e attraversare il Surbrin in groppa a un pegaso, insieme a Innovindil di Moonwood.

    Drizzt era partito la settimana prima da Mithral Hall con la benedizione di Catti-brie, ma in quelle lunghe e buie notti d’inverno lei sentiva già enormemente la sua mancanza. Il fatto che lui non fosse rientrato direttamente nella fortezza, al suo ritorno dalle terre occidentali, l’aveva stupita, ma si fidava del suo giudizio. Se era stato costretto a dirigersi verso Moonwood, doveva esserci una buona ragione.

    «Ho un centinaio di ragazzi che mi implorano in ginocchio di lasciarti trasportare da loro», la rimproverò un giorno Bruenor, quando parve evidente che il dolore alla gamba fosse molto intenso. Catti-brie era tornata nelle sale occidentali, nel rifugio privato di Bruenor, ma aveva già informato il padre che si sarebbe diretta nuovamente a est, oltre la gola. «Accetta la sedia dello gnomo, cocciuta ragazza!».

    «Ho le mie gambe», insistette lei.

    «Gambe che non guariscono, in base a quanto mi dicono i miei occhi». Il nano lanciò un’occhiata dall’altra parte del camino, in direzione di Wulfgar, il quale, adagiato su una comoda poltroncina, stava fissando le sue fiamme arancioni. «Che ne dici, ragazzo mio?».

    Wulfgar lo ricambiò con sguardo inespressivo, lasciando chiaramente intendere di non avere seguito la loro conversazione.

    «Pensi di ripartire presto in cerca della tua piccolina?» chiese Bruenor. «Col disgelo?».

    «Prima del disgelo», lo corresse Wulfgar. «Prima che il fiume si gonfi per la piena».

    «Tra un mese, probabilmente», disse Bruenor, e Wulfgar annuì.

    «Prima di Tarsakh», confermò questi, riferendosi al quarto mese dell’anno.

    Catti-brie si morse il labbro, sapendo che Bruenor aveva abbordato quell’argomento a suo beneficio.

    «Non potrai certo accompagnarlo con quella gamba malata, ragazza mia», dichiarò Bruenor. «Te ne vai in giro zoppicando, senza nemmeno dare la possibilità di guarire a quella dannata gamba. Adesso prendi la sedia dello gnomo e lascia che i miei ragazzi ti portino in giro, così forse – dico forse – sarai in grado di accompagnare Wulfgar alla ricerca di Colson, come avevate già intenzione di fare in precedenza».

    Catti-brie fece correre lo sguardo da Bruenor a Wulfgar, e vide solo le crepitanti fiamme arancioni che si riflettevano negli occhi dell’uomo dal fisico possente. Egli pareva essersi estraniato da tutti, notò, completamente assorto nel suo tumulto interiore. Le spalle erano curve per il peso del rimorso, questo era certo, e per il fardello del dolore causatogli dalla perdita della moglie, Delly Curtie, che, per quanto era dato sapere, giaceva ancora sepolta sotto una spessa coltre di neve in un campo a nord.

    Catti-brie non era meno consumata dal senso di colpa riguardo a quella perdita, poiché era stata la sua spada, la malvagia e senziente Khazid’hea, ad avere la meglio su Delly Curtie e a farla allontanare dalla sicurezza di Mithral Hall. Fortunatamente – e di questo ne erano tutti convinti – Delly non aveva preso con sé la piccola Colson, la figlia che lei e Wulfgar avevano adottato, e che aveva invece affidato alle cure di una delle profughe delle terre settentrionali, una donna che aveva attraversato il fiume Surbrin a bordo di uno degli ultimi traghetti, prima dell’infierire dell’inverno. Colson avrebbe potuto trovarsi nella magica città di Silverymoon, o a Sundabar, o in una delle tante altre comunità, ma non c’era motivo di credere che non stesse bene o che qualcuno potesse farle del male.

    E Wulfgar intendeva ritrovarla: era quella una delle poche dichiarazioni convinte che Catti-brie avesse sentito fare al barbaro da una settimana a quella parte. Sarebbe partito alla ricerca di Colson, e Catti-brie riteneva fosse suo dovere, come amica, andare con lui. Dopo essere stati respinti dalla bufera, e non in minima parte a causa della sua infermità, Catti-brie si sentiva ancora più determinata a compiere quel viaggio.

