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I custodi del cigno
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I custodi del cigno
E-book398 pagine5 ore

I custodi del cigno

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Info su questo ebook

Manchester, 1582. Elisabetta i di Tudor incontra in segreto il celebre alchimista John Dee, astrologo di corte e suo fidato consulente per le materie occulte. Insieme a Edward Kelley, il suo storico compagno e amico, Dee è a un passo dal decifrare il rompicapo linguistico che secoli più tardi sarà da tutti conosciuto come il Manoscritto Voynich. Alaska, oggi. I membri dello staff in servizio presso un segretissimo radiotelescopio del Vaticano vengono trovati tutti decapitati, denudati e disposti secondo l’Albero delle Sephiroth, disegnato sul pavimento con il loro stesso sangue. Due membri del Servizio di informazione del Vaticano, l’archeologo ed esperto di materie esoteriche Gabriel Delacroix e il gesuita belga padre Jean-Michel Brice, devono far luce sul mistero dell’eccidio, mentre una scia di morti sconvolge l’Europa.
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2020
ISBN9788863939378
I custodi del cigno

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    Anteprima del libro

    I custodi del cigno - Roberto Blandino

    1

    Il cocchiere imprecò sottovoce, per non rischiare di farsi sentire dalla sua padrona seduta in carrozza, dietro di lui. I cavalli avevano scartato repentinamente verso destra al passaggio di un gatto che, furtivo e con gli occhi scintillanti nel buio della notte, aveva attraversato la strada ciottolata un attimo prima del loro passaggio.

    Maledetto gatto… e maledetta notte… pensò il cocchiere. Se ne stava tranquillamente a dormire smaltendo quattro pinte della migliore barleywine delle Midlands Occidentali, quando era stato tirato giù dal letto a calci da un altro servo della sua padrona. La birra era il suo demone, non v’era alcun dubbio su questo, ma era un demone amico dopotutto, che lo lusingava con il suo retrogusto caramellato come se gli stesse sussurrando parole agrodolci e speziate che avevano il potere di cullargli l’anima, permettendogli di assopirsi ogni sera. Qualcuno dei suoi pochi intimi, di tanto in tanto, aveva la premura di rammentargli quanto i demoni dell’alcol fossero menzogneri e ingannevoli, ma lui non ascoltava mai quei consigli. Si limitava a interrompere quello che per lui era un ciarlare fastidioso e continuava a bere come se nulla fosse. Non gli importava di nient’altro.

    «Alzati scansafatiche di un ubriacone! La padrona ha fretta di uscire! Alzati e ricomponiti, dannazione!» aveva urlato l’uomo mentre lo prendeva a stivalate là dove la schiena perdeva il suo nobile nome. Il cocchiere aveva farfugliato qualcosa con gli occhi semichiusi, il volto rosso per il troppo alcol ingerito e un rivolo di saliva che gli colava dall’angolo della bocca. Riusciva a malapena a connettere lingua e cervello, aveva lo stomaco in subbuglio e nella testa un’intera orchestra di cornamuse stava suonando per risvegliare i defunti.

    «Mi hai sentito, sacco di letame? Ti sembra il modo di ridurti? Sbrigati a ricomporti, dannazione! Devi preparare i cavalli e la carrozza immediatamente! La padrona…»

    «La padrona ha fretta… la padrona ordina… la padrona comanda e noi…» sbraitò il cocchiere biascicando le parole e agitando un braccio a mezz’aria, non senza difficoltà. In tutta risposta ottenne un paio di calci ancora più forti dei precedenti.

    «Zitto cialtrone! Non aggiungere altro! Anche se sono i fumi dell’alcol a sciogliere la tua lingua, rimani al tuo posto e bacia la terra dove cammini. Un ubriacone come te dovrebbe essere a marcire in galera già da moltissimo tempo! Ora sbrigati e renditi presentabile! Se ritardi anche solo un attimo ti farò pentire di essere nato! Hai dieci minuti!» Detto questo, l’uomo uscì dalla stanza, rapido e furtivo così come vi era giunto.

