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La congiura dei monaci maledetti
La congiura dei monaci maledetti
La congiura dei monaci maledetti
E-book384 pagine5 ore

La congiura dei monaci maledetti

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Info su questo ebook

Enigmatico come Il nome della rosa
Magnetico come La cattedrale del mare

Un grande thriller

Palermo. Un antiquario, proprietario di una libreria di testi antichi, viene brutalmente assassinato. Il colpo mortale è inferto da un pugnale che pare risalire al 1500. Dopo qualche giorno, nella tranquilla Firenze, viene ucciso un collezionista di libri d’epoca. Lo strano dettaglio è che l’arma del delitto è un pugnale identico a quello dell’omicidio siciliano. Stessa sorte tocca a un operaio che si occupa dei lavori di restauro nella basilica di San Domenico a Palermo: il suo corpo viene rinvenuto privo di vita. Le indagini portano ben presto a una scoperta sconcertante: l’esistenza di una setta, nata in Italia alla fine del 1400, ma sopravvissuta fino ai giorni nostri, quella dei Frateschi. I suoi adepti sono fedeli all’insegnamento di Girolamo Savonarola, il frate predicatore, e cercano da secoli il testamento che egli affidò ad alcuni discepoli prima di essere arrestato. E se tutti i delitti fossero legati a quel manoscritto? La scia di sangue, intanto, sembra destinata a non arrestarsi. Chi muove i fili dell’intricato complotto che affonda le sue radici in tempi lontanissimi?

Una serie di oscuri delitti
Una setta misteriosa in cerca di vendetta
Un testamento scomparso che lascia dietro di sé una scia di sangue

Un esordio sorprendente
Il caso editoriale dell’anno
Carmelo Nicolosi De Luca
È nato a Catania, ma vive a Palermo, dove scrive per il «Giornale di Sicilia». Ha lavorato 23 anni per il «Corriere della Sera». Ha curato inchieste e servizi da Europa, Asia, Africa, Medio Oriente, Sudafrica, Americhe, intervistando molti personaggi che hanno fatto la storia mondiale, tra cui Nelson Mandela. Si è dedicato solo al giornalismo fino a pochi anni fa, quando è ritornato alla vecchia passione di scrittore, pubblicando L’Italia degli inganni. Il genere che preferisce, però, è il thriller. L’autore è stato insignito, nella sua carriera, di numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788822712950
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    Anteprima del libro

    La congiura dei monaci maledetti - Carmelo Nicolosi De Luca

    1

    Con un cenno circolare della mano e il suo ormai classico: «Buonanotte giovani e meno giovani», Sergio Nato lasciò la redazione del quotidiano di Palermo. Lanciò un’occhiata al computer per assicurarsi che fosse spento e scese i gradini che portavano all’uscita. Salutò il portiere e si avviò alla sua auto, parcheggiata poco distante dal giornale, a soli pochi passi dall’orto botanico, un magnifico museo all’aperto di specie rare, di ben duecento anni. Respirò l’aria della sera a pieni polmoni, quasi a liberarsi da quella pesante all’interno della redazione. Mise in moto l’auto e diede un’occhiata al cruscotto illuminato: 22:40.

    Era il momento più bello della giornata: si sentiva libero e appagato. Amava il suo lavoro, lo aveva sognato fin da ragazzo. Aveva quattordici anni quando aveva assistito a un film in cui un cronista indagava su un caso di omicidio e ne era rimasto affascinato. Quello, si era detto, è il mestiere che voglio fare da grande. E nonostante le tante resistenze incontrate in famiglia, aveva seguito caparbiamente la sua vocazione. Ora, col passare degli anni, aveva capito che la realtà è ben diversa dai film. In sei anni, non aveva portato avanti alcuna inchiesta degna di quel nome. Si era limitato a scrivere della cronaca di tutti i giorni, a volte banale, a volte più interessante, ma mai esaltante. Aveva seguito solo un caso di omicidio e per poco non aveva intralciato le indagini. Ma la carta stampata lo affascinava. E poiché la speranza non muore mai, aspettava sempre il colpo grosso, la notizia da prima pagina.

