I due ussari: Edizione Integrale
Di Leo Tolstoy
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Info su questo ebook
Nei pochi giorni in cui rimane nella cittadina salva dal disonore Il'in, un altro ufficiale che ha perso al gioco, si fa
prestare del danaro da Zaval'ševskij, uno snob locale, ma non glielo restituisce, seduce la giovane e bella vedova Anna
Fëdorovna, sorella di Zaval'ševskij, senza preoccuparsi della reputazione di lei.
Vent'anni dopo, nella stessa cittadina, giunge il figlio di Fëdor Turbin, anch'egli capitano degli ussari, e viene alloggiato
nella casa di Anna Fëdorovna. Turbin figlio è compito, educato, ma alquanto meschino e maldestro. Conoscerà Liza Fëdorovna,
la bella e giovane figlia di Anna...
Dello stesso autore, per Sinapsi Editore: Amore e dovere, Sonata a Kreutzer, Resurrezione, I racconti di Sebastopoli, Il taglio del bosco, Guerra e pace, Anna Karenina, Denaro Falso, I piaceri viziosi, Racconti e parabole.
Edizione integrale dotata di indice navigabile.
Leo Tolstoy
Leo Tolstoy grew up in Russia, raised by a elderly aunt and educated by French tutors while studying at Kazen University before giving up on his education and volunteering for military duty. When writing his greatest works, War and Peace and Anna Karenina, Tolstoy drew upon his diaries for material. At eighty-two, while away from home, he suffered from declining health and died in Astapovo, Riazan in 1910.
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Anteprima del libro
I due ussari - Leo Tolstoy
I DUE USSARI
Lev Nikolaevič Tolstoj
Traduzione di Enrichetta Carafa Capecelatro
© 2019 Sinapsi Editore
NEGLI ANNI subito dopo il 1800, nel tempo in cui non vi erano ancora né strade ferrate, né strade selciate, né gaz, né candele steariche, né divani bassi con le molle, né mobili senza vernice, né giovanotti disillusi con la caramella all’occhio, né donne liberaleggianti e filosofesse, né gentili signore dalle camelie, delle quali cose si trova tanta copia al tempo nostro, – in quei tempi ingenui, quando per andare da Mosca a Pietroburgo in diligenza o in carrozza si prendeva con sé un intero bagaglio di roba preparata in casa, e si viaggiava per otto giorni su di una strada molle, polverosa o fangosa, e c’era la voga delle costolette arrostite, dei campanelli e delle ciambelline del Valdaj, quando nelle lunghe serate di autunno ardevano le candele di sego illuminando i circoli familiari di venti o trenta persone, e nei balli i candelabri avevano le candele di cera, e i mobili erano disposti simmetricamente, – quando i nostri padri erano ancora giovani, non soltanto perché senza rughe e senza capelli grigi, ma perché si battevano alla pistola per le donne e dall’angolo della stanza si precipitavano a raccattare i fazzoletti lasciati cadere inavvertitamente e non inavvertitamente, e le nostre madri portavano la vita corta e le maniche immense, e decidevano gli affari di famiglia tirando a sorte, quando le graziose signore dalle camelie sfuggivano la luce del sole, – negli ingenui tempi delle logge massoniche, dei martinisti, al tempo dei Miloràdovic, dei Davydov, dei Pùskin, – nel capoluogo del governatorato di K. c’era una assemblea di proprietari ed erano finite le elezioni della nobiltà.
I.
«Su, tanto vale, anche nella sala», disse un giovane ufficiale in pelliccia e berretto da ussero, sceso allora allora da una slitta da viaggio, entrando nel migliore albergo della città di K.
«L’assemblea, eccellenza, è enorme», disse il cameriere, che dall’attendente era già riuscito a sapere che il cognome dell’ussero era conte Tùrbin, e perciò lo gratificava del titolo di eccellenza. «La proprietaria di Afremov e le figlie hanno promesso di andar via verso sera: vogliate dunque occupare la camera numero undici appena sarà vuota», disse egli, camminando mollemente davanti al conte pel corridoio e guardandosi di continuo intorno.
Nella sala comune, davanti a una piccola tavola, accanto a un ritratto in piedi, un po’ annerito, dell’imperatore Alessandro, erano seduti a bere dello champagne alcuni uomini, nobili locali di sicuro, e in disparte certi mercanti di passaggio, in pellicce turchine.