    Il cocchiere aveva pensato che, dopo la morte del figlio e della moglie, si era pentito di essere nato almeno un migliaio di volte e sempre tra una pinta di birra e quella successiva. Giusto il tempo necessario affinché le lusinghe del suo demone facessero effetto, almeno fino al mattino seguente. Seduto in cassetta, con l’aria fredda della notte a tenerlo sveglio, il cocchiere scacciò via quei pensieri mesti e si concentrò sulla strada davanti a sé. Quel gattaccio nero non porterà nulla di buono… assolutamente nulla di buono… soprattutto se la destinazione finale è la dimora di quell’uomo… Rabbrividì e si avviluppò ancor più nel pesante mantello, ma non per colpa del freddo pungente. Sua madre non l’aveva forse messo in guardia fin da bambino dagli effetti nefasti di simili accadimenti? Non cantò la civetta ben tre volte, la notte che suo figlio e sua moglie vennero strappati al suo affetto? Aveva imparato, suo malgrado, a usare la parola impossibile con la massima cautela. Quella notte aveva certamente in sé qualcosa di sinistro che, prima o poi, avrebbe mostrato i propri doni. Di questo era più che certo.

    Incitando i cavalli a divorare la strada con maggior foga, si domandò se le voci che giravano sul conto dell’uomo che tanto lo terrorizzava rispondessero a verità o meno. Non poté fare a meno di rabbrividire di nuovo. Ma se lo erano, perché mai la sua padrona desiderava incontrarlo? Ella non era forse il Governatore supremo della Chiesa anglicana? Si domandò anche perché mai avessero deciso di recarsi da lui, quando sarebbe stato molto più semplice convocarlo a palazzo. Poi, in un attimo di lucidità, comprese che la natura dell’incontro imponeva il massimo riserbo. L’uomo che stavano per incontrare era particolarmente temuto per via delle accuse di stregoneria che nel corso del tempo lo avevano raggiunto, tuttavia sembrava godere di enorme credito presso la corte. Credito che lo aveva tirato fuori dai guai in più di un’occasione. Come a rispondere a se stesso, scosse la testa. Sono pensieri pericolosi, vecchio mio… pensa a condurre la carrozza a destinazione e non ti curare di simili affari…

    Poco fuori Manchester, la carrozza imbucò una strada secondaria, sconnessa e stretta, che si perdeva nel fitto del bosco. Al cocchiere sembrò che gli alberi incombessero minacciosi su di lui, quasi chinandosi al passaggio della carrozza: una conseguenza della paura in crescendo per l’avvicinarsi della fine del viaggio.

    Mentre incitava i cavalli a uscire dall’oscurità il più in fretta possibile, continuava a lanciare sguardi furtivi, a destra e sinistra, temendo che il buio stesso si protendesse per ghermirlo. Proseguì per circa un miglio nel buio quasi assoluto, con il sentiero di tanto in tanto rischiarato debolmente dalla luce lunare, accompagnato dal suono accelerato del suo battito cardiaco nelle orecchie. Raggiunta la destinazione, il cocchiere fermò i cavalli dando uno strattone alle redini, proprio al centro di una piccola radura dove una misera e fatiscente fattoria faceva indecorosamente mostra di sé. La vista della costruzione, lugubre e inquietante, rese il cocchiere, se possibile, ancora più agitato. Decise, per il suo stesso bene, di ignorarla e di dedicarsi esclusivamente al suo passeggero. Scese dalla cassetta, con una certa fatica per via degli acciacchi dell’età e dei postumi della sbronza, e si affrettò ad aprire uno scomparto sotto la carrozza, dal quale tirò fuori una morbida coperta in cachemire color porpora, perfettamente ripiegata. La dispiegò e si premurò di disporla sulla fanghiglia dell’aia, per evitare che il suo passeggero, scendendo, rischiasse di sporcarsi. Prima di stendere la scaletta e aprire lo sportello della carrozza, si diede una rassettata all’uniforme, per essere sicuro di avere un aspetto accettabile. Lo sportello si aprì producendo un cigolio così fastidioso che il cocchiere provò il desiderio di sprofondare nel fango per essersi dimenticato di oliarne i cardini. Facendo finta di nulla, porse la mano per aiutare la sua padrona nella discesa, ma quest’ultima non la degnò neppure di uno sguardo. Fece tutto da sola e, una volta poggiati i piedi sulla coperta, con estrema misura nei gesti, proseguì verso la porta d’ingresso, prestando attenzione a non scivolare.