    In verità, lei aveva però sperato che Drizzt tornasse prima della loro partenza. Poiché la primavera avrebbe sicuramente portato disordini da quelle parti, visto l’enorme schieramento di orchi accampati ovunque sui territori circostanti Mithral Hall, dalle montagne della Spina Dorsale del Mondo a settentrione, alle sponde del Surbrin a oriente, fino ai passi poco più a nord dei Trollmoors, nella zona meridionale. Le nuvole di guerra si addensavano, e solo l’inverno tratteneva quegli sciami di guerrieri dall’avanzare.

    Quando la tempesta fosse infine scoppiata, Drizzt vi si sarebbe trovato proprio nel mezzo, e in quel giorno cupo Catti-brie non aveva intenzione di farsi sorprendere in giro per le strade di qualche lontana città.

    «Prendi la sedia», disse Bruenor, o presumibilmente dovette ripetere, vista l’impazienza che traspariva dal suo tono.

    Catti-brie sbatté le palpebre e riportò lo sguardo su di lui.

    «Avrò bisogno di entrambi al mio fianco, e anche presto», proseguì Bruenor. «Se devi rallentare Wulfgar nel viaggio che sta per intraprendere, allora non lo accompagnerai per niente».

    «Non ne sono degna, dunque…» disse Catti-brie, scrollando il capo.

    Ma, nel farlo, si sbilanciò appena un poco sulla stampella e barcollò di lato. Il viso le si contorse in una smorfia di dolore, mentre fitte simili a tante piccole saette le si irradiavano dall’anca attraversandole il corpo.

    «Ti sei beccata sulla gamba un masso lanciato da un gigante», ribatté Bruenor. «Non c’è alcuna indegnità in questo! Ci hai aiutato a difendere la fortezza, e non c’è uno solo dei membri del Clan Battlehammer che ti consideri poco meno di un’eroina. Prendi quella dannata sedia!».

    «Davvero, dovresti», interloquì una voce dalla porta, e Catti-brie e Bruenor si voltarono nel vedere Regis, l’halfling, fare il suo ingresso nella stanza.

    Il suo ventre aveva riacquistato una bella forma tondeggiante, e le sue guance erano tornate piene e rosee. Com’era solito fare in quegli ultimi tempi, portava un paio di calzoni sostenuti da bretelle e, mentre avanzava, vi infilò dentro i pollici, assumendo un’aria di importanza. E in verità, per quanto ridicolo Regis potesse a volte sembrare, nessuno all’interno della fortezza avrebbe potuto negare quel vanto all’halfling che aveva servito così bene Mithral Hall come Reggente durante i giorni della guerra, quando Bruenor giaceva sul suo letto in punto di morte.

    «Allora si tratta di una cospirazione?» osservò Catti-brie sorridendo e cercando con quella battuta di rallegrare l’atmosfera.

    Avevano bisogno di sorridere di più, tutti quanti loro, soprattutto Wulfgar, che stava seduto di fronte a lei. Mentre parlava, Catti-brie osservò il gigante, e capì che le sue parole non erano nemmeno giunte fino a lui, visto che continuava a fissare le fiamme, assorto in qualche suo dilemma interiore. L’espressione sul suo viso, completamente smarrita e senza speranza, le fece capire la verità. Lei cominciò ad annuire e accettò l’offerta del padre. L’amicizia richiedeva che lei facesse il possibile per rimettersi sufficientemente in forma da poter accompagnare Wulfgar nel viaggio più importante della sua vita.

    Così, qualche giorno più tardi, quando Drizzt Do’Urden si ripresentò a Mithral Hall attraverso le porte orientali che davano sul Surbrin, Catti-brie, nel vederlo, lo chiamò dall’alto: «I tuoi passi sono più leggeri», osservò lei, e dopo che il drow alla fine l’ebbe riconosciuta, seduta sul palanchino e trasportata da quattro robusti nani, la salutò con una risata e un largo, larghissimo sorriso.

    «La Principessa del Clan Battlehammer», disse Drizzt, tributandole un inchino compito e canzonatorio.

    Catti-brie diede ordine ai nani di depositarla a terra e di farsi da parte. Era a malapena riuscita ad alzarsi dal sedile e a prendere la stampella che Drizzt le fu accanto, stringendola in un caldo abbraccio.

    «Dimmi che sei tornato per fermarti a lungo», gli disse lei dopo un lungo bacio. «L’inverno è stato freddo e solitario».

