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Percepliquis - La città nascosta: The Riyria revelations
Percepliquis - La città nascosta: The Riyria revelations
Percepliquis - La città nascosta: The Riyria revelations
E-book703 pagine9 ore

Percepliquis - La città nascosta: The Riyria revelations

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Info su questo ebook

Tutto si riduce a questo ... Gli elfi hanno attraversato il Nidwalden. Due ladri decideranno il futuro. Gli Elfi attaccano dal Nord. Conquistano terre e distruggono città a un ritmo allarmante, e sarà solo questione di tempo prima che raggiungano Aquesta. L’unica speranza per l’umanità è trovare l’antica città di Percepliquis e la tomba di Novron. L’Imperatrice Modina invierà i Riyria e un drappello dei nostri personaggi preferiti in questa missione. Nel frattempo, lei, Nimbus e Amilia, Sir Breckton e l’esercito faranno del loro meglio per proteggere il popolo di Avempartha e prepararsi per la guerra...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita16 mag 2019
ISBN9788834435830
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    Anteprima del libro

    Percepliquis - La città nascosta - Michael J. Sullivan

    LIBRO sei

    percepliquis

    la città nascosta

    CAPITOLO UNO

    La bambina

    Miranda era certa che la fine del mondo sarebbe iniziata così, all’improvviso, con il fuoco. Dietro di loro, il cielo si tinse di rosso mentre fiamme e pennacchi di scintille salivano nell’oscurità. L’università di Sheridan stava bruciando.

    Terrorizzata all’idea di perdere Mercy nel buio, Miranda la teneva per mano. Correvano da ore, zigzagando alla cieca nella pineta e aprendosi un varco tra i rami. La neve era caduta abbondantemente e Miranda avanzava tracciando un sentiero per la piccola e l’anziano professore.

    Da qualche parte dietro di loro, Arcadius gridò: «Andate, andate, non aspettatemi».

    Trascinando il pesante zaino e tirando la bambina dietro di sé, Miranda camminava il più in fretta possibile. Ogni volta che sentiva un rumore o le sembrava di vedere un’ombra, soffocava un grido. Il panico aleggiava subito sotto la superficie, minacciando di esplodere. La morte li tallonava e Miranda sentiva i piedi pesanti come piombo.

    Era dispiaciuta per la bambina e temeva di farle male al braccio continuando a tirarla. Già una volta l’aveva strattonata con troppo impeto, finendo per trascinarla sulla superficie della neve. La bambina aveva pianto quando si era ritrovata con la faccia immersa nella bianca distesa, ma i suoi singhiozzi erano stati di breve durata. Mercy aveva infatti smesso di porre domande e di lamentarsi per la stanchezza. Avevo smesso anche di parlare e arrancava dietro a Miranda cercando di fare del suo meglio. Era una bambina coraggiosa.

    Raggiunsero la strada e Miranda si inginocchiò per dare un’occhiata alla piccola. Il naso le colava. Le ciglia erano coperte di neve. Le guance erano rosse e i capelli neri erano sudati e appiccicati alla fronte. Con delicatezza, Miranda le sistemò alcune ciocche dietro le orecchie, mentre Mr Rings la osservava attentamente. Il procione se ne stava avvolto intorno al collo della bambina come fosse stato una stola di pelliccia. Prima di scappare, Mercy aveva insistito per liberare tutti gli animali dalle gabbie. Una volta uscito, l’animaletto si era arrampicato sul braccio di Mercy e ci si era aggrappato, come se anche lui avesse sentito che stava per accadere qualcosa di brutto.

    «Come stai?», domandò Miranda sollevando il cappuccio della bambina e sistemando meglio la spilla che le chiudeva il mantello.

    «Ho i piedi freddi», rispose Mercy con un filo di voce, lo sguardo sulla neve.

    «Anch’io», replicò Miranda, cercando di dare almeno un pizzico di vivacità alla voce.

    «Ah, eccomi. È stato divertente, no?», disse l’anziano professore mentre avanzava lungo la salita per raggiungerle. Soffiò nuvolette di vapore e spostò la sacca sulla spalla, la barba e le ciglia bianche per la neve.

    «E tu come stai?», gli domandò Miranda.

    «Oh, bene, bene. Di tanto in tanto un po’ di attività fisica fa solo bene a un vecchio come me. Ma non perdiamo tempo, dobbiamo proseguire».

    «Dove stiamo andando?», chiese Mercy.

    «Ad Aquesta», rispose Arcadius. «Sai che cos’è Aquesta, vero, tesoro? È la che vive l’imperatrice. In un grande palazzo. Ti piacerebbe conoscerla, vero?».

    «Lei sarà in grado di fermarli?».

    Miranda notò che lo sguardo della bambina era scivolato oltre l’anziano e verso l’università in fiamme. La imitò e restò a guardare il bagliore che si diffondeva oltre le cime degli alberi. Erano ormai a svariati chilometri di distanza, eppure la luce riempiva ancora l’orizzonte. Ombre scure volavano sopra il chiarore del fuoco. Si tuffavano in picchiata e volteggiavano sull’università divorata dalle fiamme, sputando nuovi torrenti di fuoco.

    «Lo spero tanto, mia cara. Lo spero tanto», affermò Arcadius. «Adesso andiamo. So che sei stanca e hai freddo. E anch’io, ma non possiamo fermarci. Abbiamo ancora molta strada da fare».

    Mercy annuì o forse rabbrividì. Era difficile capirlo.

    Miranda le spolverò via la neve dalla schiena e dalle gambe per cercare di evitare che si bagnasse ulteriormente. Mr Rings la fissò guardingo.

    «Gli altri animali saranno riusciti a scappare?», domandò Mercy.

    «Sì, non ho dubbi», la rassicurò Arcadius. «Sono intelligenti, no? Certo, forse non quanto Mr Rings, che è l’unico a essersi procurato un passaggio».

    Mercy tornò ad annuire e con voce speranzosa aggiunse: «Sono sicura che Teacup è riuscita a fuggire. Lei vola».

    Miranda controllò il proprio zaino e quello della bambina per assicurarsi che fossero ben chiusi. Poi guardò la strada buia innanzi a loro.

    «Ci porterà fino a Colnora e poi ad Aquesta», spiegò l’anziano mago.

    «Quanto ci impiegheremo per arrivare?», chiese Mercy.

    «Molti giorni – forse una settimana. Anche di più se il tempo non migliorerà».

    Miranda vide la delusione negli occhi di Mercy. «Non preoccuparti, quando saremo più lontani, ci fermeremo a mangiare e a riposare. Preparerò qualcosa di caldo e poi dormiremo un po’. Ma per il momento, dobbiamo tenere duro. Ora che siamo sulla strada sarà più facile».

    Miranda prese la bimba per mano e riprese il cammino. Fu felice di scoprire che ciò che aveva detto alla piccola era vero. Le profonde tracce lasciate dai carri rendevano più facile avanzare, soprattutto in discesa. Mantennero un passo sostenuto e ben presto la foresta coprì totalmente il fiammeggiante bagliore alle loro spalle. Il mondo divenne buio e silenzioso, e solo il frusciare del vento restò a fare loro compagnia.

    Miranda lanciò un’occhiata all’anziano professore mentre quello arrancava, tenendosi il mantello ben chiuso al collo. Aveva la pelle del viso rossa e chiazzata, e ansimava. «Sei sicuro di stare bene?».

