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Le due spade: La leggenda di Drizzt 19
Le due spade: La leggenda di Drizzt 19
Le due spade: La leggenda di Drizzt 19
E-book533 pagine8 ore

Le due spade: La leggenda di Drizzt 19

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Info su questo ebook

Mithral Hall è assediata dall’esercito del Re degli orchi. Bruenor e gli altri, che credono Drizzt morto, devono lottare fino all’ultimo per evitare che la loro patria venga cancellata per sempre.
Ma non tutto è perduto: Drizzt e Innovindil uniscono le forze e tornano in aiuto dei loro compagni, riuscendo a bloccare l’avanzata finale degli orchi e ponendo fine alle mire dei quattro elfi drow che favorivano l’avanzata del nemico.
Passato il dolore per la presunta scomparsa dei suoi amici più cari, lo spirito del Cacciatore viene sopito anche se non definitivamente...
 
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788834435991
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    Anteprima del libro

    Le due spade - R.A. Salvatore

    autorizzata.

    Preludio

    La luce delle torce sembrava così poca cosa contro l’implacabile oscurità delle gallerie dei nani. L’aria satura di fumo si addensava attorno a Delly Curtie, irritandole gli occhi e la bocca, così come le continue lamentele e proteste degli altri umani nella grande sala comune irritavano la sua sensibilità. Il Castaldo Regis era stato tanto gentile da mettere a disposizione un considerevole numero di stanze per quegli individui in apparenza irriconoscenti, tutti profughi dai molteplici insediamenti razziati dal brutale Re Obould e dai suoi orchi nel corso della loro avanzata verso sud.

    Delly si disse che non doveva essere troppo severa nel giudicare. Quei poveretti avevano subito perdite dolorose, e molti erano gli unici superstiti di famiglie sterminate, se non addirittura, come nel caso di tre di essi, i soli abitanti sopravvissuti di un’intera comunità devastata! E le condizioni in cui vivevano ora, per quanto Regis e Bruenor avessero cercato di renderle decorose, non si confacevano davvero a un umano.

    Quella riflessione si ripercosse con violenza sui sentimenti di Delly, che si voltò a guardare la sua bambina, Colson, finalmente addormentata su un piccolo pagliericcio. Cottie Cooperson, una donna dalle braccia lunghe e sottili, dai fini capelli color della paglia e dallo sguardo gravato dal peso di una terribile perdita, sedeva accanto alla piccola addormentata, le braccia incrociate strette sul petto, mentre si dondolava avanti e indietro, avanti e indietro.

    Delly sapeva che stava pensando alla sua bambina uccisa.

    Bastò quel terribile pensiero a calmare Delly. Colson non era proprio figlia sua, non per nascita almeno. Ma lei aveva adottato la bambina, così come Wulfgar aveva adottato Colson e aveva preso lei con sé come compagna di viaggio e moglie. Delly lo aveva seguito di buon grado a Mithral Hall, persino con entusiasmo, e pensava di essere buona e generosa nel consentirgli di vivere seguendo gli slanci del suo spirito avventuroso, nello stargli a fianco, disponibile a ogni sua necessità, senza tenere in alcun conto i propri desideri.

    Il sorriso di Delly tradiva più una sfumatura di tristezza che di gioia. Era probabilmente la prima volta che la donna si considerava una persona buona e generosa.

    Ma lo spazio circoscritto delle stanze sotterranee dei nani la opprimeva.

    Delly Curtie non avrebbe mai immaginato di provare rimpianto per la vita di strada che conduceva a Luskan, una vita sbandata e ai margini della legalità, che la vedeva mezzo ubriaca per la maggior parte del tempo, a trascorrere ogni notte tra le braccia di un uomo diverso. Pensò allo scaltro Morik, un amante meraviglioso, e ad Arumn Gardpeck, il taverniere che era stato come un padre per lei. Pensò anche a Josi Puddles e, dalla rievocazione del suo innegabilmente stupido e generoso sorriso, ricavò una certa qual consolazione.

    «Non essere sciocca», borbottò tra sé sottovoce.

    Scosse il capo per ricacciare quei ricordi. La sua vita era questa, adesso, con Wulfgar e tutti gli altri. I nani del Clan Battlehammer erano brava gente, si disse. Spesso eccentrici, ma sempre gentili, e il più delle volte semplicemente e allegramente stravaganti, anche se dietro a quella loro tipicamente burbera facciata erano simpatici. Alcuni indossavano abiti o armature inverosimili, altri portavano nomi strani e ridicoli, e la maggioranza ostentava barbe incolte e assurde, ma il clan dimostrava nei confronti di Delly un calore che lei non aveva mai trovato prima, se non forse in Arumn. La trattavano come una di famiglia, o perlomeno cercavano di farlo, visto che le diversità permanevano.

    E quello era innegabile.

    C’erano diversità di gusti tra gli umani e i nani, come l’aria stagnante delle gallerie per esempio, aria che sarebbe diventata senza dubbio ancora più stagnante, poiché entrambi i portoni esterni di Mithral Hall erano stati chiusi e sprangati.