    Era anche l’ora in cui i succhi gastrici facevano protestare lo stomaco. A pranzo, solo un panino con prosciutto, non proprio il massimo a ventisei anni. Parcheggiò l’auto nei pressi dell’imponente Pantheon palermitano, la chiesa di San Domenico, nell’omonima piazza, e si inoltrò in una stretta via laterale. Traguardo: un ristorantino nel quale si recava spesso. Claudio Lo Salvo, il proprietario, lo accolse col solito buonumore.

    «Ecco il Sergio, sempre Nato».

    «Già, e tu resti sempre il minchione della compagnia». Si diedero delle pacche sulle spalle. Il luogo era accogliente: una quindicina di tavoli in tutto, almeno la metà occupati, nonostante l’ora tarda.

    «Come ti va?», domandò Claudio.

    «Bene, e a te?»

    «Dovrei solo mangiare un po’ meno».

    «Non saresti una buona pubblicità per il tuo ristorante». Risero. «Claudio, stasera ho proprio fame».

    «Non è certo una novità», ribatté il ristoratore.

    «Già. E mi andrebbe un buon pesce arrosto. Che cosa consigli?»

    «Una bella spigola ti andrebbe?»

    «Vada per la spigola. Bella grossa però». Poi strizzò un occhio all’amico. «E fa’ aggiungere un buon piatto di patatine al forno, un’insalata verde e poi pensiamo al dolce, eh?»

    «Per il dolce, ti farò una sorpresa».

    Nell’attesa, Sergio apprezzò il vino, sgranocchiò qualche grissino, diede uno sguardo ai batik appesi alle pareti, anche se il ristorante non aveva nulla di orientale. Claudio gli aveva raccontato di averli acquistati per pochi soldi da un tizio che si era presentato nel suo locale.

    Sergio mangiò deliziato il pesce, chiacchierò con l’amico, che ogni tanto si alzava per recarsi alla cassa. Era mezzanotte e venti quando lasciò il locale.

    La temperatura si era abbassata. Alzò il bavero della giacca e si avviò per la stradina deserta, verso il parcheggio. Diede un’occhiata distratta al Pantheon, dove riposavano tanti uomini illustri. All’improvviso, ebbe la sensazione che un’ombra si muovesse sui gradini della chiesa. Si fermò incuriosito: un frate, con il capo coperto dal cappuccio, sembrava danzare avvicinandosi al portale. Che ci faceva un frate, lì, a quell’ora? Aprì la portiera dell’auto, avviò il motore, fece marcia indietro e, attraverso il lunotto, riportò lo sguardo alla chiesa. Del frate nessuna traccia.

    Aveva percorso non più di cento metri quando inchiodò. Ma il portone è chiuso!. Eppure, era certo che il frate si fosse avviato verso l’ingresso principale. La curiosità ebbe il sopravvento sulla stanchezza di un giorno pesante. Lasciò l’auto e ritornò sui suoi passi. Salì i pochi gradini che portavano all’ingresso della chiesa e spinse, con entrambe le mani, l’imponente portone. Come previsto, era serrato.

    Nel silenzio della notte, guardò gli alti campanili sul frontone, le statue che raffiguravano santi e papi, sempre più perplesso. Che ci faceva, si ripeté, un monaco, di notte, sui gradini di quella chiesa? Perché il suo passo era così strano? Solo un essere incorporeo avrebbe potuto attraversare il possente portale. L’aveva perso di vista solo qualche secondo, il tempo della retromarcia, ed era sparito. Se non era entrato in chiesa, dov’era? Allungò lo sguardo alle due stradine laterali. Deserte. Scosse la testa e ritornò alla macchina. Maledetta, innata curiosità!, si disse.

    A casa, il pensiero di quel frate sui gradini del Pantheon continuò a farsi vivo. In quella presenza c’era qualcosa d’inquietante. Nella città, di storie di fantasmi ne circolavano tante. Che ne avesse visto uno? Scosse la testa, spense il televisore e, in pigiama, si appressò al balcone.