    «Il dovere mi aspetta», replicò Drizzt. Poi, nel vedere che Catti-brie gli rivolgeva un sorriso sarcastico e impotente, aggiunse: «Ovvio che sia così. Ma sì, sono tornato al fianco di Bruenor, come promesso, prima che la neve si sciolga e gli eserciti radunati là fuori comincino ad avanzare. Quanto prima verremo a conoscenza dei progetti di Obould».

    «Obould?» chiese stupita Catti-brie, dato che era convinta che l’orco fosse ormai morto da tempo.

    «È ancora vivo», rispose Drizzt. «In qualche modo è riuscito a sfuggire al disastro provocato dalla frana, e gli orchi riuniti là fuori sono ancora legati al volere di quel potentissimo orco».

    «Maledetto sia il suo nome».

    Drizzt le sorrise, ma non si dichiarò apertamente d’accordo.

    «Mi sorprende che tu e Wulfgar siate già tornati», le disse. «Che notizie avete di Colson?».

    Catti-brie scosse il capo. «Non sappiamo niente. Abbiamo attraversato il Surbrin la stessa mattina in cui tu sei partito con Innovindil per la Costa delle Spade, ma l’inverno ci incalzava troppo da vicino e ci ha costretti a tornare. Almeno abbiamo saputo che i gruppi di profughi si sono diretti verso Silverymoon, così Wulfgar ha intenzione di partire alla volta della città di Lady Alustriel non appena il traghetto sarà di nuovo in condizioni di navigare».

    Drizzt la allontanò da sé per guardarla meglio e abbassò lo sguardo sulla sua gamba ferita. Catti-brie indossava un abito lungo, com’era solita fare in quei giorni, visto che i calzoni attillati che normalmente portava le davano troppo fastidio. Il drow guardò la stampella che i nani avevano fabbricato per lei, ma Catti-brie lo fissò negli occhi.

    «Non sono ancora guarita», ammise, «ma mi sono riposata abbastanza da poter accompagnare Wulfgar nel suo viaggio». Fece una pausa e alzò la mano libera a carezzare dolcemente il mento e la guancia di Drizzt. «Sento di doverlo fare».

    «Anch’io dovrei», disse Drizzt. «Ma le mie responsabilità nei confronti di Bruenor mi impongono invece di restare qui».

    «Wulfgar non sarà solo in questo viaggio», lo rassicurò lei.

    Drizzt annuì, e il suo sorriso le fece capire che traeva un po’ di conforto da quella certezza. «Dovremmo andare da Bruenor», disse, facendo per allontanarsi.

    Catti-brie lo afferrò per la spalla. «Hai buone notizie da dargli?».

    Drizzt la fissò incuriosito.

    «Il tuo passo è più leggero», osservò di nuovo lei. «Cammini come se ti fosse stato tolto un peso dalle spalle. Cos’hai visto là fuori? Forse le armate degli orchi hanno i giorni contati? I popoli delle Marche d’Argento sono pronti a insorgere tutti insieme per ricacciarli…».

    «Niente di tutto questo», la disilluse Drizzt. «Tutto è rimasto tale e quale a quando sono partito, tranne che le forze di Obould hanno rafforzato le loro postazioni, come se intendessero restare».

    «Il tuo sorriso non mi inganna», insistette Catti-brie.

    «Perché mi conosci troppo bene», replicò Drizzt.

    «I sinistri flussi della guerra non indeboliscono il tuo sorriso?».

    «Ho parlato con Ellifain».

    Catti-brie spalancò la bocca per la sorpresa. «È viva?». L’espressione di Drizzt le fece capire l’assurdità di quella deduzione. Catti-brie non era forse presente quando Ellifain era morta per mano della lama di Drizzt? «Una risurrezione, allora?» sussurrò la giovane donna. «Gli elfi sono ricorsi a un chierico potente per ghermirle l’anima…».

    «Non è avvenuto niente del genere», la rassicurò Drizzt. «Ma hanno fornito a Ellifain un condotto per comunicare con me… perché le potessi chiedere scusa. E lei ha accettato le mie scuse».

    «Non avevi motivo di scusarti», replicò Catti-brie. «Non hai fatto niente di sbagliato, e non avevi comunque modo di prevedere cosa sarebbe successo».

    «Lo so», replicò Drizzt, e la serenità nella sua voce trasmise un senso di calore a Catti-brie.