    «Ah, sentire ancora una volta la carezza del vento e del sole sul viso!» esclamò una donna all’altro capo della sala comune, sollevando un boccale di idromele per brindare, quasi avesse letto i pensieri che passavano per la mente di Delly.

    Tutti i presenti risposero alzando i loro boccali e facendoli cozzare contro quelli dei vicini. Delly si rese conto che i suoi compagni, o almeno una buona parte di essi, erano di nuovo in procinto di ubriacarsi. Quei poveretti non avevano un posto decente dove stare, e bevevano, sia per alleviare il senso di impotente frustrazione sia per mitigare i terribili ricordi della marcia di Obould attraverso le loro rispettive comunità.

    Delly lanciò di nuovo un’occhiata a Colson, poi si fece strada tra i tavoli. Aveva acconsentito a occuparsi di quel gruppo perché aveva già lavorato come cameriera, quando abitava a Luskan. Ovunque passasse coglieva frammenti di conversazione, e ogni pensiero faceva presa su di lei, intaccando anche quel poco di buon umore rimastole.

    «Voglio aprire una fucina a Silverymoon», dichiarò un uomo.

    «Bah, Silverymoon!» replicò un altro, il cui rozzo linguaggio ricordava molto quello dei nani. «Silverymoon non è altro che un ammasso di elfi che ballano. A Sundabar dovete andare. Vi troverete sicuramente bene in una città come quella: là sì che sanno fare gli affari».

    «Silverymoon è più ospitale», ribatté una donna seduta a un altro tavolo. «Ed è più bella, stando a quel che dicono tutti».

    Erano quasi le stesse parole con cui Delly aveva sentito descrivere un tempo Mithral Hall. Per molti aspetti, la città sotterranea non aveva deluso le sue aspettative. Di certo, l’accoglienza che Bruenor e i suoi nani le avevano riservato non poteva definirsi meno che grandiosa, se la si considerava dal loro singolare punto di vista nanesco. E Mithral Hall costituiva una vista altrettanto splendida di quella del porto di Luskan, questo era certo. Vista che comunque si dissolveva nella monotonia, come Delly aveva ben presto avuto modo di constatare.

    Attraversò la sala dirigendosi di nuovo verso Colson, che stava dormendo, ma che aveva ricominciato a tossire producendo quel suono stridulo, simile a quello di tutti gli altri umani che vivevano in quelle gallerie fumose.

    «Provo molta gratitudine nei confronti del Castaldo Regis e di Re Bruenor», Delly sentì dire a un’altra donna, quasi come se le avessero letto di nuovo nel pensiero, «ma questo non è un posto adatto a noi umani!». La donna alzò il suo boccale. «Silverymoon o Sundabar, allora!» brindò, tra le acclamazioni degli altri. «O dovunque sia possibile vedere il sole e le stelle!».

    «Everlund!» gridò qualcun altro.

    Nel duro pagliericcio sul freddo pavimento di pietra, accanto a Delly Curtie, Colson tossì di nuovo.

    Di fianco alla piccola, Cottie Cooperson continuava a dondolarsi.

    Parte 1

    Ambizioni

    di orco

    Guardo il fianco della montagna, ora tranquillo, tranne che per gli uccelli. Sono rimasti solo loro. Gli uccelli, che gracchiano e schiamazzano e conficcano i loro becchi in bulbi oculari dallo sguardo ormai spento. I corvi non volteggiano in circolo prima di posarsi su un campo disseminato di cadaveri. Volano come api sul fiore, diritti verso il loro obiettivo, attratti dall’invitante banchetto. Sono gli addetti alle pulizie, insieme agli insetti che strisciano, alla pioggia e al vento incessante.

    E al trascorrere del tempo. È sempre così. Il passare dei giorni, delle stagioni, degli anni.

    Dopo non rimangono che ossa e pietre. Le grida sono svanite, così come l’odore. Il sangue è stato lavato via. Gli uccelli sazi, quando si librano in volo, portano con sé tutto ciò che serviva a contraddistinguere come individui quei guerrieri caduti.

    Solo ossa e pietre, lasciate là a confondersi e a mescolarsi. Mentre il vento o la pioggia logorano gli scheletri e vi passano attraverso, mentre lo scorrere del tempo ne seppellisce alcuni, ciò che rimane diventa indistinguibile, probabilmente a tutti, tranne che al più attento degli osservatori. Da chi saranno ricordati coloro che sono morti qui, e cosa hanno ottenuto in cambio per compensare tutto ciò che hanno perduto su entrambi i fronti?

    L’espressione sul viso di un nano durante la battaglia direbbe di certo che il prezzo vale la fatica, che la guerra, quando viene combattuta dal popolo dei nani, è una nobile causa. Nulla agli occhi di un nano merita maggiore rispetto del lottare per aiutare un amico; la loro è una comunità saldamente unita dalla lealtà, dal sangue condiviso e versato.

    E perciò, forse questo è un buon modo di morire, una fine meritevole per una vita onorata, o addirittura per una vita resa onorata da quest’ultimo sacrificio supremo.