    Arcadius non rispose subito. Si avvicinò, si sforzò di sorridere, e sussurrò all’orecchio di Miranda: «Temo che dovrai portare a termine questo viaggio senza di me».

    «Che cosa?», esclamò Miranda a voce troppo alta, e subito si affrettò a guardare la bambina. Mercy non sollevò lo sguardo. «Tra poco ci fermeremo. Ci riposeremo e domani ce la prenderemo con calma. Oggi abbiamo fatto molta strada. Dammi il tuo zaino, te lo porto io». Allungò una mano.

    «No. Lo tengo io. È molto fragile, come ben sai – e pericoloso. Se qualcuno dovrà morire portandolo, quel qualcuno dovrò essere io. E per quanto riguarda il riposo, non credo faccia molta differenza. Non ho forze a sufficienza per questo genere di viaggi. Lo sappiamo entrambi».

    «Non puoi mollare».

    «Non dipende da me. Ma tu ce la farai».

    «Ma io non so che cosa fare. Non mi hai mai spiegato il piano».

    Arcadius ridacchiò. «È perché cambia spesso. Avevo sperato che i reggenti avrebbero accettato Mercy come erede di Modina, ma hanno rifiutato».

    «E adesso?».

    «Adesso Modina è sul trono, perciò abbiamo una seconda opportunità. Quello che devi fare è raggiungere Aquesta e cercare di ottenere un’udienza con lei».

    «Ma io non so come…».

    «Ti verrà in mente. Presenta Mercy all’imperatrice. Sarà un primo passo nella direzione giusta. Presto sarai l’unica a conoscere la verità. Detesto doverti sobbarcare di questo fardello, ma non ho scelta».

    Miranda scosse la testa. «No, è stata mia madre a sobbarcarmi del fardello. Non tu».

    «Una confessione sul letto di morte è una grave responsabilità.» Il vecchio annuì. «Ma almeno così ha potuto morire in pace».

    «Lo credi davvero? Il suo spirito non aleggia ancora? A volte mi sembra che mi guardi – che mi perseguiti. Sto pagando il prezzo della sua debolezza, della sua codardia».

    «Tua madre era giovane, povera e ignorante. Aveva visto morire dozzine di uomini, aveva assistito al massacro di una madre e del figlio, e lei stessa era sfuggita alla morte per un pelo. Viveva nella paura che, un giorno, qualcuno scoprisse che i bambini erano due, gemelli, e che lei ne aveva salvato uno».

    «Ma quello che aveva fatto era sbagliato e inconcepibile», commentò Miranda in tono duro. «E la cosa peggiore è che non è stata capace di portarsi il suo peccato nella tomba. Lo ha confessato a me. E ora io devo cercare di porre rimedio ai suoi errori. Lei avrebbe dovuto…».

    Mercy si fermò di colpo, tirando il braccio di Miranda.

    «Tesoro, dobbiamo…» Nel vedere il viso della bambina, Miranda tacque. La debole luce dell’alba svelò la paura, mentre Mercy guardava davanti a sé, dove la strada scendeva verso un enorme ponte di pietra.

    «C’è una luce lassù», disse Arcadius.

    «È forse…?», domandò Miranda.

    L’anziano insegnante scosse la testa. «È un falò; anzi, direi più di uno. Altri rifugiati, temo. Potremmo unirci a loro per facilitarci il cammino. Se non mi sbaglio, sono accampati sulla riva opposta del Galewyr. Non mi ero reso conto fossimo arrivati così lontano. Ecco perché ansimo».

    «Hai visto? I nostri guai sono finiti», disse Miranda alla bambina mentre riprendevano ad avanzare. «Magari hanno anche un carro sul quale fare salire un vecchio».

    Arcadius le lanciò un’occhiataccia, ma poi non trattenne un sorriso. «Forse le cose non vanno poi così male».

    «Dovremo…».

    La bambina strinse la mano di Miranda e tornò a fermarsi. Dal fondo della strada, si avvicinavano degli uomini a cavallo. Gli animali soffiavano nuvolette bianche, mentre i loro zoccoli battevano sul terreno gelato. I cavalieri sedevano in sella avvolti in mantelli scuri. Avevano i cappucci sollevati e i volti nascosti da spesse sciarpe, ma una cosa era certa: erano tutti uomini. Miranda ne contò tre. Avanzavano da sud, ma non dalla direzione dei falò. Quelli non erano rifugiati.

    «Che ne pensi?», domandò Miranda. «Banditi?».

    Il professore scosse la testa.

    «Cosa facciamo?».

    «Niente. Potrebbero anche essere uomini onesti che corrono in nostro aiuto. In caso contrario…». Diede un colpetto alla sacca. «Raggiungi quei falò e chiedi rifugio e protezione. Poi, fai in modo che Mercy arrivi ad Aquesta. Evita i reggenti e cerca di raccontare all’imperatrice la storia della bambina. Dille la verità».

    «E se…».

    I cavalli si avvicinarono e rallentarono.

    «Che cosa abbiamo qua?», domandò un cavaliere.

    Miranda non capì chi avesse parlato, ma immaginò fosse stato il primo. Li osservò mentre se ne restavano immobili, gli sbuffi dei cavalli che riempivano il silenzio.

    «Non è una strana coincidenza?», continuò l’uomo smontando di sella. «Stavo giusto venendo da te, vecchio ».

    Lo sconosciuto era alto e si stringeva un fianco con cautela, muovendosi rigidamente. Gli occhi penetranti scintillavano sotto il cappuccio, il naso e la bocca nascosti sotto una sciarpa scarlatta.

    «Ti stai godendo una passeggiata nella neve alle prime luci dell’alba?», domandò, coprendo la distanza tra di loro.

    «Non proprio», replicò Arcadius. «Stiamo scappando».

    «Non c’è dubbio. Certo, se avessi aspettato anche solo un altro giorno ti avrei mancato e avresti potuto sfuggirmi. Venire a palazzo è stata una mossa stupida. Ti sei esposto troppo. E per che cosa? Avresti dovuto essere più prudente. Ma immagino che l’età porti con sé anche parecchia disperazione». Guardò Mercy. «È questa la bambina?».

    «Guy», disse Arcadius, «Sheridan sta bruciando. Gli elfi hanno attraversato il Nidwalden. Hanno attaccato!».

    Guy! Miranda lo conosceva, o meglio, conosceva la sua reputazione. Arcadius le aveva insegnato i nomi di tutte le sentinelle della chiesa. E secondo il professore, Luis Guy era il più pericoloso. Tutte le sentinelle erano uomini ossessionati, tutte venivano scelte per la loro ortodossia al limite del fanatismo, ma Guy ce l’aveva nel sangue. Il nome da ragazza della madre di Guy era Evone. Era stata una fanciulla devota che aveva sposato Lord Jarred Seret, un discendente diretto di Lord Darius Seret, colui che era stato incaricato dal Patriarca Venlin di trovare l’erede del Vecchio Impero. Nel regno dei cacciatori di eredi, Luis Guy era il più fanatico tra i fanatici.

    «Non prendermi per stupido. Questa è la bambina di cui hai parlato a Saldur ed Ethelred, vero? Quella che volevi educare come la prossima imperatrice. Perché volevi fare una cosa simile, vecchio? Perché proprio questa bambina? È un altro dei tuoi trucchi? O cercavi davvero di imporla scavalcandoci? Per riparare il tuo errore». Guy si accovacciò per dare un’occhiata da vicino a Mercy. «Vieni qua, bambina».

    «No!», scattò Miranda, tirando Mercy accanto a sé.