    «Raccogliete il nostro bagaglio e lasciatelo sull’uscio» disse al servitore, voltandosi dopo pochi passi. «Poi prendete la carrozza e tornate alla nostra residenza. Domani mattina tornerete a prenderci, avendo premura di presentarvi al nostro cospetto sicuramente più sobrio di questa sera, e se mai aspirate a una serena vecchiaia sarà meglio che vi dimentichiate di questo nostro viaggio notturno. Ora andate. Siete congedato.» Senza aggiungere altro, Elisabetta i Tudor si voltò, percorse la breve distanza che ancora la separava dalla sua meta e bussò tre volte alla pesante porta di fronte a sé.

    Il cocchiere accennò un inchino frettoloso e si precipitò a chiudere lo sportello, raccolse la coperta senza premurarsi di ripiegarla e conficcandola a forza nella sua custodia, e infine sollevò la scaletta. Nel risalire sulla cassetta quasi inciampò, tanta era l’impazienza che lo spingeva ad allontanarsi da quel luogo, poiché temeva di più l’occupante di quella dimora sinistra che la collera della sua regina.

    Finalmente seduto al suo posto, si segnò con la mano destra mentre con l’altra diede un colpo di redini ai glutei dei due cavalli, indirizzandoli verso la via del ritorno. Segnandosi di nuovo, ringraziò il cielo per essersela cavata così a buon mercato.

    2

    Davanti allo specchio, Alrik Strömvik stava osservando un uomo terribilmente invecchiato, quasi irriconoscibile. Nato a Stoccolma quarantasette anni prima, rappresentava lo stereotipo della razza ariana. Alto, dal fisico possente forgiato da decenni di regolare attività fisica, con i capelli a metà strada tra il biondo e il rame che incorniciavano un viso piuttosto bello e impreziosito da due gemme color acquamarina al posto degli occhi. Si era appena rasato, lavato e asciugato la faccia e ora l’inclemenza degli anni trascorsi era evidente. Osservò le basette ormai abbondantemente spruzzate di bianco, le ampie rughe sulla fronte, ai lati degli occhi e della bocca, così come il principio di alopecia che gli stava liberando le tempie dalla folta capigliatura di un tempo, ma non se ne dispiacque. In fondo, non si trattava di nulla di innaturale e andava bene così.

    Con indosso solo un asciugamano a coprirlo dalla cintola in giù, uscì dal bagno e si diresse verso l’armadio in finto legno laminato, situato al lato sinistro del suo letto. Aprì l’anta destra e a seguire il secondo cassetto, in basso, per valutarne il contenuto; dopo qualche istante di riflessione scelse ciò che avrebbe indossato da lì a poco. Dallo specchio agganciato alla parete interna dell’anta, poteva osservare la sua camera. Era spartana, in linea con la sobrietà della struttura presso cui lavorava, ma tutto sommato decorosa. Non gli servivano chissà quali comodità per stare bene e quell’angolo tutto suo gli permetteva di godere di un po’ di privacy durante i turni di riposo.

    A metà inverno, in quella regione dell’Alaska il clima era estremo e le notti lunghe e monotone. Eppure, mentre tutti i suoi colleghi amavano trascorrere del tempo libero in compagnia, guardando la televisione oppure giocando a scacchi, per combattere le inevitabili crisi depressive dovute alla carenza di serotonina, lui amava isolarsi per leggere, oppure per chattare con sua sorella Christine.