    Tuttavia, in un contesto più ampio, non posso fare a meno di chiedermi che cosa ne sia del sacrificio globale. Del prezzo pagato, del valore e della ricompensa. Chissà se Obould riceverà in cambio qualcosa che lo ripaghi delle centinaia, probabilmente delle migliaia di perdite subite tra le sue schiere? Otterrà forse qualcosa di durevole? Chissà se la resistenza opposta dai nani su quest’altura risulterà utile alla gente di Bruenor? Non avrebbero invece dovuto rifugiarsi all’interno di Mithral Hall, nelle gallerie tanto più facilmente difendibili?

    E tra un centinaio d’anni, quando non resterà che polvere, importerà a qualcuno di tutto questo?

    Mi chiedo cosa alimenti le fiamme che fanno ardere immagini di gloriose battaglie nel cuore di così tanti rappresentanti delle razze senzienti, primo fra tutti il mio. Osservo il massacro sul fianco della montagna e vedo l’inevitabile vuoto. Immagino le urla di dolore. Odo nella mia testa le invocazioni alle persone care, quando il guerriero morente sa che per lui è giunto l’ultimo istante. Vedo una torre che crolla, trascinando con sé il mio amico più caro. Di certo i resti tangibili, le macerie e le ossa valgono a malapena il momento della battaglia, ma io mi chiedo se ci sia qualcosa di meno tangibile, di più importante. O forse esiste – ed è questo il mio timore – qualcosa di simile a una delusione nei confronti di tutto, capace di portarci a combattere senza sosta?

    In base a quest’ultima riflessione, quando i ricordi della guerra si sono affievoliti, risiede forse nell’intimo di tutti noi la volontà di essere fino a tal punto parte di qualcosa di grande da farci rinunciare senza esitare alla quiete, alla calma, ai beni terreni, alla pace stessa? È possibile che tutti giungiamo a identificare la pace con la noia e con la compiacenza? Forse conserviamo dentro di noi queste braci di guerra, smorzate solo dai crudi ricordi del dolore e delle perdite, e quando, con il trascorrere del tempo che tutto guarisce, il manto soffocante si dissolve, le fiamme tornano di nuovo ad ardere. L’ho sperimentato su di me, seppure in minima parte, quando ho capito – e sono stato costretto ad ammettere – che non ero un essere amante della comodità e del piacere e che potevo sentirmi davvero felice solo con il vento sul viso, a percorrere nuove strade sulle tracce di qualcuno, sapendo che l’avventura era in attesa dietro l’angolo.

    Non mancherò certamente di seguire quelle tracce, anche se mi pare che sia tutt’altra cosa rispetto al portarmi dietro un’armata, come invece ha fatto Obould. Poiché qui c’è la considerazione di una più grande etica, che traspare così crudamente dalle ossa sparse in mezzo alle pietre. Accorriamo al richiamo delle armi, delle adunate e della gloria, ma che ne sarà di chi è caduto sul cammino di questa sete di grandezza?

    Da chi saranno ricordati coloro che sono morti qui, e cosa hanno ottenuto in cambio per compensare tutto ciò che hanno perduto su entrambi i fronti?

    Ogni volta che perdiamo una persona cara ci ripromettiamo, inevitabilmente, di non dimenticare mai, di ricordarla tutti i giorni della nostra vita. Ma noi esseri viventi lottiamo con il presente, e il presente spesso richiede tutta la nostra attenzione. Perciò, mentre passano gli anni, la memoria di coloro che se ne sono andati non ci accompagna più ogni giorno, o neppure ogni settimana. Poi sopraggiunge il senso di colpa, poiché, se io non ricordo mio padre Zaknafein, il mio mentore, che si è sacrificato per me, chi mai lo farà? E se nessuno lo ricorda, allora forse se ne è andato per davvero. Col trascorrere degli anni il senso di colpa diminuisce perché dimentichiamo in modo più consistente, e il pendolo scandisce nei nostri pensieri di autogratificazione quelle sempre più rare occasioni in cui ricordiamo! Forse il senso di colpa persiste, perché siamo creature egocentriche fino in fondo. È la realtà dell’individualità che non può essere negata. Alla fin fine, tutti noi percepiamo il mondo attraverso il nostro personale modo di vedere.

    Ho sentito genitori manifestare paura riguardo alla propria mortalità subito dopo la nascita di un figlio. Si tratta di una paura che, in larga misura, permane in un genitore nei primi anni di vita del bambino. Non è per il figlio che essi temono, se dovessero morire – benché di certo non siano esenti neppure da quel timore – ma piuttosto per se stessi. Quale padre accetterebbe la propria morte prima che il figlio sia cresciuto abbastanza da ricordarlo?

    Poiché, chi meglio di un figlio attribuirà un viso alle ossa sparse tra i sassi? Chi meglio di lui ricorderà lo scintillio di uno sguardo prima che i corvi accorrano al richiamo?

    Vorrei che i corvi volteggiassero in circolo e che il vento li disperdesse, e che i volti restassero a perenne memoria del dolore. Quando lo squillo di tromba ci sprona verso la gloria, prima che gli eserciti calpestino di nuovo le ossa sparse tra le pietre, lasciate che i volti dei morti ci ricordino il prezzo che è stato pagato.