    Guy si alzò, lentamente. «Lasciala andare», ordinò.

    «No».

    «Sentinella Guy!», gridò Arcadius. «È solo una contadina. Un’orfanella alla quale ho dato asilo».

    «Davvero?». L’uomo sguainò la spada.

    «Sii ragionevole. Non hai idea di quello che stai facendo».

    «Oh, credo proprio di sì. Erano tutti così concentrati su Esrahaddon che nessuno ha fatto caso a te. Chi avrebbe mai potuto immaginare che tu avresti indicato la via per trovare l’erede non una volta, ma due?».

    «L’erede? L’Erede di Novron? Sei pazzo? È per questo che pensi che io abbia parlato ai reggenti?».

    «Non è così?».

    «No». Il professore scosse la testa, sulle labbra un sorriso divertito. «Ero andato da loro perché sospettavo che non avessero pensato alla questione della successione, e volevo offrire il mio aiuto per educare il prossimo imperatore».

    «Ma hai insistito su questa bambina – solo su di lei. Perché lo avresti fatto se non fosse veramente l’erede?».

    «Sciocchezze. Come potrei sapere chi è l’erede? O anche solo sapere se esiste ancora un erede?».

    «Esatto, come? Quello è il pezzo che manca. Tu sei l’unico che potrebbe saperlo. Dimmi, Arcadius Latimer, che mestiere faceva tuo padre?».

    «Era un tessitore, ma non vedo come…».

    «Dimmi, come ha fatto il figlio del tessitore di un povero villaggetto a diventare professore di folklore all’Università di Sheridan? Dubito che tuo padre sapesse leggere, eppure suo figlio è uno dei più famosi studiosi del mondo. Come è potuto accadere?».

    «Ti prego, Guy, non credo ci sia bisogno di spiegare i meriti dell’ambizione e del lavoro duro a uno come te».

    Un ghigno apparve sul volto della sentinella. «Sei sparito per dieci anni e quando sei tornato, sapevi molte più cose di quando te n’eri andato».

    «Ti stai inventando tutto».

    L’altro scosse la testa. «La chiesa non permette a chiunque di insegnare nella sua università. Pensavi che non tenesse dei registri?».

    «Certo che li tiene, ma non credevo che li avresti visti». L’anziano sorrise.

    «Sono una sentinella, idiota! E ho accesso a tutti gli archivi della chiesa».

    «Sì, ma non credevo che la mia carriera scolastica potesse interessare a qualcuno. Ero un ribelle in gioventù – e anche piuttosto bello. C’è scritto anche questo negli archivi?».

    «C’è scritto che hai trovato la tomba di Yolric. Chi era Yolric?».

    «E io che pensavo che tu sapessi tutto».

    «Non ho avuto tempo di andare a sfogliare i libri. Avevo fretta di prenderti».

    «Ma perché? Perché me? Perché hai sguainato la spada?».

    «Perché l’Erede di Novron deve morire».

    «Lei non è l’erede. Perché pensi lo sia? E io come potrei sapere chi è l’erede?».

    «Questo è uno dei segreti che hai portato con te al tuo ritorno. Hai scoperto come localizzare l’erede».

    «Bah! Lasciatelo dire, Guy, hai davvero una bella fantasia».

    «C’erano altri registri. La chiesa ti aveva chiamato per interrogarti. Credevano fossi andato a Percepliquis come quell’Edmund Hall. E poi, pochi giorni dopo quell’incontro, c’era stato uno scontro nella città di Ratibor. Una donna incinta e il marito erano stati uccisi. Il loro nome era Linitha e Naron Brown, massacrati dai Cavalieri Seret. Dopo secoli di ricerca, trovo interessante che il mio predecessore fosse riuscito a localizzare l’Erede di Novron pochi giorni dopo che la chiesa ti aveva interrogato». Guy fissò il professore. «Avevi stretto un patto con la chiesa? Avevi scambiato informazioni in cambio della tua libertà? Sono certo ti avessero raccontato che volevano trovare l’erede per incoronarlo nuovamente come loro re. Quando hai scoperto quello che avevano fatto veramente, immagino ti sia sentito usato – il senso di colpa deve essere terribile».

    Guy tacque per dare tempo ad Arcadius di rispondere, ma l’anziano professore non aprì bocca.

    «Dopo di che tutti pensarono che non vi fossero più discendenti, dico bene? Persino il Patriarca non sapeva che c’era ancora un altro erede al mondo. Poi Esrahaddon fugge e va dritto da Degan Gaunt. Solo che Degan non è l’erede. Anch’io inizialmente mi sono lasciato ingannare, ma immagina la mia sorpresa quando ho scoperto che non aveva passato la prova del sangue, che aveva superato in precedenza. Esrahaddon doveva essere ricorso alla stessa pozione che aveva utilizzato su Re Amrath e Arista e che aveva spinto Braga a sospettare degli Essendon. Ripensandoci, immagino che avremmo dovuto capire che un mago del Vecchio Impero non era uno stupido e che non ci avrebbe portato al vero erede.

    «Ma ce n’era un altro, vero? E per trovarlo, tu hai ripetuto quello stesso trucco a cui eri ricorso la prima volta ». Guy guardò Mercy. «Chi è? Una figlia bastarda? Una nipote?». Si mosse verso Miranda. «Dammela».

    «No!», gridò l’anziano professore.

    Uno dei soldati afferrò Miranda, e un altro le strappò via la bambina.

    «Ma prima, accertiamocene. Non ripeterò due volte lo stesso errore». Con un abile movimento del polso, Guy aprì un tagliò nella mano di Mercy. La bimba strillò e Mr Rings soffiò.

    «Come ti permetti!», scattò Arcadius.

    «Teneteli d’occhio», ordinò Guy ai suoi uomini, mentre lui si avvicinava al suo cavallo.

    «Buona adesso, fai la bimba coraggiosa», mormorò Miranda a Mercy.

    Guy posò delicatamente la spada a terra, quindi estrasse dalla bisaccia un piccolo contenitore di pelle. Da lì, tirò fuori tre fiale. Aprì la prima, la inclinò e picchiettò con un dito fino a quando sulla punta macchiata di sangue della sua spada non comparve un pizzico di polvere.

    «Voglio andare via», piagnucolò Mercy, mentre la guardia la teneva stretta. «Possiamo andare?».

    «Interessante», mormorò Guy, quindi versò il contenuto della seconda fiala: un liquido che sibilò e sfrigolò a contatto con la lama.

    «Guy!», gridò Arcadius avanzando verso la sentinella.

    «Molto interessante», continuò Guy. Aprì l’ultima fiala.

    «Guy, no!», strillò l’anziano professore.

    Guy versò una sola goccia sulla punta della spada.

    Pop!

    Fu come se qualcuno avesse stappato una bottiglia di vino, ma al suono seguì un lampo.

    La sentinella si alzò, lo sguardo sull’estremità della spada, e iniziò a ridere. Era un suono strano e sinistro, come la cantilena di un folle. «Finalmente. Finalmente ho trovato l’Erede di Novron. La ricerca dei miei antenati giunge alla sua conclusione grazie a me».

    «Miranda», sussurrò Arcadius, «non puoi fare più niente da sola». Gli occhi dell’anziano si spostarono sul campo di rifugiati.

    Con l’aumentare della luce, Miranda riuscì a scorgere numerose colonne di fumo. La salvezza forse era a non più di poche centinaia di metri.