    «Molte cose sono state sistemate. Ellifain ha trovato la pace».

    «Vuoi dire che è Drizzt Do’Urden ad averla trovata».

    Drizzt si limitò a sorridere. «Non può essere», replicò. «Ci stiamo avvicinando a un incerto futuro, con decine di migliaia di orchi sulla soglia di casa. Innumerevoli persone hanno perso la vita, tra cui anche amici nostri, ed è probabile che molti altri cadranno».

    Catti-brie non sembrava convinta che lui fosse di cattivo umore.

    «Drizzt Do’Urden ha trovato la pace», concesse il drow di fronte all’implacabile sorriso di lei.

    Fece per accompagnarla di nuovo al palanchino, ma Catti-brie scosse il capo e gli fece cenno di precederla lungo il corridoio che li avrebbe portati al ponte sulla Gola di Garumn, fino all’ala più occidentale di Mithral Hall, nella sala dove Bruenor stava tenendo le sue udienze.

    «La strada è lunga», la mise in guardia Drizzt, fissandole la gamba ferita.

    «Ci sarai tu a sostenermi», replicò Catti-brie, e Drizzt non poté davvero dissentire.

    Con un riconoscente cenno di saluto ai quattro nani portatori, i due si incamminarono.

    Il suo sogno era così reale che poteva sentire il calore del sole e il freddo del vento sulle guance. La sensazione era talmente vivida che poteva annusare l’odore salmastro dell’aria proveniente dal Mare del Ghiaccio Mobile.

    Tutto quanto era così reale che Wulfgar fu sinceramente sorpreso quando, risvegliatosi dal suo pisolino, si ritrovò nella sua stanzetta a Mithral Hall. Chiuse di nuovo gli occhi e cercò di riappropriarsi del sogno, cercò di immergersi di nuovo nella libertà della Valle del Vento Gelido.

    Ma non fu possibile, e l’uomo dall’imponente corporatura riaprì gli occhi e si costrinse ad alzarsi dalla sedia. Guardò il letto, all’estremità opposta della stanza. Non ci dormiva quasi più, ultimamente, perché era stato quel letto che aveva condiviso con Delly, la moglie morta. Nelle poche occasioni in cui aveva osato coricarsi, si era ritrovato a tendere il braccio a cercarla, a girarsi dalla parte dove avrebbe dovuto esserci lei.

    Il senso di vuoto che aveva provato ogni volta, a mano a mano che la realtà prendeva il sopravvento, lo aveva raggelato.

    Ai piedi del letto c’era il lettino di Colson, ma guardare in quella direzione gli risultò ancora più doloroso.

    Wulfgar si prese la testa fra le mani, e la morbida sensazione tattile del pelo gli fece ricordare la barba cresciuta da poco. Si lisciò barba e baffi e si stropicciò gli occhi per cacciare via il torpore. Cercò di non pensare a Delly, e nemmeno a Colson, dato che aveva bisogno di sentirsi libero da rimpianti e paure per qualche breve momento. Ripensò a com’era la Valle del Vento Gelido quando lui era giovane. Anche allora aveva conosciuto la perdita, e avvertito acutamente i tormenti della battaglia. Non c’era illusione a invadere i suoi sogni o i suoi ricordi che presentasse un’immagine più dolce di quel territorio brullo. La Valle del Vento Gelido restava là, irriducibile, con i suoi gelidi venti più letali che rinfrescanti.

    Ma c’era qualcosa di più semplice riguardo a quel luogo, Wulfgar lo sapeva. Qualcosa di più puro. La morte era un visitatore consueto della tundra, e i mostri se ne andavano in giro liberamente. Era una terra che metteva continuamente alla prova, che non consentiva alcun margine di errore e, persino in assenza di errori, le conseguenze di qualunque decisione potevano essere disastrose.

    Wulfgar annuì, comprendendo il rifugio emozionale offertogli da quelle inflessibili condizioni. Perché la Valle del Vento Gelido era una terra senza rimpianti. Era semplicemente il modo in cui andavano le cose.

    Si alzò e si stiracchiò, scrollandosi via la stanchezza dalle lunghe braccia e gambe. Si sentiva oppresso, intrappolato, come se le pareti incombessero su di lui, e si ricordò di quando Delly lo aveva supplicato confidandogli di provare quella stessa sensazione.

    «Forse avevi ragione», disse Wulfgar, rivolto alla stanza vuota.