    È una visione che fa riflettere, quella dei sassi schizzati di rosso davanti a me.

    È un monito terribile per le mie orecchie, il gracchiare dei corvi.

    Drizzt Do’Urden

    1

    Per amore di mio figlio

    «D obbiamo fare più in fretta!» esclamò l’umano per la centesima volta quella mattina, o così almeno parve al gruppo di poco più di quaranta nani che procedeva insieme a lui. Galen Firth appariva alquanto fuori luogo nelle fumose gallerie rischiarate dalla luce delle torce. Alto persino secondo gli standard degli uomini, sovrastava di tutta la testa e le spalle quel popolo barbuto dalla corporatura bassa e tarchiata.

    «I miei ricognitori si stanno dando da fare come meglio non potrebbero», replicò il generale Dagna, venerabile guerriero di molte battaglie.

    Il vecchio nano raddrizzò le ancora ragguardevoli spalle e si infilò la barba gialla e sporca nella spessa cintura di cuoio, poi scrutò Galen con uno sguardo che aveva conservato tutta la sua acutezza, uno sguardo indagatore, dalla cui portata i nani del Clan Battlehammer avevano cercato di tenersi fuori per innumerevoli decadi. Dagna era un condottiero stimato da tutti da tempo immemorabile, prima ancora che Bruenor diventasse re, prima ancora che Shimmergloom, il drago dell’ombra, e i suoi scagnozzi, i duergar, conquistassero Mithral Hall. Dagna era giunto a occupare quella posizione in seguito alle sue valorose imprese, sia come guerriero sia come comandante in campo, e nessuno osava mettere in discussione la sua abilità nel guidare i nani attraverso difficili battaglie. Molti si erano aspettati che Dagna conducesse l’azione difensiva sull’altopiano che si affacciava su Keeper’s Dale, scavalcando persino un comandante di tutto rispetto, quale Banak Brawnanvil. Quando ciò non avvenne, si diede per scontato che, mentre Bruenor giaceva quasi in punto di morte, Dagna sarebbe stato nominato Castaldo di Mithral Hall.

    In effetti, a Dagna erano state offerte tutte e due le opportunità, e da persone in grado di far sì che entrambe le cose si avverassero. Ma lui aveva rifiutato.

    «Adesso non mi direte che devo ordinare ai miei ricognitori di andare più veloci e magari di gettarsi tra le braccia dei troll e dei loro degni compari, vero?» chiese Dagna.

    Galen Firth vacillò leggermente, ma non batté ciglio né desistette. «Vorrei che faceste avanzare la colonna il più rapidamente possibile», replicò. «La mia città è in grave pericolo, forse è già stata sopraffatta e, a sud, fuori da queste gallerie infernali, molti dei suoi abitanti potrebbero trovarsi adesso in terribili difficoltà. Spero che questo costituisca un buon motivo per spronare voi nani a darvi da fare, visto che vi dichiarate nostri leali vicini».

    «Io non dichiaro un bel niente». Dagna fu veloce nel replicare. «Faccio quello che il mio Castaldo e il mio re mi dicono di fare».

    «E non ve ne importa niente dei morti?».

    La brusca domanda di Galen fece trattenere il respiro a parecchi dei nani che si trovavano là vicino, poiché era rivolta proprio a Dagna, il fiero nano che aveva perduto il suo unico figlio solo poche settimane prima. Dagna fissò l’uomo a lungo e duramente, e soffocò l’impulso di replicare con rabbia, consapevole della sua carica e della missione che gli era stata affidata.

    «Noi avanziamo con tutta la rapidità che ci è consentita e, se voi volete correre, potete accomodarvi. Dirò ai miei ricognitori di lasciarvi andare. Può anche darsi che io prosegua nella mia marcia passando sopra al vostro cadavere, quando vi troveremo mezzo rosicchiato dai troll nelle gallerie più avanti. Può anche darsi che i vostri concittadini di Nesmé, se ne è rimasto qualcuno in giro, vengano salvati senza il vostro aiuto». Dagna tacque e lasciò indugiare ancora un attimo il suo sguardo truce: una muta conferma rivolta a Galen Firth circa la serietà delle sue intenzioni. «Ma può anche darsi di no».

    Questo sembrò attenuare un po’ la foga di Galen, il quale emise un vigoroso grugnito di disappunto e si avviò con passo esageratamente cadenzato verso la galleria che si apriva dinanzi a lui.

    Dagna gli fu accanto in un istante e lo afferrò bruscamente per un braccio.

    «Fate pure il broncio se volete», disse il nano, «ma fatelo con discrezione».

    Galen si sottrasse alla morsa d’acciaio di Dagna e sostenne il suo sguardo con aria torva.