    «Ho dedicato tutta la mia vita a cercare di rimediare al mio errore. Ma adesso sta a te fare ciò che deve essere fatto», affermò Arcadius.

    Luis Guy prese la bambina e la issò sul suo cavallo. «La porteremo dal Patriarca».

    «E che cosa ne facciamo di questi due, signore?», domandò uno dei due incappucciati.

    «Prendete il vecchio. E uccidete la donna».

    Il cuore di Miranda si fermò quando il soldato portò la mano alla spada.

    «Aspetta!», intervenne Arcadius. «E il corno?». L’anziano professore stava indietreggiando, la sacca stretta al petto. «Il Patriarca vorrà anche il corno, no?».

    Gli occhi di Guy fissarono la tracolla di Arcadius.

    «Ce l’hai tu?», domandò la sentinella.

    Arcadius lanciò un’occhiata disperata a Miranda, girò sui tacchi e fuggì lungo la strada.

    «Tieni d’occhio la bambina», ordinò Guy a uno dei suoi uomini. Voltatosi verso l’altro, gli fece un cenno e insieme partirono all’inseguimento di Arcadius, che correva più veloce di quanto Miranda avesse mai immaginato.

    Guardò il suo più caro amico tornare indietro da dove erano venuti, il mantello che svolazzava dietro di lui. La scena avrebbe potuto apparire persino comica, se non fosse stato che lei sapeva ciò che Arcadius teneva nella sacca. Lei sapeva perché lui stesse correndo via, sapeva che cosa ciò significava, e ciò che lui voleva che lei facesse.

    Miranda impugnò il pugnale che aveva sotto il mantello. Non aveva mai ucciso nessuno, ma aveva forse un’altra scelta? L’uomo in piedi tra lei e Mercy era un soldato, e probabilmente un Cavaliere Seret. Le dava le spalle, una mano sulle briglie del cavallo di Guy e lo sguardo su Mercy e sul procione che soffiava e gli mostrava i denti.

    Pochi secondi e Guy e l’altro uomo avrebbero raggiunto Arcadius. Miranda non aveva tempo da perdere. Sapendo quello che sarebbe successo, avrebbe voluto mettersi a piangere. Avevano percorso così tanta strada insieme, sacrificato così tanto, e proprio quando sembrava che fossero ormai vicini alla meta… essere fermati in quel modo… essere ammazzati sul ciglio di una strada… Tragico non bastava per descrivere quell’ingiustizia. Più tardi avrebbe avuto tempo per le lacrime. Il professore contava su di lei e lei non lo avrebbe deluso. Quell’ultima occhiata le aveva detto tutto. Quella era la scommessa finale. Se fossero riusciti a portare Mercy da Modina, forse la giustizia avrebbe trionfato.

    Estrasse il pugnale e scattò in avanti, affondando la lama nella schiena del soldato con tutta la forza che aveva in corpo. L’uomo non indossava né la cotta di maglia né un’altra protezione e la lama affilata affondò nel tessuto, nella pelle e nei muscoli.

    Il soldato si girò e la colpì. Un pugno alla guancia che l’atterrò. Miranda cadde nella neve, il pugnale ancora stretto in mano, l’impugnatura bagnata di sangue.

    Sul cavallo, Mercy si aggrappò alla sella e gridò. Il procione emise strani versi, il pelo sollevato.

    Miranda si tirò in piedi mentre il soldato sguainava la spada. Era ferito gravemente. Il sangue impregnava le brache e l’uomo barcollò verso di lei. Miranda cercò di fuggire, allungandosi verso Mercy e il cavallo, ma il seret fu più veloce. La spada la trafisse da qualche parte vicino alla vita. Sentì la lama affondare. Il dolore esplose, subito sostituito da un freddo improvviso. Le ginocchia le si piegarono. Riuscì a restare aggrappata alla sella mentre il cavallo, spaventato dalla violenza e dalle urla di Mercy, si mosse, trascinandola con sé.

    Dietro di loro, il soldato cadde in ginocchio, il sangue che gli gorgogliava dalla bocca.

    Miranda cercò di issarsi, ma le gambe erano un peso morto, immobili e pesanti. Sentì la forza delle braccia scivolare via. «Prendi le redini, Mercy, e stringile forte».

    Lungo la strada, Guy e l’altro seret avevano raggiunto Arcadius. Guy, che si era fermato nell’udire le grida della bambina, era rimasto indietro ma l’altro soldato aveva placcato l’anziano professore.

    «Mercy», disse Miranda, «devi cavalcare. Fino a laggiù, dove vedi quei fuochi. Chiedi aiuto. Vai».

    Con le sue ultime forze, colpì il fianco dell’animale. Il cavallo scattò in avanti. La sella scivolò via dalle mani di Miranda, che cadde nuovamente nella neve. Sdraiata a terra, ascoltò il galoppo del cavallo che si allontanava.

    «Alzati su…», sentì gridare Guy, ma era troppo tardi. Arcadius aveva aperto la sacca.

    Anche a decine di metri Miranda sentì la terra tremare per l’esplosione. Un attimo dopo, una folata di vento le gettò la neve ghiacciata sul viso, mentre una nuvola si gonfiava nel cielo del mattino. Arcadius, e l’uomo che lo aveva aggredito, morirono sul colpo. Guy venne gettato a terra. I cavalli rimasti fuggirono.

    Mentre la nuvola di neve si posava, Miranda fissò il cielo, che lentamente schiariva illuminato dalla luce dell’alba. Non aveva più freddo. Il dolore al fianco stava passando, diventando un tutt’uno con le mani e le gambe, ormai insensibili. Una brezza fredda le accarezzò il viso e si accorse di avere le gambe bagnate, il vestito fradicio. Sentì il sapore del ferro sulla lingua. Respirare divenne a un tratto difficile – come se fosse stata sul punto di affogare.

    Guy era ancora vivo. Lo udì imprecare contro l’anziano professore e chiamare i cavalli come se fossero stato cani disobbedienti. Lo scricchiolio della neve, lo sfregamento del cuoio e poi il rumore di zoccoli che galoppavano via.

    Era rimasta sola nel silenzio di quella fredda alba invernale.

    Tutto era tranquillo. Immobile.

    «Maribor, ascoltami», pregò rivolgendo lo sguardo al cielo. «Oh, Padre di Novron, creatore dell’umanità». E con il suo ultimo respiro mormorò: «Prenditi cura della tua unica figlia».

    Alenda Lanaklin scivolò fuori dalla tenda alla fredda aria del mattino. Indossava il vestito di lana più pesante che possedeva e due strati di pelliccia, ma continuava a tremare. Il sole stava sorgendo – una foschia gelida e lattiginosa nella zuppa di un fosco cielo invernale. Le nuvole la perseguitavano da più di una settimana e si chiese se avrebbe mai più rivisto quella palla infuocata e luminosa che era il sole.

    Restò sulla neve compatta, lasciando vagare lo sguardo sulle dozzine di tende piantate tra i pini. I falò bruciavano in buche scavate nella neve, creando code di fumo grigio che scodinzolavano nel vento. Tra di essi vagavano delle figure, incappucciate e infagottate al punto tale che sarebbe stato impossibile distinguere gli uomini dalle donne. In realtà era un problema inesistente – erano praticamente tutte donne. Erano queste ultime a popolare l’accampamento, insieme a bambini e anziani. Tutti camminavano a testa bassa, facendo attenzione a dove posavano i piedi nella neve.