    Poi scoppiò a ridere, da solo, mentre rifletteva sulle circostanze che l’avevano riportato in quel luogo. Era stato costretto a tornare indietro da una bufera di neve.

    Lui, Wulfgar, figlio di Beornegar, temprato dagli inverni brutali della gelida Valle del Vento Gelido, era stato ricacciato nella fortezza dei nani dalla minaccia della neve!

    In quel momento tutto riaffiorò. Tutto quanto. Il vuoto girovagare di quegli ultimi otto anni della sua vita, dopo aver fatto ritorno dall’Abisso e dai tormenti del suo demone, Errtu. Persino dopo avere ricevuto in affidamento Colson da Meralda, ad Auckney, dopo avere recuperato Aegis-fang e la coscienza di sé, e avere raggiunto i suoi amici lungo il viaggio di ritorno verso Mithral Hall, i passi di Wulfgar non erano stati intenzionali, non erano stati guidati da una chiara consapevolezza di dove voleva andare. Aveva preso Delly in moglie, ma non aveva mai smesso di amare Catti-brie.

    Sì, era la verità, ammise. Poteva mentire agli altri, ma non a se stesso.

    Molte cose divennero finalmente chiare a Wulfgar quella mattina nella sua stanza, a Mithral Hall, e non ultimo il fatto che egli avesse permesso a se stesso di indulgere in una menzogna. Sapeva di non poter avere Catti-brie – lei aveva donato il suo cuore a Drizzt – ma quanto ingiusto era stato nei confronti di Delly e di Colson? Si era creato una facciata, un’illusione di famiglia e di stabilità per il beneficio di chiunque vi fosse coinvolto, compreso lui stesso.

    Dopo aver lasciato Auckney, Wulfgar aveva percorso il suo cammino di redenzione con la manipolazione e l’inganno. Finalmente l’aveva capito. Era stato talmente determinato a riporre tutto in una piccola scatola linda e ordinata, a creare un apparato scenico perfettamente controllato, che aveva negato la sua stessa essenza, le fiamme stesse che avevano forgiato Wulfgar figlio di Beornegar.

    Guardò Aegis-fang, appoggiato alla parete, poi sollevò il pesante martello da guerra tra le mani, portandone la testa artisticamente sagomata davanti ai suoi occhi azzurro ghiaccio. Le battaglie cui aveva partecipato di recente, sull’altura sopra Keeper’s Dale, nell’ala occidentale della fortezza, e a est, nell’offensiva verso il Surbrin, erano stati i suoi momenti di effettiva libertà, di chiarezza emozionale e calma interiore. Si rese conto di avere tratto godimento da quel tumulto fisico, perché esso era servito a placare la confusione dei suoi sentimenti.

    Quello era il motivo per cui aveva trascurato Delly e Colson, gettandosi con trasporto nella difesa di Mithral Hall. Era stato un ben misero marito per lei, e un ben misero padre per Colson.

    Solo nella battaglia aveva trovato una via di fuga.

    E, nel guardare la testa di Aegis-fang, disseminata di tacche, capì che era ancora intento a ingannare se stesso. Perché mai allora avrebbe fatto passare così tanto tempo prima di mettersi sulle tracce di Colson? Perché aveva permesso che una semplice bufera invernale lo fermasse? Perché...?

    Wulfgar spalancò la bocca e si disse che era davvero uno stupido. Lasciò cadere a terra il martello e indossò il mantello grigio di pelo di lupo che era un po’ il suo segno distintivo. Tirò fuori la sacca da sotto il letto e la riempì con le sue coperte, poi se la gettò in spalla e con l’altra mano raccolse Aegis-fang.

    Infine uscì dalla stanza con fiera determinazione, dirigendosi a est, oltre la sala delle udienze di Bruenor.

    «Dove stai andando?» si sentì chiedere. Si fermò e vide Regis nell’atrio, in piedi davanti a una porta.

    «Fuori, a vedere com’è il tempo e se il traghetto è stato riparato».

    «Drizzt è tornato».

    Wulfgar annuì, e il suo sorriso era sincero. «Spero che il suo viaggio sia andato bene».

    «Sarà qui tra poco con Bruenor».

    «Non ho tempo. Non adesso».

    «Il traghetto non funziona ancora», disse Regis.

    Ma Wulfgar si limitò ad assentire, come se la cosa non avesse importanza, e si allontanò lungo la galleria, varcando le porte che davano sul passaggio principale che l’avrebbe portato oltre la Gola di Garumn.