    Nell’assistere all’accaduto, parecchi nani là intorno fecero roteare gli occhi e si chiesero se Dagna avrebbe mandato quel pazzo lungo disteso sul pavimento con un pugno sul naso. Galen aveva cominciato a comportarsi a quel modo solo di recente. La quarantina di nani che faceva parte di quella squadra l’aveva accompagnato fuori da Mithral Hall parecchi giorni prima, con l’ordine del Castaldo Regis di fare tutto il possibile per aiutare la popolazione assediata di Nesmé. Il loro viaggio era proseguito normalmente e senza interruzioni finché un gruppo di troll non li aveva attaccati nelle gallerie. Lo scontro li aveva costretti a fuggire lontano verso sud e a uscire all’aperto, ai confini della grande palude dei Trollmoors, ma troppo a est, in base ai calcoli di Galen Firth. Perciò avevano cominciato a dirigersi a ovest, e avevano trovato altre gallerie. Nonostante le proteste di Galen, Dagna aveva deciso che la sua squadra sarebbe stata più al sicuro nei corridoi sotterranei che portavano a ovest. Scavati più nella terra che nella roccia, con le radici degli alberi e della vegetazione della boscaglia che penzolavano dalle volte, e con piccoli esseri striscianti che brulicavano tutt’intorno, quei cunicoli erano diversi da quelli che avevano percorso per giungere a sud da Mithral Hall. Il che, di per sé, era un motivo sufficiente a far aumentare l’infelicità di Galen. Le gallerie erano più strette e più basse, particolare molto apprezzato dai nani, soprattutto vista la presenza dei grossi e brutti troll che li inseguivano, ma che costringeva Galen a trascorrere metà del suo tempo ad avanzare piegato in due.

    «State esagerando un po’ con il vecchio», osservò un giovane nano di nome Fender Stouthammer, quando fecero una sosta per rifocillarsi. Lui e Galen si trovavano in disparte rispetto al gruppo, in una zona più ampia e più alta che permetteva a Galen di stirarsi un po’ le gambe, sebbene non contribuisse a migliorare il suo umore irritabile.

    «La mia causa è…».

    «La conosciamo la vostra causa e siamo tutti solidali con voi», gli assicurò Fender. «E siate certo che tutti noi proviamo per Mithral Hall ciò che voi provate per Nesmé».

    Ma l’intento pacificatore di Fender non fece presa su Galen, che agitò il lungo dito indice davanti al viso del nano, andandogli così vicino che quest’ultimo dovette trattenere l’impulso di morderglielo.

    «Che ne sapete dei miei sentimenti?» borbottò Galen. «Che ne sapete di mio figlio, che forse adesso giace da qualche parte, tutto rannicchiato per proteggersi dal freddo? Forse trucidato, o circondato dai troll? Che ne sapete di quello che è successo ai miei concittadini? Che ne sapete…».

    «Il generale Dagna ha appena perduto il suo di figlio», lo interruppe Fender, mettendo Galen a tacere per un momento.

    «Si chiamava Dagnabbit», continuò Fender. «Un guerriero valoroso e un compagno leale, come tutti quelli della sua stirpe. È caduto travolto dall’orda degli orchi a Shallows, difendendo il suo re e i suoi compagni fino alla fine. Era l’unico figlio di Dagna e con una carriera altrettanto promettente di quella del padre. I bardi celebreranno a lungo il suo nome. Ma credo che questo pensiero non serva a placare il ribollire del sangue del vecchio Dagna, o a ricucire la ferita del suo cuore consunto. Ed ecco che arrivate voi, sciocco fiuta-nuvole dalla vita breve, pretendendo questo e pretendendo quello, come se le vostre necessità fossero più importanti di quelle che potremmo avere noi nani. Bah, ho cercato di mettermi nei vostri panni, di vedere le cose dal vostro punto di vista. Ma sapete cosa vi dico? Siete un seccatore, e sarà più facile che finiate con il muso a terra anziché rivedere la vostra casa, se non imparerete a chiudere quella vostra stupida bocca».

    Un Galen Firth chiaramente attonito se ne rimase là, per un attimo, seduto e incapace di articolare anche una sola sillaba.

    «Mi state minacciando? Me, un Cavaliere di Nesmé?» sbottò infine.

    «Ve lo dico, come amico o come nemico, a voi la scelta: non aiuterete voi stesso o la vostra causa se continuerete a discutere con Dagna a ogni svolta di galleria».

    «Le gallerie…» ribatté l’altro, ostinato. «Dovremmo essere fuori all’aperto, dove ci sarebbe possibile udire le invocazioni di aiuto della mia gente o vedere i fuochi dei suoi falò!».

    «O trovarvi circondato da un’orda di troll e annusare il loro tanfo. Non sarebbe stupendo?».

    Galen Firth emise un grugnito e alzò la mano con fare sdegnoso. Fender capì l’antifona, si alzò e fece per allontanarsi.

    Si fermò un istante, il tempo di voltarsi e aggiungere: «Continuate a comportarvi come se vi trovaste in mezzo a dei nemici, o a degli esseri inferiori. Se gli abitanti di Nesmé sono tutti stupidi come voi – troppo sciocchi da non saper riconoscere un amico quando ce l’hanno davanti – allora, viene da chiedersi se i troll non stiano facendo un favore al mondo, togliendovi di mezzo».

    Galen Firth venne scosso da un tremito e, per un attimo, Fender si aspettò quasi che gli saltasse alla gola.

    «Sono venuto da voi, a Mithral Hall, come amico!» ribatté, a voce sufficientemente alta da attirare l’attenzione dei nani che si trovavano riuniti attorno a Dagna, più avanti, nella galleria principale.