    Alla luce, tutto appariva così diverso, così tranquillo, così immobile. La notte precedente c’erano state solo la paura del fuoco, le grida e la fuga lungo la strada di Westfield. Si erano fermati solo una volta per una conta, prima di riprendere il cammino. Lei era stata così esausta che quasi non ricordava quando avevano montato il campo.

    «Buon giorno, milady», la salutò Emily da sotto una coperta avvolta sopra il mantello. Le parole erano prive dell’abituale gaiezza. L’ancella di Alenda era sempre stata allegra e gioiosa al mattino. Ora se ne stava immobile con cupa solerzia, le mani arrossate tremanti, i denti che battevano per il freddo.

    «È un buon giorno, Emmy?». Alenda lanciò un’altra occhiata intorno a sé. «Come fai a dirlo?».

    «Avete bisogno di fare colazione. Qualcosa di caldo e starete subito meglio».

    «Mio padre e i miei fratelli sono morti», replicò Alenda. «Il mondo è vicino alla fine. Come può una semplice colazione essere d’aiuto?».

    «Non lo so, milady, ma dobbiamo provarci. È quello che voleva vostro padre – che voi sopravviveste, intendo. È per questo che è rimasto indietro, giusto?».

    Un botto, come il rombo di un tuono, echeggiò da nord. Tutte le teste si voltarono in quella direzione, gli sguardi sui campi innevati. E i volti terrorizzati: la fine era ormai alle porte.

    Raggiunto il centro dell’accampamento, Alenda trovò Belinda Pickering, sua figlia Lenare, Julian, il vecchio lord ciambellano di Melengar, e Lord Valin, l’unico uomo a protezione delle donne. La notte precedente, l’anziano cavaliere le aveva guidate attraverso il caos. Erano loro a costituire le ultime vestigia della corte reale. Re Alric era ad Aquesta a sostenere la guerra civile e salvare la sorella Arista dalla pena capitale. Era da lui che erano diretti.

    «Non ne abbiamo idea, ma è stupido fermarsi più a lungo», stava dicendo Lord Valin.

    «Sì, sono d’accordo», replicò Belinda.

    Lord Valin si rivolse a un giovane. «Che tutti si sveglino. Leveremo l’accampamento immediatamente».

    «Emmy», disse Alenda, girandosi verso l’ancella. «Torna indietro e prendi le nostre cose».

    «Certamente, milady». Emily s’inchinò e si diresse verso la tenda.

    «Che cos’era quel rumore?», domandò Alenda e Lenare, che si limitò a stringersi nelle spalle, il viso paonazzo per il freddo.

    Lenare Pickering era deliziosa, come sempre. Nonostante gli orrori, la fuga, e le condizioni disagiate dell’accampamento, era radiosa. Anche trasandata in un mantello afferrato al volo, i capelli biondi che spuntavano disordinatamente dal cappuccio, restava stupenda. Aveva ricevuto quella benedizione dalla madre. Così come gli uomini Pickering erano famosi per la loro abilità con la spada, così le donne della famiglia lo erano per la loro bellezza. La madre di Lenare, Belinda, era nota per il suo fascino.

    Ora era tutto finito. Ciò che solo fino al giorno prima era stato la normalità, adesso era perduto, al di là di un abisso troppo ampio per poter vedere dall’altra parte, sebbene a volte Lenare sembrasse provarci. Alenda l’aveva vista spesso guardare l’orizzonte a nord con un’espressione tra la disperazione e il rimorso, alla ricerca di fantasmi.

    Tra le braccia, Lenare teneva ancora la leggendaria spada del padre. Il conte gliel’aveva consegnata, pregandola di portarla al fratello Mauvin. Poi aveva baciato ogni membro della famiglia prima di tornare dove il padre di Alenda e i suoi fratelli aspettavano insieme al resto dell’esercito. Da allora, Lenare non aveva mai posato quel fardello. Aveva avvolto l’arma in una coperta di lana scura, legandola con un nastro di seta. Per tutta la durata della fuga aveva stretto al petto quel fardello, a volte usandolo per asciugarsi le lacrime.

    «Se oggi procederemo a passo spedito, potremmo arrivare a Colnora per il tramonto», disse loro Lord Valin. «Sempre che il tempo migliori». L’anziano cavaliere sollevò lo sguardo verso il cielo come se fosse stato il loro unico avversario.

    «Lord Julian», disse Belinda. «I cimeli… lo scettro e il sigillo…».

    «Sono al sicuro, milady», rispose l’anziano ciambellano. «Nei carri. Il regno è intatto, eccetto il territorio». L’uomo guardò indietro nella direzione dello strano suono, verso le rive del fiume Galewyr e il ponte che avevano attraversato la notte precedente.

    «Ci aiuteranno a Colnora?», domandò Belinda. «Non abbiamo molto cibo».

    «Se la notizia del ruolo giocato da Re Alric nella liberazione dell’imperatrice sarà giunta loro, dovrebbero essere ben disposti», affermò Lord Valin. «E comunque, anche in caso contrario, Colnora è una città mercantile e i mercanti prosperano sul profitto, non sulla cavalleria».

    «Io ho qualche gioiello», li informò Belinda. «Se ve ne fosse bisogno, potrete vendere quello che ho per…». La contessa si fermò nel notare l’attenzione di Julian ancora rivolta al ponte.

    Altri sollevarono lo sguardo e infine la stessa Alenda, che vide avvicinarsi un cavaliere.

    «Ma è…?», cominciò Lenare.

    «Una bambina», terminò Belinda.

    Alenda capì subito che aveva ragione. Una bimbetta galoppava verso di loro, avvinghiata al collo del cavallo. Il cappuccio le era scivolato indietro, rivelando lunghi capelli scuri e guance rosee. Doveva avere circa sei anni, e così come lei si stringeva al cavallo, un procione si teneva aggrappato a lei. Erano una strana coppia per viaggiare da soli, ma Alenda ricordò a se stessa che di normale non esisteva più niente. Anche vedere un orso con un cappello piumato a cavallo di un pollo ora sarebbe rientrato nella normalità.

    Il cavallo raggiunse l’accampamento e Lord Valin lo afferrò per il morso, obbligandolo a fermarsi.

    «Stai bene, piccola?», domandò Belinda.

    «C’è del sangue sulla sella», osservò Lord Valin.

    «Sei ferita?», chiese la contessa alla bambina. «Dove sono i tuoi genitori?».

    La piccola rabbrividì e sbatté le palpebre ma non aprì bocca, i pugni ancora chiusi intorno alle briglie.

    «È un pezzo di ghiaccio», affermò Belinda, toccandole una guancia. «Aiutatemi a tirarla giù».

    «Come ti chiami?», le domandò Alenda.

    La bimba restò muta. Privata del cavallo, abbracciò il procione.

    «Un altro cavaliere», annunciò Lord Valin.

    Alenda sollevò lo sguardo e vide un uomo attraversare il ponte e dirigersi verso di loro.

    Il cavaliere piombò nell’accampamento e tirò indietro il cappuccio, rivelando lunghi capelli neri, una pelle pallida e occhi intensi. Aveva baffi sottili e una barba corta e appuntita. Li fissò con espressione truce fino a quando non scorse la bambina.

    «Eccola!», disse indicandola. «Datemela subito».

    La piccola gridò spaventata, scuotendo la testa.

    «No!», affermò Belinda in tono deciso, spingendo la bimba tra le braccia di Alenda.

    «Milady», intervenne Lord Valin. «Se è la sua bambina…».

    «Non è sua», dichiarò la contessa in tono colmo di odio.