    Con i pollici infilati nelle bretelle, Regis rimase a guardare l’amico che se ne andava. Rimase là fermo, a lungo, riflettendo su quell’incontro, poi si voltò e si diresse verso la sala delle udienze di Bruenor.

    Ma, fatti pochi passi, si fermò e si guardò indietro, scrutando la galleria lungo la quale Wulfgar si era allontanato così precipitosamente.

    Il traghetto non era ancora stato riattivato.

    2

    Il volere di Gruumsh

    Grguch ammiccò ripetutamente nel lasciarsi dietro gli anfratti della caverna e nel dirigersi verso la luce delle prime ore dell’alba. Con le sue spalle ampie e la statura che superava i due metri e venti d’altezza, il poderoso mezzorco e mezzogre avanzò incerto sulle gambe robuste e sollevò una mano a ripararsi gli occhi. Il capitano del Clan Karuck, così come tutta la sua gente, eccetto un paio di ricognitori in avanscoperta, non vedeva più la luce del giorno da quasi dieci anni. Avevano vissuto nelle gallerie, nel vasto labirinto di budelli senza luce conosciuti con il nome di Buio Profondo, e Grguch non aveva intrapreso a cuor leggero quel viaggio verso la superficie.

    Folti gruppi di guerrieri Karuck, tutti giganti rispetto agli standard della razza degli orchi – con un’altezza prossima se non superiore ai due metri e venti e con un peso di circa centocinquanta chili di muscoli d’acciaio e solide ossa – erano allineati lungo le pareti della caverna. Al passaggio del grande signore della guerra Grguch, distolsero rispettosamente lo sguardo dai suoi occhi giallastri. Subito dopo Grguch veniva lo spietato chierico della guerra Hakuun, e dopo di lui la guardia scelta: cinque possenti ogre armati di tutto punto e pronti a combattere. La colonna era seguita da molti altri ogre che portavano il Kokto Gung Karuck, il Corno di Karuck, un enorme strumento alto cinque metri, dotato di un foro conico e di una grossa campana capovolta. Era fatto di fungolegno, così gli orchi chiamavano la dura pellicola di alcune specie di funghi giganti che crescevano nel Buio Profondo. Agli occhi dei guerrieri orchi che lo osservavano, il corno meritava e riceveva lo stesso rispetto attribuito al capitano che lo precedeva.

    Grguch e Hakuun, al pari dei loro rispettivi predecessori, non avrebbero concepito che le cose stessero altrimenti.

    Grguch si avvicinò all’imboccatura della caverna e si affacciò su una cengia rocciosa sul fianco della montagna. Solo Hakuun uscì insieme a lui, affiancandolo: il chierico della guerra aveva fatto segno agli ogre di aspettare più indietro.

    Grguch proruppe in una risata tonante, mentre i suoi occhi si adattavano alla luce e scorgevano poco più in basso, tra le rocce alle pendici della montagna, altri orchi che avanzavano laboriosamente. Per più di due giorni, il secondo clan degli orchi aveva faticosamente cercato di precedere il Clan Karuck nella sua marcia. Nel momento in cui si erano finalmente affrancati dagli spazi ristretti del Buio Profondo, il loro desiderio di stare lontani, molto lontani dal Clan Karuck, si era fatto via via sempre più evidente.

    «Se la stanno svignando come tanti mocciosi», disse Grguch al suo chierico della guerra.

    «Ma essi sono dei mocciosi al cospetto dei Karuck», replicò Hakuun. «E lo sono ancor di più quando il grande Grguch sta in mezzo a loro».

    Il capitano accolse con grande calma quel complimento dovuto e alzò lo sguardo a perlustrare il paesaggio che si apriva davanti a loro. L’aria era fredda, l’inverno stringeva ancora la terra nella sua morsa, ma Grguch e la sua gente non si erano fatti cogliere impreparati. Strati su strati di pelliccia facevano apparire l’enorme capitano degli orchi persino più grosso e imponente.

    «Ben presto si diffonderà la notizia che il Clan Karuck è uscito in superficie», assicurò Hakuun al suo capitano.

    Grguch lanciò di nuovo un’occhiata alla tribù in fuga e scrutò l’orizzonte. «Si diffonderà ancora più rapidamente delle parole di quei mocciosi che se la stanno squagliando», replicò, voltandosi a fare un cenno agli ogre.