    La lontana presenza del castello Utveggio, la mirabile costruzione sul monte Pellegrino, che di notte risplende sulla città con le sue luci, lo affascinava. Chissà quanta fatica e quanto denaro erano stati necessari per edificarlo su quel cocuzzolo di monte. Si disse che quella, sì, era certezza, concretezza. Che stupido a essersi lasciato impressionare da una figura nella notte. Tornò nella camera da letto, si passò una mano sui capelli, si infilò sotto il lenzuolo e spense la luce. Prese subito sonno.

    Erano da poco trascorse le otto quando squillò il cellulare. A stento tirò su la testa dal cuscino. C’era stato, capì ancora assonnato, un omicidio. Doveva recarsi sul posto.

    2

    Cinque minuti prima delle nove il cronista era già nella parte antica della città. Davanti a una libreria di testi e stampe d’epoca si affollava un capannello di curiosi, tenuto a distanza da un nastro della polizia.

    Nei pressi dell’ingresso della libreria, un ispettore stava parlottando con due agenti in divisa. Lo chiamò e quello fece cenno ai colleghi di lasciarlo passare.

    «Grazie, ispettore Lombardo», disse il cronista non appena gli fu vicino, «mi hanno detto dal giornale che c’è stato un omicidio…».

    Lombardo, senza rispondere, accennò con la testa alla porta del negozio di libri e tornò a rivolgersi ai due agenti.

    Entrando nell’oscurità di un ambiente ad archi che sembrava più una grotta che un negozio, notò una donna della squadra investigativa china sul corpo di un uomo anziano dalla barba lunga e bianca. Bionda, capelli che ricadevano sulle spalle, la poliziotta alzò lo sguardo sentendosi osservata e con uno stanco sorriso salutò il giovane.

    «Ciao Sergio, già qui?»

    «Ciao, sovrintendente Novelli, avrei preferito dormire ancora un po’, ma pazienza». Con la testa fece un cenno verso l’uomo riverso sul pavimento in pietra. «Chi è?»

    «Un certo Scandurra, il proprietario della libreria».

    Sergio annuì. «Accoltellato?»

    «Più precisamente, pugnalato al cuore».

    Dal fondo del locale gli giunse una voce. «Ehi, Nato… sempre in giro per le palle…».

    Il giornalista allungò lo sguardo e vide l’ispettore Paterna che gli sorrideva.

    «Credimi, ispettore capo, ne farei veramente a meno… soprattutto di vederti».

    Si diedero una vigorosa stretta di mano.

    «Laura mi ha detto che è stato pugnalato…».

    «Proprio così e accanto al corpo abbiamo rinvenuto uno strano pugnale».

    «Cioè?»

    «Il manico è una sorta di croce. La lama, molto appuntita, appare arrugginita, ma col sangue rappreso che la ricopre è difficile dirlo con esattezza. A prima vista sembra di fattura antica, ma sarà la Scientifica a stabilirlo».

    «Un’impugnatura a forma di croce? Molti pugnali nell’antichità avevano manici di quella forma».

    «Sì, ma questo è strano, è proprio una croce ed è di colore rosso».

    «Era suo? Forse un pezzo da collezione».

    «Non lo sappiamo ancora, ma non abbiamo trovato altri pugnali o oggetti simili».

    Sergio annuì. Il classico odore di carta di vecchia data gli dava fastidio, lo stesso malessere che accusava quando entrava nell’archivio del giornale.

    Un fotografo della Scientifica al lavoro lo salutò con un gesto della mano.

    Si rivolse ancora a Paterna che aveva appena finito di parlare con un uomo in tuta bianca. «Si chiamava Scandurra, se non ho capito male».

    «Sì, Giacomo Scandurra, settantasette anni, vedovo, proprietario di questa sorta di caverna. Commerciava in libri rari».

    «Però questo luogo ha un suo fascino», disse Sergio, dopo aver dato uno sguardo tutt’intorno.

    «Fascino? Bah! Se lo dici tu che sei l’intellettuale, sarà così. A me sembra un pasticcio di carta vecchia e maleodorante».

    Sergio Nato sorrise. «Che cos’altro mi puoi dire?»

    «Poco. È stato ammazzato con un colpo di pugnale dritto al cuore. Un solo colpo, ma ne sapremo di più dopo l’autopsia. Dalle prime indicazioni del medico legale, pare sia stato assassinato tra mezzanotte e le due del mattino».