    «Sono una Sentinella di Nyphron», gridò l’uomo, così che tutti potessero sentire. «Questa bambina è rivendicata dalla chiesa. Datemela subito. Chiunque oserà opporsi a me morirà».

    «So benissimo chi siete, Luis Guy», lo aggredì Belinda, ribollendo di rabbia. «Non vi darò nessun altro bambino da uccidere».

    La sentinella la fissò. «Contessa Pickering?». Osservò l’accampamento con rinnovato interesse. «Dov’è vostro marito? E dov’è vostro figlio, il fuggitivo?».

    «Non sono un fuggitivo», affermò Denek facendosi avanti. Il figlio minore di Belinda aveva appena compiuto tredici anni ed era alto e smilzo. L’esatta copia dei fratelli maggiori.

    «Si riferisce a Mauvin», gli spiegò Belinda. «Questo è l’uomo che ha ucciso Fanen».

    «Torno a chiedervelo», insistette Guy. «Dov’è vostro marito?».

    «È morto e Mauvin è fuori dalla vostra portata».

    La sentinella lasciò vagare lo sguardo sulla folla e infine su Lord Valin. «E vi ha lasciato lui come unica protezione. Un po’ poco, non trovate? Adesso datemi la bambina».

    «No», affermò Belinda.

    Guy scese di sella e avanzò fino a piazzarsi davanti a Lord Valin. «Datemi la bambina o la prenderò con la forza».

    L’anziano cavaliere guardò Belinda, il cui viso esprimeva tutto l’odio che la donna provava nei confronti del seret. «La mia signora non è d’accordo e io difenderò la sua posizione». Sguainò la spada. «Andatevene».

    Alenda trasalì al suono dell’acciaio quando Guy estrasse la spada e balzò in avanti. Pochi secondi dopo, Lord Valin si teneva il fianco sanguinante, il braccio che teneva la spada ondeggiante. Con un colpo ben assestato la sentinella disarmò l’anziano guerriero e gli affondò la lama nel collo.

    Guy avanzò verso la bambina, gli occhi accesi da un fuoco demoniaco. Prima che potesse coprire la distanza, Belinda si mise tra di loro.

    «Non è mia abitudine uccidere le donne», affermò Guy. «Ma niente mi impedirà di portarmi via questo bottino».

    «Perché la volete?».

    «Come avete già detto, per ucciderla. La porterò dal Patriarca e poi dovrà morire, per mano mia».

    «Scordatevelo».

    «Non potete fermarmi. Guardatevi intorno. Ci sono solo donne e bambini. Nessuno combatterà per voi. Datemi la bambina!».

    «Madre?», mormorò Lenare. «Ha ragione. Non c’è nessun altro. Ti prego».

    «Madre, lascia a me il compito», implorò Denek.

    «No. Sei ancora troppo giovane. Tua sorella ha ragione. Non c’è nessun altro». La contessa annuì guardando la figlia.

    «Sono felice di vedere qualcuno che…». Guy si fermò quando Lenare avanzò. La fanciulla si liberò del mantello e slegò il suo fardello, scoprendo la spada del padre, che sguainò e tenne sollevata davanti a sé. La lama catturò la fosca luce invernale, assorbendola per poi liberarla in un abbagliante splendore.

    Confuso, Guy la guardò per un istante. «Cosa succede?».

    «Avete ucciso mio fratello», affermò Lenare.

    Guy guardò Belinda. «Non farete sul serio».

    «Solo per questa volta, Lenare», disse Belinda alla figlia.

    «Siete disposta a fare morire vostra figlia per questa bambina? Se dovrò uccidere tutti i vostri figli, lo farò».

    Alenda guardava, terrorizzata, mentre tutti indietreggiavano, creando un cerchio intorno alla Sentinella Guy e a Lenare. Un vento tagliente sferzava le tende, spingendo indietro i capelli dorati di Lenare. In piedi nella neve, con indosso gli abiti bianchi da viaggio e in mano lo stocco, sembrava una creatura mitica, una regina delle fate o una dea – bellissima nella sua eleganza.

    Con sguardo torvo, Luis Guy balzò in avanti e con sorprendente grazie e velocità, Lenare respinse l’attacco. La spada del padre cantò al contatto delle lame.

    «Avete già brandito una spada», commentò Guy sorpreso.

    «Sono una Pickering.»

    L’uomo cercò di colpirla. Lei lo bloccò. Lui affondò. Lei parò. Poi Lenare attaccò, aprendo un taglio sulla guancia di Guy.

    «Lenare», la rimproverò la madre con voce severa. «Non fare giochetti».

    Guy si fermò, una mano alla guancia sanguinante.

    «Ha ucciso Fanen, Madre», ribatté Lenare in tono gelido. «È giusto che soffra. Che sia di esempio».

    «No», replicò Belinda. «Non è così che ci comportiamo noi. Tuo padre non approverebbe. Lo sai. Finiscilo e basta».

    «Ma che cosa state dicendo?», domandò Guy, ma c’era esitazione nella sua voce. «Siete una donna».

    «Ve l’ho detto; sono una Pickering e voi avete ucciso mio fratello».

    Guy cominciò a sollevare la spada.

    Lenare balzò in avanti. Il sottile stocco affondò nel cuore dell’uomo e la fanciulla rimosse la lama ancora prima che il seret avesse lanciato l’attacco.

    Luis Guy cadde a terra privo di vita, il volto nella neve insanguinata.

    CAPITOLO DUE

    INCUBI

    Arista si svegliò urlando. Tremava; aveva lo stomaco chiuso in una morsa – i residui di un sogno che non riusciva a ricordare. Si sedette, la mano sinistra sopra il cuore in subbuglio. Batteva così forte, così velocemente contro le costole che le sembrava volesse scappare. Cercò di ricordare. Ma riuscì solo a rammentare brevi frammenti, pezzetti che sembravano sconnessi e frammentari. L’unica costante era Esrahaddon, la sua voce così debole e lontana da impedirle di riuscire a sentire le parole.

    La sottile camicia da notte era appiccicata alla pelle, madida di sudore. Le lenzuola, strappate dal materasso, scendevano a terra. La trapunta, ricamata con motivi floreali, giaceva quasi dall’altra parte della stanza. La veste di Esrahaddon era invece ordinatamente piegata vicino a lei, e irradiava un lieve bagliore azzurro. Sembrava che un’ancella l’avesse preparata perché potesse indossarla al suo risveglio. La mano di Arista la toccò.

    Come fa a essere sul letto? Guardò l’armadio. L’anta che ricordava chiusa era spalancata e un brivido l’attraversò. Era sola.

    Un lieve colpo alla porta la fece trasalire.

    «Arista?». La voce di Alric giunse dall’esterno.

    La principessa si gettò la veste sulle spalle e subito avvertì un senso di calore e sicurezza. «Entra», disse.

    Il fratello aprì la porta e sbirciò dentro, tenendo una candela sollevata quasi oltre la testa. Indossava una tunica bordeaux e aveva una cintura legata in vita dalla quale pendeva la Spada di Essendon. L’arma era enorme ed entrando, Alric usò la mano per sollevarne la punta ed evitare di trascinarla sul pavimento. Quell’immagine le riportò alla mente la notte in cui il loro padre era stato... la notte in cui Alric era divenuto re.

    «Ti ho sentito gridare. Stai bene?», le domandò, lo sguardo che vagava per la stanza per poi soffermarsi sulla veste.

    «Sto bene. È stato solo un incubo».