    Il quintetto di guardie si divise per consentire il passaggio del Kokto Gung Karuck. In pochi attimi l’abile squadra installò il corno e Hakuun lo benedisse adeguatamente, mentre Grguch si metteva in posizione.

    Una volta che il chierico ebbe portato a termine il suo rituale, Grguch, l’unico Karuck cui era permesso suonare il corno, diede una pulita al boccaglio di fungolegno e inspirò a fondo.

    Un maestoso rimbombo esplose dal corno, come se il più grande mantice del mondo fosse stato azionato da titani immortali. Il rombo dalla bassa tonalità echeggiò per chilometri e chilometri tra i massi e i fianchi montuosi delle alture meridionali della Spina Dorsale del Mondo. I sassi più piccoli vibrarono sotto la potenza di quel suono, e un costone di neve si staccò da una montagna vicina, creando una piccola valanga.

    Alle spalle di Grguch, numerosi appartenenti al Clan Karuck si inginocchiarono e cominciarono a oscillare, come se fossero caduti preda di uno stato di esaltazione religiosa. Essi pregavano il grande Occhio-solo, il loro bellicoso dio, poiché erano fiduciosi che, una volta suonato il Kokto Gung Karuck, il sangue dei nemici del Clan Karuck avrebbe inondato il terreno.

    E per il Clan Karuck, soprattutto sotto il comando del potente Grguch, non era mai stato difficile trovare nemici.

    In una valle riparata, alcuni chilometri più a sud, un terzetto di orchi alzò gli occhi verso nord.

    «Karuck?» chiese Ung-thol, uno sciamano di grande reputazione.

    «E chi potrebbe essere altrimenti?» replicò Dnark, capitano della tribù Fauci di Lupo. Entrambi si girarono a guardare il compiaciuto e sorridente sciamano Toogwik Tuk, mentre Dnark osservava: «La tua chiamata è stata udita. Ed esaudita».

    Toogwik Tuk ridacchiò.

    «Sei così certo che quei figli di ogre si possano piegare alla tua volontà?» aggiunse Dnark, facendo sparire il sorriso dalla brutta faccia di orco di Toogwik Tuk.

    Il fatto che si fosse riferito ai membri del Clan Karuck come a «figli di ogre» suonava come un chiaro ammonimento nei confronti dello sciamano, ricordandogli che quelli che lui aveva richiamato dalle viscere più profonde delle montagne non erano normali orchi. Karuck era noto tra le molte tribù della Spina Dorsale del Mondo – o piuttosto tristemente noto – per annoverare tra le sue fila innumerevoli ogre di razza selezionata. Da generazioni, Karuck favoriva gli incroci, creando guerrieri orchi sempre più mastodontici. Sfuggito dalle altre tribù, il Clan Karuck aveva continuato a scavare in profondità nel Buio Profondo. In quegli ultimi tempi era poco conosciuto e considerato niente più che una leggenda tra le molte tribù.

    Ma gli orchi Fauci di Lupo e i loro alleati della tribù Zanna Gialla, imparentati con Toogwik Tuk, erano di tutt’altro parere.

    «Dispongono di una forza di soli trecento guerrieri», ricordò Toogwik Tuk ai suoi dubbiosi compagni.

    Un secondo boato del Kokto Gung Karuck, fece tremare le pietre.

    «Già», disse Dnark, scuotendo il capo.

    «Dobbiamo trovare il capitano Grguch, e anche alla svelta», li esortò Toogwik Tuk. «L’impazienza dei guerrieri Karuck deve essere adeguatamente pilotata. Se si imbattono in altre tribù e cominciano con gli scontri e i saccheggi…».

    «Obould se ne servirà come di un’ulteriore prova per dimostrare che la sua strategia è migliore», concluse Dnark al posto suo.

    «Andiamo», disse Toogwik Tuk, e si avviò. Dnark lo seguì, ma Ung-thol esitò. Gli altri due si bloccarono e guardarono lo sciamano più anziano.

    «Non conosciamo i piani di Obould», ricordò loro Ung-thol.

    «Si è fermato», disse Toogwik Tuk.

    «Per rafforzare il suo esercito? Per riflettere sulla strategia più appropriata da intraprendere?» domandò Ung-thol.

    «Per costruire postazioni a difesa delle sue misere conquiste!» dichiarò l’altro sciamano.