    «Chi ha rinvenuto il corpo?»

    «La donna che viene tutti i giorni a fare le pulizie. Intorno alle sette e mezza ha trovato la saracinesca chiusa solo a tre quarti. Ha subito pensato a un furto perché il proprietario non arrivava mai prima delle nove. Ha chiesto aiuto al fruttivendolo accanto e hanno trovato il corpo, poi hanno chiamato subito noi».

    «E che ci faceva Scandurra in negozio di notte?»

    «Bella domanda, Nato, bella domanda. Se conoscessimo la risposta forse sapremmo anche il perché e chi l’ha ucciso, non ti pare?».

    Sergio fece cenno di sì con la testa, mortificato per la sciocca domanda.

    Alle tre del pomeriggio giunse puntuale al giornale. Alle tre e mezza c’era la riunione per impostare il quotidiano. Quando arrivò il suo turno parlò dell’omicidio del libraio. Gli indizi erano ancora pochi, ma avrebbe condito bene l’articolo.

    Finito il lavoro, si avvicinò a Natale Puglisi. Tra meno di sei mesi sarebbe andato in pensione. Era uno dei colleghi col quale Sergio si trovava meglio, tra loro c’era un buon affiatamento e i consigli di Puglisi gli erano sempre stati utili sul lavoro. Uomo dal tono pacato, dai gesti misurati, conosceva tutte le vicende di Palermo.

    «Ne hai ancora per molto?», domandò Sergio, sedendosi di fronte al tavolo.

    «No, ho finito. Adesso raccolgo le mie cose e vado a casa. Mi sento proprio stanco. Tu che fai? Vivi sempre solo soletto o ti sei deciso a frequentare qualche bella fanciulla?»

    «No, Natale. Per ora non mi va di legarmi a qualcuno. Non so. Ti confesso che al solo pensiero mi sento a disagio. Non sono pronto. Ho bisogno di muovermi, ho sempre voglia di fare qualcosa e sarà difficile trovare qualcuna che capisca la mia… come dire… irrequietezza».

    «Ma dài, i tre quarti di questa redazione sono sposati e non sentono affatto il laccio al collo. Anzi, in molti non vedono l’ora che il giornale sia chiuso per tornare dai propri figli. Certo, qualcuno divorziato c’è, ma non è la regola. Diciamo piuttosto che non ti è capitata la donna giusta. Poi vedrai che le tue perplessità si polverizzeranno».

    «Speriamo sia così. Ti aspetto e scendiamo insieme?»

    «Solo un minuto e sono pronto».

    Appena fuori si avviarono verso l’auto dell’anziano collega.

    «Sai», disse Puglisi mentre camminavano, «conoscevo il libraio Scandurra. Era una persona a modo, preparata nel suo campo, sempre disponibile e un fanatico ricercatore di stampe, documenti e libri antichi. Avresti dovuto vedere che libri possedeva, alcuni di grande valore. Ne hanno rubati parecchi?»

    «Non saprei. Penso che sarà difficile per la polizia fare l’inventario».

    «Be’, certo è un delitto strano. Se la causa sono i libri, il furto deve essere su commissione. Chi conosce il valore di un libro o di una stampa, se non un intenditore? Ma perché ucciderlo? E con un pugnale. Chi si porta dietro un pugnale, tra l’altro antico, quando ci sono coltelli a serramanico, più facili da tenere in tasca e da utilizzare?»

    «E dobbiamo mettere anche in conto l’ora del delitto e capire perché il libraio si trovasse nel negozio a quell’ora insolita».

    Puglisi alzò le spalle. «A chi è stato assegnato il caso?»

    «Ho visto l’ispettore capo Paterna, Lombardo e Laura Novelli».

    «Ah, Paterna. Uno dei pupilli di Giovanni Barraco». Sergio annuì. «Comunque», continuò Natale Puglisi, «formano una bella squadra. Barraco ha dimostrato grandi doti di investigatore. Qualche anno fa era commissario a Bagheria, lo sapevi?»

    «Sì. Ho avuto modo di vederlo all’opera durante il caso di Saro Manfredi».

    «Manfredi, il mafioso ammazzato…».