    «Siete venuto a Mithral Hall perché avevate bisogno di noi, non offrendo altro che lamentele e pretendendo più di quanto siamo in grado di dare», lo corresse Fender. «E tuttavia il Castaldo Regis e tutto il clan si sono assunti la responsabilità di quest’amicizia, non il peso, ma la responsabilità, sciocco che non siete altro! Non ci troviamo qui perché dobbiamo qualcosa a Nesmé, né tanto meno per chiederle qualcosa. E, alla fin fine, persino voi dovreste essere intelligente abbastanza da capire che qui ci auguriamo tutti la stessa cosa. E cioè di trovare il vostro ragazzo, e tutti i vostri concittadini, vivi e in buona salute».

    A quella brusca esternazione Galen ammutolì, e Fender, senza dargli il tempo di decidere se replicare dando in escandescenze o prendendolo a pugni, girò sui tacchi con uno sprezzante «bah!» e agitò le mani callose a mo’ di saluto.

    «Non potreste fare meno baccano, laggiù?» esclamò una voce proveniente da poco più in là: la voce del generale Dagna, che stava fissando i due con sguardo truce.

    «Continuate così, allora», disse Fender a Galen, agitando di nuovo la mano. «Riflettete su quanto vi ho detto, oppure non fatelo. Sta a voi scegliere».

    Galen Firth si allontanò dal nano e si diresse verso il gruppo fermo al centro della galleria principale. Ma lo fece avanzando con andatura obliqua, quasi volesse proteggersi le spalle da quelle parole, che l’avevano sicuramente ferito.

    Fender ne fu lieto, se non altro per il bene di Galen Firth e della città di Nesmé.

    Tos’un Armgo, flessuoso e aggraziato, si mosse silenzioso lungo la bassa galleria, tenendo una piccola freccia tra i denti e un coltello seghettato nella mano. L’elfo scuro era contento che i nani fossero tornati sottoterra. All’aperto, si sentiva vulnerabile ed esposto. Un rumore lo costrinse a fermarsi e rannicchiarsi contro la parete rocciosa, confondendosi con l’agile corpo tra le sue sporgenze e cavità. Si strinse ancora di più nel piwafwi, il magico mantello drow in grado di nasconderlo anche al più acuto degli sguardi, e girò il viso verso la pietra, spiando solo con la coda dell’occhio.

    Trascorsero alcuni istanti. Tos’un si rilassò, fermandosi sentì che i nani erano tornati alle loro normali incombenze e avevano ripreso a mangiare e a chiacchierare. Credevano di essere al sicuro, là nelle gallerie, poiché pensavano di avere distanziato i loro inseguitori. Ma, dopotutto, quale troll sarebbe stato capace di inseguirli negli ultimi due giorni successivi allo scontro?

    Nessuno, Tos’un lo sapeva, e sorrise a quel pensiero. Giacché i nani non avevano considerato il fatto che i loro rozzi nemici, simili a bestie, fossero accompagnati da una coppia di elfi scuri. Ritrovare le loro tracce e guidare il troll a due teste di nome Proffit insieme al suo branco maleodorante in quel secondo tratto di gallerie non era stato difficile per Tos’un.

    Il drow si guardò indietro, verso il punto dove la sua compagna, la sacerdotessa Kaer’lic Suun Wett aspettava, accoccolata su un masso a ridosso della parete. Nemmeno Tos’un sarebbe stato in grado di vederla, nascosta sotto il suo piwafwi, se non si fosse mossa e girata proprio in quel momento, alzando un braccio nella sua direzione.

    Abbatti la sentinella, gli comunicarono rapide le dita di lei nell’intricato linguaggio dei segni usato dagli elfi drow. Ci occorre un prigioniero.

    Tos’un fece un profondo respiro e tese istintivamente la mano verso la piccola freccia che teneva stretta tra i denti. La punta era ricoperta di veleno drow, una mistura paralizzante dal terribile potere, al quale in pochi resistevano. Quante volte, nel corso degli ultimi anni, Tos’un aveva ricevuto quell’ordine da Kaer’lic e dagli altri due suoi compagni drow, poiché era lui, tra tutti e quattro, il più abile nel catturare prigionieri da interrogare, soprattutto quando la vittima faceva parte di un gruppo numeroso.

    Tos’un si fermò e protese la mano libera, così che Kaer’lic potesse vederla, poi rispose. Dobbiamo proprio? Sono in parecchi e sul chi vive.

    Le dita di Kaer’lic replicarono immediatamente. Voglio sapere se questa è un’unità distaccata di ricognitori dell’esercito di Mithral Hall!

    Tos’un riportò subito la mano alla freccia. Non osava discutere con Kaer’lic su tali questioni. Erano drow, e nel mondo dei drow, persino per un gruppo così lontano dalle consuetudini delle grandi città del Buio Profondo, le femmine occupavano una posizione predominante rispetto ai maschi, e le sacerdotesse della Regina Ragno Lolth, come Kaer’lic, stavano più in alto di tutti nella scala gerarchica.