    «Un altro?». Il re sospirò. «Sai, forse potrebbe andare meglio se non dormissi con addosso quella roba». Indicò la veste. «Dormire nei vestiti di un uomo morto… è macabro – raccapricciante, direi. Non dimenticare che era un mago. Quella cosa potrebbe essere – be’, lo dico una volta per tutte –, quella cosa è incantata. Sono sicuro sia responsabile dei tuoi incubi. Ti va di raccontarmi quello di stanotte?».

    «Non ricordo molto. Come in tutti gli altri, io… non lo so. È difficile descriverlo. Vengo travolta da un senso di urgenza. Sento il bisogno di trovare qualcosa – e se non lo faccio, muoio. Mi sveglio sempre terrorizzata, come se camminassi oltre il bordo di una scogliera senza accorgermene».

    «Posso portarti qualcosa?», le domandò Alric. «Acqua? Tè? Una zuppa?».

    «Una zuppa? E dove la trovi una zuppa nel cuore della notte?».

    Lui si strinse nelle spalle. «Boh, mi è venuto in mente e te l’ho chiesto. Non c’è bisogno che ti arrabbi. Ti ho sentito gridare, sono balzato fuori dal letto e sono corso alla tua porta, mi sono offerto di portarti qualcosa per calmarti ed è così che mi ringrazi?».

    «Scusa». Arista aggrottò la fronte scherzosamente, ma era sincera. Averlo lì l’aiutava a cacciare via le ombre e le impediva di pensare all’armadio. Batté una mano sul letto. «Siediti».

    Alric esitò, quindi posò la candela sul comodino e si sedette accanto a lei. «Che cosa è successo a lenzuola e trapunta? Hai fatto la lotta?».

    «Forse. Non riesco a ricordarmelo».

    «Hai un aspetto terribile», affermò Alric.

    «Grazie».

    Il fratello sospirò.

    «Mi spiace. Davvero. Ma tu sei sempre il mio fratellino e non mi sono ancora abituata a questo tuo nuovo lato protettivo. Ti ricordi quando sono caduta di sella da Tamarisk e mi sono rotta la caviglia? Mi faceva così male che mi si era persino annebbiata la vista. Quando ti avevo chiesto di aiutarmi, tu te n’eri rimasto là a ridere e basta».

    «Avevo dodici anni».

    «Eri un moccioso viziato».

    Lui si rabbuiò.

    «Ma non lo sei più». Gli prese una mano e la chiuse tra le sue. «Grazie per essere venuto a controllare. Hai persino indossato la spada».

    Alric abbassò lo sguardo. «Non sapevo quale bestia o canaglia potesse attaccare la principessa. Dovevo arrivare preparato per la battaglia».

    «Riesci almeno a sguainare quella roba?».

    Alric le lanciò un’altra occhiataccia. «Oh, ma smettila. Se ancora tu non lo sapessi, pare che nella Battaglia di Medford io abbia combattuto magistralmente».

    «Magistralmente?».

    «Sì, potremmo dire addirittura eroicamente. Anzi, credo che qualcuno abbia proprio usato quella parola», sottolineò lui cercando di soffocare un sorriso.

    «Mi sa che hai guardato un po’ troppe volte quella stupida commedia».

    «È un esempio di buon teatro e mi piace sostenere l’arte».

    «L’arte». La principessa sollevò gli occhi al cielo. «Ti piace solo perché tutte le fanciulle vanno in deliquio e tu adori essere al centro dell’attenzione».

    «Be’…». Alric si strinse nelle spalle con aria colpevole.

    «Non negarlo! Ti ho visto con un gruppo di femmine che ti giravano intorno come avvoltoi e tu che ti pavoneggiavi come il toro alla fiera del paese. Tieni un elenco? Julian te le manda in camera per colore dei capelli, per altezza o semplicemente in ordine alfabetico?».

    «Non è così».

    «Sai una cosa, tu ti devi sposare e prima lo farai, meglio sarà. Hai una stirpe da difendere. I re che non generano eredi provocano guerre civili».

    «Parli come nostro padre. Possibile che la mia vita debba essere priva di qualsiasi divertimento? Già devo essere re, non farmi fare anche il marito e il padre! E comunque, ho ancora un sacco di tempo. Sono giovane. A sentirti sembra che ormai io abbia un piede nella fossa. E tu? Corri il rischio di restare zitella. Non dovremmo cercarti un nobile degno di te? Ti ricordi quando ti eri convinta che avessi organizzato il tuo matrimonio con il Principe Rudolf e… Arista? Stai bene?».

    Lei girò il viso dall’altra parte, tamponandosi gli occhi. «Sto bene».

    «Mi spiace». Arista sentì la mano del fratello sulla spalla.

    «Va tutto bene», ripeté e si schiarì la voce.

    «Sai, non avrei mai…».

    «Lo so. Va tutto bene, davvero». Tirò su col naso e lo soffiò. Restarono in silenzio alcuni minuti, poi Arista disse: «Sai, avrei sposato Hilfred. Non mi sarebbe importato di ciò che tu o il consiglio avreste detto».

    Un’espressione sorpresa si dipinse sul volto del giovane sovrano. «Ma quando mai ti è importato di Hilfred, eh?». Sorrise e scosse la testa.

    Lei lo fissò.

    «Non è come pensi», le disse.

    «E allora com’è?», domandò Arista in tono accusatorio, pensando che il ragazzino che aveva riso alla sua caduta fosse ricomparso.

    «Non voglio offendere Hilfred. Mi piaceva. Era un brav’uomo e ti amava molto».

    «Ma non era nobile», lo interruppe lei. «Be’, senti…».

    «Aspetta». Il fratello sollevò una mano. «Lasciami finire. Hilfred non aveva sangue blu nelle vene ma era più nobile di qualsiasi uomo io conosca, salvo forse Breckton. Come riuscisse a starti accanto ogni giorno senza mai dirti niente è un mistero ed è un esempio di vera cavalleria. Lui non era un cavaliere, ma è l’unico che io abbia mai visto comportarsi come tale. No, non è perché non era di nobili origini, e non perché non fosse un tipo in gamba. Mi sarebbe piaciuto moltissimo averlo come fratello».

    «E allora, perché?», domandò Arista, a un tratto confusa.

    Alric la guardò e nei suoi occhi lei scorse la stessa espressione che vi aveva visto quando lui l’aveva trovata nel buio della prigione imperiale.

    «Non lo amavi», rispose semplicemente.

    Quelle parole la sconvolsero. E non replicò. Non trovò niente da dire.

    «Credo non ci fosse nessuno al Castello di Essendon che non sapesse quali sentimenti Hilfred nutrisse per te. Come mai tu eri l’unica a ignorarlo?», le chiese.

    Arista non riuscì a trattenersi. Cominciò a piangere.

    «Arista, scusa. Volevo solo…».

    Lei scosse la testa, cercando di prendere fiato per riuscire a parlare. «No, hai ragione. Hai ragione». Le labbra le tremarono. «Ma lo avrei sposato comunque. Lo avrei reso felice».

    Alric l’avvicinò a sé. Arista affondò la testa nelle pieghe della tunica del fratello e si strinse a lui. Restarono in silenzio a lungo e alla fine lei tornò a mettersi seduta e si asciugò il viso.

    Prese fiato. «Ma da quando sei diventato così romantico? E da quando in qua l’amore ha a che fare con il matrimonio? Tu non ami nessuna delle fanciulle con cui passi il tempo».

    «Ed è per questo che non sono sposato».