    Puglisi fece il gesto di salire in auto, ma il collega lo fermò afferrandolo per un braccio. «Dimmi, Natale, in questa città si è mai parlato di fantasmi?».

    L’anziano cronista, preso alla sprovvista, pensò un attimo, poi rispose: «Fantasmi? Forse qualche leggenda metropolitana. Ogni tanto la gente ne parla».

    «Ma, che tu sappia, è possibile che ci sia qualcosa di vero?»

    «Non saprei proprio». Poi, come se un pensiero gli avesse attraversato la mente: «Aspetta, ricordo che circa trent’anni fa, pubblicammo un’inchiesta su questi fenomeni a Palermo, con tanto di testimonianze. Ma dopo di allora, oltre alla suora che si dice ogni tanto si affacci dal campanile della chiesa della Madonna della Mercede, non mi è giunto nulla all’orecchio».

    «Sì, la suora, ma pare si tratti di un gioco di ombre e di luci».

    «Non ne so molto. Ma perché sei interessato ai fantasmi? Ne hai visto qualcuno?».

    Sergio fu sul punto di dire al collega del monaco scomparso improvvisamente alla sua vista, ma si trattenne. Se ne uscì con un: «Forse, o me lo sono immaginato».

    «Ma dài, va’ a dormire che hai una faccia stanca».

    Natale si accomodò in macchina, chiuse lo sportello e prima di avviare il motore abbassò il finestrino.

    «Comunque, se vuoi leggere l’inchiesta, domanda in archivio. Può darsi che sia disponibile, ma sono trascorsi molti anni e prima dell’avvento della microfilmatura molte cose sono andate perse, ma tu prova. Buonanotte Sergio».

    Nato stette a guardare pensieroso l’auto che si allontanava, poi, con passo lento, si avviò verso la sua vettura. Era sfinito. Non vedeva l’ora di mettersi a letto. Il giorno dopo, di buon mattino, si sarebbe recato alla squadra omicidi per carpire qualche novità sul delitto. Puglisi aveva ragione. Era un delitto fuori dagli schemi. Perché uccidere un libraio, vedovo, senza figli, che viveva da solo. Per rubare qualcosa bastava forzare la saracinesca nottetempo. Forse, doveva incontrare qualcuno, ma un libro, anche se prezioso, lo si vende durante le ore di apertura, non nella notte. Il giorno dopo ne avrebbe parlato con gli investigatori. Forse si erano già fatti un’idea.

    Pensò di chiamare Laura. Diede uno sguardo all’orologio e ci rinunciò. Probabilmente stava dormendo, dopo una lunga giornata di lavoro. Rivide i suoi occhi azzurri, i capelli biondi che le ricadevano sulle spalle, il suo sorriso schietto. Era di Siracusa. Sorrise riflettendo sulla quantità di donne siciliane bionde naturali e con occhi azzurri: Eredità normanna, pensò.

    Salì in macchina. Chissà, si chiese, se il negozio del libraio è ancora presidiato dalla polizia. E senza sapere bene il perché, si avviò verso la parte storica della città, non lontana dal giornale.

    La strada dove si era consumato il delitto era particolarmente stretta, a senso unico, uno dei tanti vicoli che costituiscono la parte più antica di Palermo. La saracinesca era chiusa. Di certo, avevano finito tutti i rilevamenti. Si accorse che in una rientranza della strada era ferma una volante. Diede uno sguardo ai due occupanti, ma i loro visi non gli dissero nulla. Non poteva certo conoscere tutti gli agenti di polizia della città.

    All’improvviso inchiodò per evitare di investire, nella fioca luce della via, un’ombra che attraversava la strada. Stava per imprecare, ma le corde vocali si bloccarono. La sagoma indossava un saio. Il capo coperto da un cappuccio. Un brivido freddo risalì lungo la spina dorsale. Si muoveva in modo strano, come se i piedi non toccassero terra.

    Un colpo discreto di clacson. Guardò nello specchietto retrovisore. Un’auto gli chiedeva di muoversi. Riportò gli occhi sulla strada: del monaco nessuna traccia. Azionò il freno a mano, aprì lo sportello e si avvicinò, bianco in viso, all’auto ferma dietro la sua. Al volante un signore di mezz’età.