    L’elfo scuro si voltò e si lasciò scivolare a terra, poi cominciò ad avanzare in parte camminando e in parte strisciando verso il suo obiettivo. Nell’udire il nano alzare la voce mentre discuteva con l’unico umano della squadra, si fermò e si portò verso un punto d’osservazione nascosto, dove si dispose ad aspettare.

    Quasi immediatamente, parecchi nani che si trovavano più in là intimarono ai due di fare silenzio, e il nano vicino a Tos’un brontolò qualcosa e fece segno all’umano di andarsene.

    Tos’un si lanciò una sola occhiata alle spalle e si fermò, restando in ascolto finché le sue sensibilissime orecchie non captarono il rumore sordo prodotto dal branco dei troll di Proffit.

    Poi si avvicinò alla sua preda. Il braccio sinistro colpì per primo, conficcando la freccia nella spalla del nano, mentre la mano destra gli raggiungeva la gola e vi tracciava una linea netta con il coltello dalla lama seghettata. Avrebbe potuto facilmente essere un colpo mortale, ma Tos’un aveva impresso alla lama un’inclinazione tale da non recidere le vene principali: la stessa identica tecnica era stata usata di recente nei confronti di un altro nano, in una torre nelle vicinanze del Surbrin. A lungo andare, la ferita avrebbe potuto risultare mortale, ma non subito, non finché Kaer’lic non avesse potuto intervenire, salvando la vita del disgraziato con alcuni sortilegi minori, grazie al potere conferitole dalla Regina Ragno.

    Anche se, Tos’un pensò, il prigioniero avrebbe sicuramente preferito essere morto.

    Il nano si spostò rapido e tentò di gridare, ma le sue corde vocali erano già state recise dal drow. Poi cercò di raggiungere il suo assalitore e di colpirlo, ma il veleno stava già facendo effetto. Con il sangue che gli sgorgava dalla ferita mortale, il nano crollò a terra e Tos’un si portò di nuovo al riparo strisciando.

    «Bah, sei sempre la solita linguaccia!» disse piano qualcuno dal gruppo principale. «Perché non te ne stai un po’ zitto, Fender?».

    Tos’un continuò ad arretrare.

    «Fender?» il richiamo si fece insistente.

    Tos’un si appiattì contro la parete, cercando di farsi piccolo, sotto il mantello che lo rendeva invisibile.

    «Fender!» gridò un nano davanti a lui, e Tos’un sorrise per la sua astuzia, sapendo che quegli stupidi nani avrebbero sicuramente creduto morto il loro compagno avvelenato.

    Tutt’intorno, i nani cominciarono ad agitarsi, a balzare in piedi e ad afferrare le armi, e a Tos’un passò per la mente che la decisione di Kaer’lic di fare un prigioniero saebbe potuta costare cara a Proffit e ai suoi troll. Il suo assalto iniziale, invece, era stato favorito dall’elemento sorpresa.

    Ovviamente, agli occhi dell’elfo scuro, gli eventi stavano assumendo una piega persino più allettante.

    Alcuni nani chiamarono Fender a gran voce, ma l’urlo che si levò al di sopra di tutti veniva da Bonnerbas Ironcap, il nano più vicino al compagno caduto.

    «Troll!» strillò e, mentre il significato di quella parola si faceva strada nella mente dei nani, giunse alle loro narici il tanfo di quei miserabili bruti.

    «Ritiratevi vicino al fuoco!» ordinò il generale Dagna.

    Bonnerbas esitò, poiché si trovava a un solo passo dal povero Fender. Invece di tornare indietro avanzò e afferrò l’amico per il colletto. Il corpo di Fender si ribaltò, e Bonnerbas trattenne il respiro nel vedere chiaramente la vivida linea insanguinata che gli solcava la gola. Il nano era inerte e non mostrava alcuna reazione.

    Fender era morto, pensò Bonnerbas, o lo sarebbe stato presto.

    A quel punto, sentì che i troll caricavano, alzò gli occhi e capì che avrebbe presto raggiunto Fender nelle Stanze di Moradin.

    Bonnerbas indietreggiò di un passo e brandì l’ascia, agitandola ferocemente davanti a sé e procurando uno squarcio profondo sul braccio del troll più vicino. Questi si tirò indietro, incespicando di lato e cadendo, ma ancora prima di toccare terra venne proiettato in avanti, investito da una coppia di troll che si stavano a loro volta avventando su Bonnerbas.

    Il nano fece una giravolta e cercò di scappare, ma l’artiglio adunco di un troll gli agganciò la spalla. Bonnerbas si rese conto allora di quale spaventosa forza fossero dotati quegli esseri bestiali, giacché si trovò improvvisamente trascinato all’indietro, piroettando e rimbalzando tra gambe solide come tronchi di grossi alberi. Inciampò e cadde, rotolando sulla schiena. Tuttavia, il nano inferocito continuò ad agitare la sua ascia, riuscendo a mandare a segno un paio di colpi. Ma i troll lo circondavano, si frapponevano tra lui e Dagna e tutti gli altri, e il povero Bonnerbas non aveva scampo.