Dopo essere entrato nella stanza e aver chiamato a sé «Blücher», un enorme cane mastino grigio venuto con lui, il conte si tolse via il mantello, che aveva il colletto ancora coperto di nevischio, chiese della vodka, e, restato in archalùk¹ di raso turchino, sedette alla tavola ed entrò in conversazione coi signori che v’erano già seduti, i quali, subito disposti a favore del nuovo venuto dalla sua apparenza distinta ed aperta, gli offrirono un bicchiere di champagne. Il conte bevve prima un bicchierino di vodka, poi chiese anche lui una bottiglia per offrirla alle sue nuove conoscenze. Entrò il postiglione a chiedere la mancia.
«Sàska», gridò il conte, «dagliela!».
Il postiglione uscì con Sàska e rientrò tenendo in mano i denari.
«Ebbene, bàtjuska, come? ho cercato, mi pare, di meritare la tua grazia! Mi avete promesso un mezzo rublo e mi hanno dato venticinque copeche».
«Sàska! Dagli un rublo d’argento!».
Sàska, abbassando gli occhi, guardò i piedi del postiglione.
«Gli basterà», disse con voce di basso, «e poi io non ho più denari».
Il conte tolse dal portafogli i due unici biglietti turchini che c’erano e ne diede uno al postiglione che gli baciò la mano ed uscì.
«Eccomi bene aggiustato!» disse il conte. «Gli ultimi cinque rubli!».
«All’ussera, conte», disse, sorridendo, uno dei gentiluomini che dai baffi, dalla voce e da una certa energica disinvoltura nel camminare pareva un ufficiale di cavalleria in congedo. «Avete intenzione di rimanere molto qui, conte?».
«Mi occorrono denari; se no, non rimarrei. E non ci sono camere, il diavolo se le porti, in questa maledetta locanda...».
«Permettete, conte», replicò l’ex ufficiale di cavalleria. «Non vi accomoderebbe di venire da me? Io son qui, al numero 7. Se non sdegnate intanto di passarci la notte. Potreste rimanere un tre giorni. Oggi c’è un ballo dal maresciallo della nobiltà. Come ne sarebbe felice lui!».
«Davvero, conte, restate», intervenne un altro interlocutore, un bel giovanotto: «perché affrettarvi? Le elezioni si fanno ogni tre anni. Almeno vedreste le nostre signorine, conte!».
«Sàska! Preparami la biancheria: vado al bagno», disse il conte, alzandosi. «E poi vedremo, forse davvero mi lascerò trascinare dal maresciallo della nobiltà».
Poi chiamò il cameriere per parlare con lui di qualche cosa, al che il cameriere rispose sorridendo che si sarebbe fatto tutto ciò che era umanamente possibile, e uscì.
«Sicché, caro mio, faccio trasportare in camera vostra la mia valigia!» gridò il conte dalla porta.
«Fatemi questo favore, ne sarò felicissimo», rispose l’ex-ufficiale di cavalleria, correndo verso la porta. «Numero 7, non dimenticate».
Quando i passi del conte non si udirono più, l’altro tornò al suo posto e, sedendosi accanto a un funzionario e guardandolo dritto in viso con occhi ridenti, disse:
«Ma è proprio lui!».
«Sì?».
«Ti dico che è proprio quell’ussero duellista, già, Tùrbin, il famoso. Mi ha riconosciuto, scommetto che mi ha riconosciuto. E come no? a Lebedjàgn facemmo baldoria insieme per tre settimane senza interruzione, quando io ero là per la rimonta. Là si fece una grossa burla: la facemmo insieme. È un uomo di fegato!».
«Eccome! E quanto è simpatico nei modi! Non si nota in lui nulla di quel non so che...» rispose il bel giovanotto. «Come ci siamo affiatati presto... avrà venticinque anni, non più, eh?».
«No, sembra così; ma ne ha di più. E poi bisogna sapere chi è. La Migùnova chi la rapì? Lui. Sàblin l’uccise lui, Matnjòv fu lui a buttarlo giù per i piedi da una finestra, lui vinse al gioco trecentomila rubli al principe Njèstjerov. Bisogna sapere che testa calda è. Giocatore di carte, duellista, seduttore; ma ha l’anima di un ussero, veramente l’anima di un ussero. È una gloria tutta nostra, e se qualcheduno capisse che cosa vuol dire un vero ussero! Ah, quelli erano tempi!».
E l’ex ufficiale di cavalleria cominciò a raccontare al suo interlocutore le sue orge di Lebedjàgn col conte, orge che non erano né potevano essere esistite, primo perché nel passato egli non