    «Mi scusi, ha visto il frate che ha attraversato la strada?», chiese indicando con l’indice della mano sinistra il marciapiede vicino.

    «Un frate? Io no, tu Rossella hai visto un frate?», chiese l’uomo rivolgendosi alla donna seduta sul sedile accanto.

    «No, non ho visto nessuno». Poi, rivolta allo strano giovane che cercava un monaco, di notte, in una strada scura e deserta, chiese: «Si sente bene, signore?». Col viso in fiamme, il giornalista balbettò qualche parola di scuse, risalì in macchina e si mosse velocemente.

    3

    Il monaco era apparso e scomparso. E due volte di seguito, nel giro di quarantotto ore, non poteva essere un caso, in una città grande come Palermo.

    Andò in cucina e bevve lentamente un bicchiere d’acqua. In bagno, guardò i suoi occhi arrossati. Si lasciò quasi cadere su uno sgabello. Rivide il cadavere del vecchio libraio dalla barba bianca, il pavimento in pietra cosparso di sangue. Era il secondo delitto sul quale lavorava. Il primo era opera della mafia, un regolamento di conti tra cosche. Quei delinquenti, prima o dopo, o si tradiscono o si ammazzano tra di loro. Qui, invece, si trattava di un anziano, esile, prossimo agli ottant’anni. Un uomo che, a quanto gli aveva riferito Puglisi, si occupava solo di stampe e testi d’epoca. Perché ucciderlo? Forse aveva tentato di difendersi da rapinatori che cercavano l’incasso della giornata. Si rese subito conto dell’assurdità della sua ipotesi. Si cerca un incasso in piena notte? E perché un anziano gracile, invece di riposare le stanche ossa nel proprio letto, torna ad aprire il negozio nel bel mezzo della notte. Il proprietario della macelleria dirimpetto lo aveva visto abbassare la saracinesca intorno alle sette e trenta di sera e allontanarsi con tutta calma.

    Alle otto e trenta Nato era negli uffici della Omicidi. Paterna era già al lavoro. Come sempre, davanti aveva un mucchio di carte. Alzò la testa e guardò l’amico cronista, pensieroso. «Ehi, Nato, cosa ti è successo? Hai una faccia distrutta». E indicò una delle sedie di fronte alla scrivania.

    «È che stanotte non ho chiuso quasi occhio».

    «Bisbocce incandescenti?»

    «Magari! No, ho trascorso una notte insonne».

    «Pensieri pesanti?».

    Sergio Nato sospirò. «Qualcuno, molto assillante».

    «Ti posso essere di aiuto in qualche modo?»

    «Grazie, ma non credo. È una cosa che devo sbrigare da me, sempre che riesca a risolverla». Ridacchiò nervosamente. «Riguarda un monaco».

    «Un monaco?»

    «Sì, un monaco che compare e scompare… lascia perdere… Piuttosto, hai qualche notizia sul caso Scandurra?»

    «Caro Sergio… ci stiamo lavorando. Questo è il tuo primo incarico in un delitto o sbaglio?»

    «Mi sono occupato del caso di Saro Manfredi, nella faida mafiosa di qualche anno fa».

    «Ah, sì, scusami, me l’avevi già detto. Ma questo è un delitto diverso. Non so come classificarlo. L’arma è stata visionata dalla Scientifica. Non ci sono impronte né altre tracce sulle quali si possa lavorare, nulla… tranne il sangue del morto. Il pugnale l’hanno catalogato come antico, addirittura di alcuni secoli fa».

    «Secoli fa?»

    «Sì, dicono intorno a cinquecento».

    «Madonna. Cinquecento, seicento anni fa?»

    «Proprio così. Certo non è una cosa che capita tutti i giorni».

    «Era della vittima?»

    «Su questo è sorto qualche dubbio. Abbiamo interrogato la domestica, la donna che si occupava delle pulizie in negozio, rintracciato qualche cliente, ma nessuno pare abbia visto mai quell’oggetto, ma questo non significa molto. Forse lo stava mostrando a qualcuno».

    «A quell’ora della notte?»

    «Che dire? I ragazzi stanno spulciando la sua contabilità… vedremo se verrà fuori qualcosa».