    «Davvero?».

    «Sorpresa? Forse la colpa è del ricordo di mamma e papà».

    Arista lo guardò con occhi socchiusi. «Lui l’aveva sposata perché la mamma era la nipote di Ethelred e lui aveva bisogno di far leva su Warric per combattere la guerra commerciale con Chadwick e Glouston».

    «Forse all’inizio, ma si sono lentamente innamorati l’uno dell’altra. Il papà mi diceva sempre che ovunque lui fosse, se la mamma era con lui, quella era casa. Non lo dimenticherò mai. Non ho mai incontrato nessuna donna che mi faccia sentire così. E tu?».

    Lei esitò. Per un attimo pensò di confessargli la verità, ma poi scosse la testa.

    Scese nuovamente il silenzio. Infine Alric si alzò. «Sei sicura di non volere niente?».

    «No, ma grazie. È bello sapere che ti preoccupi per me».

    Il fratello aveva quasi raggiunto la porta quando Arista lo chiamò: «Alric?».

    «Mmh?».

    «Ti ricordi quando tu e Mauvin progettavate di andare a Percepliquis?».

    «Oh sì, credimi, in questi giorni non faccio che pensarci. Che cosa darei per poter…».

    «Sai dove si trova?».

    «Percepliquis? No. Nessuno lo sa. Mauvin e io speravamo semplicemente di finirci sopra. Tipiche cose da bambini, come uccidere un drago o vincere i giochi alla Festa dell’Inverno. Anche se cercare sarebbe stato divertente. E invece, temo che dovrò tornare a casa e cercarmi una moglie, che mi farà indossare le scarpe eleganti per cena. So che lo farà».

    Alric se ne andò, chiudendo dolcemente la porta dietro di sé e lasciando Arista al bagliore azzurro della veste. Quest’ultima si lasciò andare contro il cuscino, gli occhi aperti e fissi sulla pietra e l’intonaco sopra di lei. Vide dove l’artigiano aveva passato la cazzuola, lasciando un segno indelebile. La luce della veste cambiava a ogni respiro, creando l’illusione del movimento e dandole la sensazione di essere sott’acqua, come se il soffitto fosse stato la superficie illuminata di un laghetto ghiacciato. Si sentiva come se stesse annegando, intrappolata sotto la spessa lastra di ghiaccio azzurro.

    Chiuse gli occhi. Non servì.

    Zuppa, pensò – calda, saporita, deliziosa. Dopotutto, forse non era una cattiva idea. Forse ci sarebbe stato qualcuno in cucina. Non aveva idea di che ora fosse. Era buio, ma era anche inverno. Tuttavia doveva essere ancora presto, perché non aveva sentito il fruscio dei servitori al di là della porta. Non aveva importanza. Ormai non si sarebbe più addormentata, quindi tanto valeva alzarsi. Se nessuno fosse stato sveglio, si sarebbe arrangiata da sola.

    L’idea di fare qualcosa per se stessa, di rendersi utile, la spinse a muoversi. Era addirittura eccitata quando i piedi toccarono la pietra gelida e lei si guardò intorno alla ricerca delle pantofole. La veste divenne più luminosa, come se avesse compreso la sua necessità. Quando si avviò lungo il corridoio buio, quello restò illuminato fino a quando lei non scese le scale. Quando raggiunse la luce delle torce, il bagliore della veste si attenuò fino a riflettere solo la luce del fuoco.

    Restò delusa nel trovare numerose persone già al lavoro in cucina. Cora, la robusta serva dalle folte sopracciglia e le guance rosse, stava lavorando il burro vicino alla porta, affondando la zagola a ritmo regolare e passandola da una mano all’altra. Il giovane Nipper, con le spalle ricoperte di neve e le braccia cariche di legna, entrò nella stanza sbattendo i piedi e scuotendo la testa come un cane. Inondò Cora di polvere bianca, strappandole una serie di imprecazioni. Leif e Ibis alimentavano le stufe, brontolando per la brace umida. Lila se ne stava su una scala come un’artista del circo, impegnata a tirare giù le ciotole in bilico impilate sull’ultimo scaffale. Edith Mon aveva sempre insistito perché venissero pulite all’inizio di ogni mese. Se l’orco non c’era più, la sua tirannia persisteva.

    Arista si era pregustata il momento in cui, come un topolino, avrebbe frugato nel retrocucina buio alla ricerca di qualcosa da mangiare. Ma la sua avventura era già terminata e valutò se tornare in camera onde evitare incontri spiacevoli. Arista conosceva tutti i servitori dai giorni in cui si faceva passare per Ella, la cameriera. Era una principessa, ma era anche una bugiarda, una spia e, naturalmente, una strega.

    Mi odiano? Mi temono?

    C’era stato un tempo in cui non si curava dei servi, non si accorgeva nemmeno della loro presenza. Ma ora, in piedi alla fine della scala a guardarli affrettarsi per la gelida cucina, non seppe stabilire se avesse guadagnato saggezza o perso innocenza.

    Girò sui tacchi, sperando di scappare indisturbata e ritornare nel santuario della sua stanza, quando notò il monaco. Era seduto sul pavimento vicino ai lavabi, dove la pietra era bagnata a causa di un’infiltrazione. Aveva la schiena appoggiata contro il barile di liscivia. Era piccolo, magro e portava la tradizionale tonaca color ruggine dell’ordine dei Monaci di Maribor. Felice di accarezzare il pelo arruffato di Red, il grande elkhund seduto davanti a lui, aveva un sorriso soddisfatto stampato in viso. Il cane era un ospite fisso della cucina, dove spazzava via sistematicamente qualsiasi tipo di avanzo. Gli occhi della bestiola erano chiusi, la lunga lingua pendeva gocciolante e il corpo dondolava, mentre il monaco lo accarezzava.

    Arista non aveva visto spesso Myron dal giorno del suo arrivo al castello. Gli eventi si erano susseguiti a una tale velocità che si era dimenticata della sua presenza.

    Sistemò la veste, sollevò la testa e avanzò a passo deciso. Cora fu la prima a vederla e i suoi occhi seguirono con interesse i movimenti di Arista. Nipper, disfattosi del carico, cominciò a scrollarsi la neve di dosso quando si bloccò di colpo.

    «Ella – ah, perdonate, Vostra Altezza». Ibis Thinly fu il primo a parlare.

    «A dire la verità, preferirei Arista», replicò la principessa. «Non riuscivo a dormire. Mi chiedevo se fosse possibile avere una zuppa».

    Ibis sorrise. «Fa freddo in quelle torri, eh? Si dà il caso che abbia conservato fuori, nella neve, una pentola di stufato di cervo di ieri sera. Se lo desiderate, mando Nipper a prenderla. Metto la pentola sul fuoco e in un attimo lo stufato vi riscalderà. E che cosa ne dite di accompagnarlo con un bicchiere di sidro caldo e cannella? Ne ho ancora un po’. Forse è lievemente aspro, ma ancora buono».

    «Sì, grazie. Sarebbe fantastico».

    «Manderò qualcuno a portarvelo nei vostri appartamenti. Siete al terzo piano, vero?».

    «Oh, no. A dire la verità pensavo di mangiare qua – se per te va bene».

    Ibis ridacchiò. «Ma certo. In questi giorni lo fanno in tanti, e sono sicuro che voi potete mangiare ovunque vogliate, tranne nella camera dell’imperatrice – anche se si dice che lo abbiate già fatto». Ridacchiò di nuovo.

    «È solo che…», Arista

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