    «Almeno questo è ciò che ci ha raccontato la sposa di Obould», soggiunse Dnark, mentre sul viso zannuto gli compariva un’espressione astuta, e le labbra, contorte a causa dei denti che sporgevano in una miriade di direzioni casuali, si piegavano all’insù in un sorriso d’intesa. «Conoscete Obould da molti anni».

    «E suo padre prima di lui», concesse Ung-thol. «L’avevo seguito fin qui in cerca di gloria». Fece una pausa a effetto e si guardò intorno. «Da quel che ci è concesso ricordare», disse, indugiando ancora e levando le braccia verso l’alto, «non abbiamo mai conosciuto una vittoria del genere. E il merito è di Obould».

    «Questo è l’inizio, non la fine», replicò Dnark.

    «Molti grandi guerrieri cadono lungo la strada della conquista», soggiunse Toogwik Tuk. «È il volere di Gruumsh. La gloria di Gruumsh».

    Tutti e tre trasalirono per la sorpresa quando le cupe note del Kokto Gung Karuck echeggiarono di nuovo tra i sassi.

    Toogwik Tuk e Dnark si zittirono e rimasero a fissare Ung-thol, in attesa della sua decisione.

    Il vecchio sciamano lanciò uno sguardo nostalgico verso sudovest, nella zona in cui Obould aveva posto il suo accampamento, poi fece un cenno ai suoi due compagni e li invitò a proseguire.

    La giovane sacerdotessa Kna gli si avviticchiò addosso con una mossa seducente. Il suo corpo flessuoso aderì a quello del possente orco, gli alitò il suo fiato caldo su un lato del collo, poi sulla nuca e infine sull’altro lato. Ma sebbene Kna fissasse il grande orco con occhi intensi, mentre gli si strusciava contro, in realtà la sua esibizione non andava a beneficio di Obould.

    Il re orco ne era consapevole, naturalmente, per questo motivo il suo sorriso era ambiguo, mentre se ne stava in piedi davanti al gruppo di sciamani e comandanti là radunati. Aveva scelto con oculatezza quando, per rimpiazzare Tsinka Shinriil, aveva eletto a propria consorte la giovane ed egocentrica Kna. Questa non si faceva molti scrupoli. Amava essere al centro dell’attenzione di chi la circondava. Anzi, ne andava pazza, Obould lo sapeva. Bramava quell’attenzione. Rappresentava il suo momento di gloria, e lei gioiva del fatto che le altre orchesse del regno stringessero i pugni per la gelosia. Quello era il suo piacere più grande.

    Giovane ed estremamente attraente in base ai parametri della sua razza, Kna era entrata a far parte delle sacerdotesse di Gruumsh, ma non era neanche lontanamente devota o fanatica quanto lo era stata Tsinka. Il dio, anzi la dea di Kna era Kna, una visione puramente egoistica del mondo, estremamente comune tra i giovani.

    Ed era proprio ciò di cui aveva bisogno Re Obould. Tsinka lo aveva servito bene nel suo ruolo di sacerdotessa e di compagna, poiché aveva sempre parlato nell’interesse di Gruumsh. Persino in modo eccessivo. Era stata Tsinka a organizzare la magica cerimonia che aveva infuso in Obould grande potenza, sia fisica che mentale; ma la sua devozione era assoluta e le sue vedute ristrette. Aveva già esaurito la sua utilità prima ancora di precipitare nel burrone e trovare la propria morte tra le rocce.

    Obould sentiva la mancanza di Tsinka. Nonostante la sua avvenenza fisica, i gesti esperti e l’entusiasmo, Kna non poteva eguagliarla nel fare all’amore. E neppure possedeva la sua astuzia e intelligenza. No, neanche lontanamente. Non riusciva a sussurrare niente all’orecchio di Obould che valesse la pena di sentire, se non cose che riguardavano il sesso. Perciò era perfetta.

    Re Obould aveva le idee chiare, e le sue idee erano condivise da un gruppo di fedeli sciamani, tra cui figurava in particolare un giovane orco di nome Nukkels. Al di là di quella cerchia di pochi eletti, Obould non voleva altri consiglieri e nemmeno oppositori. E più di tutto, lui aveva bisogno di una consorte di cui potersi fidare. Kna era troppo innamorata di Kna per preoccuparsi della politica, degli intrighi e delle mutevoli interpretazioni dei desideri di Gruumsh.

    Obould lasciò che

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