    «Frequentazioni?»

    «Pare nessuna, a sentire le due donne che lo conoscevano da tempo. Sembra fosse una sorta di eremita da quando, anni fa, gli è morta la moglie».

    «A chi va ora la libreria?»

    «A una nipote, Isabella, figlia dell’unico fratello, anche lui deceduto. Vive a Varese, è medico nell’ospedale di quella città e pare poco interessata all’occupazione dello zio. Sai cosa penso? Venderà il vendibile e via. Comunque, se la vuoi incontrare, è arrivata ieri sera. Alloggia alle Palme».

    Nato si alzò e strinse la mano al poliziotto che rimase seduto. «Grazie, Paterna, sei un amico, ti devo una cena».

    «Sì, conoscendoti… campa cavallo». Il cronista sorrise e lasciò la stanza.

    Seduto in macchina chiamò col cellulare il centralino del giornale.

    «Ciao Roby, hai il numero dell’Hotel delle Palme? Mi passi la reception?». Appena risposero disse: «Buongiorno, sono Sergio Nato, avrei bisogno di parlare con la dottoressa Scandurra, se è in albergo».

    Dopo un paio di secondi una voce femminile, abbastanza dura, rispose: «Mi hanno detto che lei è un giornalista. Penso voglia parlare della morte di mio zio, ma non ho nulla da dirle. Sono giunta a Palermo ieri sera sul tardi e oggi, a mezzogiorno, mi aspettano in questura».

    «Mi dispiace di averla disturbata dottoressa Scandurra, ma non volevo parlarle della morte di suo zio, desideravo solo conoscere un po’ della sua vita, delle sue origini. Suo zio è… era… un personaggio che ha colpito la mia fantasia. Non le ruberei più di cinque minuti. La prego, non dica di no».

    Un attimo di silenzio, rotto poi da un: «Va bene. Ce la fa in un quarto d’ora? Ci vediamo nella hall».

    Mentre Sergio si arrovellava per preparare qualche domanda, dall’ascensore uscì una donna sulla quarantina, piuttosto bella, capelli neri che ricadevano sulle spalle, portamento elegante. All’anulare della mano sinistra una fede d’oro.

    Sergio si alzò dalla poltrona in cui era sprofondato e le si avvicinò.

    «La dottoressa Scandurra, immagino».

    La donna annuì e strinse la mano che il cronista le porgeva. «E lei è Nato, il giornalista. Di certo è difficile dimenticare il suo nome». La sua espressione appariva divertita.

    Sergio sorrise. «A volte è un vantaggio, altre volte proprio no». Lei rise apertamente. Che denti bellissimi, pensò lui.

    Si accomodarono su un divano. Tutte le domande che Sergio aveva pensato di farle, svanirono come per incanto. I suoi occhi erano di un nero intenso. «Suo zio…», aveva iniziato a dire quando lei lo interruppe.

    «Mio zio era un uomo di grande cultura, non riesco a credere che qualcuno possa averlo ucciso. Il suo solo interesse, e direi anche amore, dopo la morte di zia Clotilde, erano le stampe e i libri antichi, null’altro». La sua espressione divenne triste. Trasse un profondo respiro e si guardò intorno. «Questo hotel è molto bello», disse.

    «Sì, lo penso anch’io, ha un certo fascino», rispose Sergio dando anche lui uno sguardo agli arredi e ammirando le meravigliose vetrate policrome della bottega palermitana di Pietro Bevilacqua, maestro dell’arte vetraia.

    «Io sono l’unica nipote, ma non ci vedevamo spesso. Sono stata a Palermo per i funerali della zia, poi l’ho visto sempre qui in occasione di un congresso di cardiologia. Sono cardiologa. Poi, qualche rara telefonata, gli auguri per le festività. Aveva un carattere chiuso e il mio lavoro non mi lascia molto tempo libero. Come vede, non so molto di mio zio e ora mi rimane il rimorso di non averlo cercato più spesso, di non aver alleviato la sua solitudine. La vita a volte è dura. Una poliziotta mi ha detto che è stato pugnalato, ma perché? Era un essere così innocuo, di una cultura che ha pochi uguali, soprattutto per quanto riguarda la storia medievale. Era il suo pane quotidiano…». Con le dita della mano destra tolse dai pantaloni bianchi che indossava un immaginario granello di polvere.