    Un troll fece per agguantarlo, ma venne raggiunto da un colpo secco al braccio, che gli venne staccato di netto all’altezza del gomito strappandogli un ululato e obbligandolo a indietreggiare. Ma, mentre il nano tentava di rotolare su un fianco per rimettersi in piedi, vide torreggiare su di sé il troll più grosso e più brutto che avesse mai incontrato, un orrendo mostro a due teste, che lo fissava con un largo sorriso stampato su entrambe le facce contorte. Quel bruto cominciò a protendersi verso di lui e Bonnerbas si preparò ad assestare un altro colpo.

    Mentre la sua ascia colpiva il vuoto, il nano si rese conto dell’inganno, e prima che potesse colpire di nuovo, si sentì spingere a terra da un enorme piede, che lo schiacciò contro la roccia.

    Bonnerbas provò a lottare, ma non c’era nulla che potesse fare. Tentò di respirare, ma la pressione era troppo forte.

    Mentre i troll si spingevano oltre i due nani caduti, il generale Dagna poté solo borbottare e maledirsi in silenzio per aver lasciato che i suoi guerrieri venissero colti così alla sprovvista. Una marea di interrogativi e di imprecazioni gli affollarono la mente. Come poteva un branco di stupidi troll puzzolenti essere stato in grado di seguire le loro tracce all’interno delle gallerie? Com’era possibile che quei bruti fossero riusciti a risalire, attraverso quel dedalo di intricati passaggi, fino al punto scelto da Dagna come luogo sicuro per fare una sosta e rifocillarsi?

    Ma quella confusione di pensieri si dissipò subito nella mente del maturo comandante ed egli cominciò ad abbaiare ordini per riprendere il controllo della situazione. Il primo impulso fu quello di ritirarsi nelle gallerie dalla volta più bassa per costringere i troll a procedere ancora più curvi, ma il suo istinto nanesco gli disse di restare vicino al fuoco dei bivacchi. Ordinò perciò ai suoi guerrieri di formare una linea difensiva in fondo a quell’accampamento improvvisato. Lo stesso Dagna condusse la carica, piazzandosi al centro della prima fila, composta da cinque nani affiancati, e rifiutandosi di arretrare di fronte all’incalzare dei troll.

    «Tenete duro!» continuava a gridare mentre menava colpi in ogni direzione con il martello da guerra. «Annientiamoli!» disse, incitando il nano armato d’ascia accanto a lui. «Dobbiamo impedire che avanzino anche solo di un palmo!».

    L’altro nano, facendo suo il principio di difendere a ogni costo il territorio circoscritto in cui si erano rifugiati, agitò l’ascia con foga e cominciò a caricare il troll più vicino, colpendolo con il rovescio dell’arma per tenerlo a bada.

    Tutti e cinque i nani fecero altrettanto, mentre Galen Firth, che si era affrettato a posizionarsi alle spalle di Dagna, assestava poderosi fendenti con la sua lunga spada sottile. Tuttavia, sapevano che non sarebbero stati in grado di resistere a lungo, poiché altri troll si stavano già ammassando alle spalle delle prime file, spingendole in avanti con il semplice peso dei loro corpi.

    Convinto che la loro sorte fosse ormai segnata, Dagna lanciò un urlo di rabbia e colpì con tale violenza il troll in procinto di attaccarlo che il suo micidiale martello troncò il braccio dell’avversario all’altezza del gomito.

    Il troll sembrò non accorgersene nemmeno mentre avanzava, e Dagna si rese conto dell’errore commesso: si era sbilanciato troppo e si era reso vulnerabile.

    Ma il troll indietreggiò all’improvviso e Dagna fece appena in tempo ad abbassarsi con un grido di sorpresa, mentre la prima torcia, con gli omaggi di Galen Firth, faceva la sua comparsa nella mischia. Quest’ultimo si protese al di sopra di Dagna e lanciò il tizzone fiammeggiante contro il troll, costringendolo ad arretrare per sottrarsi al fuoco.

    I troll erano davvero avversari formidabili. Si diceva – ed era stato documentato – che se si tagliava un troll in cento pezzi, si sarebbero formati altri cento nuovi troll, poiché ogni pezzo avrebbe generato una creatura tutta intera. Ma avevano un punto debole, un punto che tutti gli abitanti dei vari territori conoscevano bene: il fuoco bloccava quel processo di rigenerazione.

    I troll non amavano il fuoco.

    Altre torce vennero rapidamente passate a Dagna e ai quattro suoi compagni, e i troll indietreggiarono, seppure solo di un passo.

    «Avanti, allora, per Fender e Bonnerbas!» gridò Dagna, e tutti i nani acclamarono.

    Ma poi giunse un avvertimento da poco più in là: «Troll nelle gallerie!». E si udì un altro grido direttamente alle spalle di Dagna.

    Tutte le gallerie erano bloccate. Dagna seppe all’istante che i suoi nani erano circondati e senza via di scampo.

    «Quant’è profondo qui?» urlò il generale.

    «Ci sono radici che sporgono dalle volte», rispose un nano. «Non è troppo profondo».

    «Allora tirateci fuori!» ordinò il vecchio nano.

    Immediatamente, i nani al centro dell’anello difensivo

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