    A chiamarla doveva essere stata Laura, pensò Sergio. «Dottoressa, so di chiederle troppo e non dovrei farlo, ma non posso evitare di tentare: mi darebbe modo di vedere la casa di suo zio?»

    «Come vuole. Ancora non ci sono andata». Guardò l’orologio d’oro che teneva al polso. «Sono le dieci, in mezz’ora dovremmo farcela, poi andrò in questura. Tanto lo zio abita… abitava non molto distante da qui. Chiamo Rosalia perché si faccia trovare in casa».

    4

    L’abitazione di Scandurra sembrava un museo. Quattro camere addobbate con mobili antichi, stampe di valore, libri in ogni angolo. Lumi d’epoca, credenze con cristalleria lavorata, tende di velluto. In quello che era stato il suo studio, tante cartelle sulla scrivania, alla rinfusa. Sergio pensò che fosse opera degli investigatori che avevano perquisito la casa. Perché non rimettono mai tutto a posto?, si chiese.

    «Lo zio», stava dicendo la nipote, «era una persona metodica, non amava troppo le novità. Guardi quelle buste sul tavolo, sono vecchissime, ma di una carta pesante e bellissima e così i fogli su cui scriveva. Aveva una calligrafia molto chiara, le maiuscole, poi, erano un capolavoro: tutte svolazzi e intrecci di linee. L’ultima lettera l’ho ricevuta per il mio compleanno. Se ne era ricordato, e dire che scriveva molto di rado. Il contenuto era pieno d’affetto».

    «Posso chiederle se conteneva qualcosa… di particolare?».

    La dottoressa pensò un attimo. «Non mi pare. Mi chiedeva di venirlo a trovare al più presto: mi avrebbe mostrato qualcosa di affascinante. La lettera era tanto accorata che gli telefonai, appena letta, per ringraziarlo, per dirgli che anch’io, nonostante la lontananza e il lavoro che mi tiene impegnata costantemente, pensavo spesso a lui e che quest’estate sarei venuta a trascorrere qualche giorno a Palermo». Isabella accarezzzò il piano della scrivania. «Però, ora che ci penso, in quella telefonata ebbi la sensazione che fosse stanco, come se qualcosa lo impensierisse. Gli domandai della sua salute, ma rispose che andava bene. Poi mi salutò. Ora, mi porto dietro il rimorso di non essere venuta subito a Palermo». Si toccò l’orecchino sinistro. «Avrei dovuto capire che forse aveva bisogno di me…».

    «Lo chiamò a casa o in libreria?»

    «Erano circa le undici del mattino, quindi lo chiamai in libreria».

    «Ricorda il giorno in cui fece la telefonata?».

    Isabella rimase un attimo a pensare, pizzicandosi il mento. «Dunque… oggi è venerdì, fu tre giorni fa… martedì, sì lo sentii martedì».

    «Il giorno stesso in cui ricevette la lettera?»

    «Esattamente. Mi colpì tanto che avvertii il bisogno di chiamarlo subito».

    «Ha detto che le è sembrato stanco?»

    «Non so, ho avuto la sensazione che parlasse con me e avesse la mente altrove».

    «E la notte dopo venne ucciso…».

    Isabella fissò ancora la scrivania. Gli occhi divennero lucidi.

    Sergio si guardò attorno, poi disse: «Grazie per avermi dato modo di vedere la casa di suo zio. Credo che ogni cosa in queste stanze possa raccontare una storia». Osservò l’orologio. «Venga, dottoressa, l’accompagno in questura».

    «Non si disturbi, posso chiamare un taxi».

    «Nessun disturbo, l’accompagno volentieri».

    In auto, per distoglierla dai tristi pensieri che adombravano il viso della donna, le chiese del suo lavoro. Si trovava bene all’ospedale di Varese. Finito il liceo, aveva scelto la facoltà di Medicina e si era specializzata in Cardiologia. Aveva sposato un avvocato, aveva una bambina di dodici anni, che non vedeva l’ora di

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