    Lo chiamavano scherzosamente il Ghiro, per via di quel suo rintanarsi in camera non appena finito il turno in sala ricezione. Ma ad Alrik piaceva quel nomignolo. I ghiri, in fondo, erano dei simpatici scoiattoli noti per essere dei dormiglioni oltre la norma. Lui non dormiva molto, non più di quattro o cinque ore per notte, tuttavia considerava il sonno un’estensione della veglia. Spesso, infatti, gli era capitato di addormentarsi con un problema e di risvegliarsi con la soluzione ben chiara e impressa nella mente, e questo, per lui, significava non aver dormito davvero. Alrik sorrise tra sé a quei pensieri inconsueti per uno scienziato, poiché era stato educato fin dalla più tenera età a seguire il proprio istinto e a non dare mai nulla per scontato. La sua prima pubblicazione, postdottorato, verteva proprio sulle strette analogie tra le pratiche di magia e la meccanica quantistica, e come i principi fisici alla base del progresso tecnologico potessero essere considerati idonei, almeno in parte, a chiarire molte manifestazioni apparentemente contro natura. Ciononostante il Vaticano, il suo datore di lavoro, aveva bisogno delle sue competenze più ortodosse, e questo era il motivo per cui prestava servizio al radiotelescopio.

    Dopo essersi asciugato, indossò con calma gli indumenti che aveva preso dall’armadio, si infilò la tuta e gli scarponi da neve, e infine si equipaggiò con il giubbotto tecnico impermeabile e antivento in dotazione a tutto lo staff in servizio. Aprì la porta e uscì dalla stanza, spegnendo la luce. Un vento gelido lo schiaffeggiò causandogli un istantaneo intorpidimento delle guance, ma non se ne curò. Ci era abituato. Guardò in alto e respirò la maestosità del creato in quel cielo notturno privo di nuvole. Immaginò di essere una di quelle stelle che brillavano nel firmamento, lontano da tutto ciò che era conosciuto, e si sentì piccolo e insignificante. Fin da ragazzo amava starsene con il naso all’insù, nelle notti stellate come quella, immaginando il giorno in cui avrebbe svelato, almeno in parte, i misteri del cosmo. Aveva già ottenuto qualche risultato, nessuno lo poteva negare, ma a lui non bastava. Voleva che il suo nome venisse ricordato dalle generazioni future per il suo contributo al progredire della conoscenza. Era la sua ragione di vita.

    Chiuse la porta alle sue spalle e si tirò su la zip del giubbotto fin sotto al mento, poi scese le scale in ferro traforato che collegavano le foresterie di servizio ai piani sottostanti, facendo attenzione a non scivolare sulla neve ghiacciata; camminare su quei gradini era pericoloso e si rischiava di rompersi l’osso del collo oppure una gamba.

    Svedese di nascita, Alrik era abituato al rigore degli inverni più gelidi e in qualche modo amava il freddo quasi fosse un vecchio amico, mal sopportando, al contempo, la calura estiva. Il freddo gli parlava, gli teneva compagnia e lo faceva sentire a casa, ovunque si trovasse nel mondo. Era un compagno silenzioso e fidato, poiché non era in grado di fingere di essere ciò che non era e, in cambio, chiedeva solo un po’ di rispetto.

    Giunto alla porta tagliafuoco della sala di ricezione, si voltò ancora una volta per osservare il paesaggio incontaminato ricoperto di neve. Ovunque, a perdita d’occhio, la foresta circostante era rischiarata dalla luce riflessa della luna. Uno spettacolo mozzafiato. A un tratto gli vennero in mente suo padre e le sue estenuanti lezioni di lingue antiche, e si stupì di quel pensiero intruso e quasi alieno, anche se, in fondo, ne fu contento. La ricerca e gli impegni sul campo lo stavano proiettando senz’altro verso un futuro carico di promesse, ma gli stimoli di cui aveva bisogno risiedevano innegabilmente alle sue spalle, nel passato. Tornare con la mente all’adolescenza, quando poteva ancora godere della saggezza di suo padre, costituiva per Alrik un ritorno alle origini di tutto ciò che nel frattempo era diventato. Grazie a quegli insegnamenti ormai lontani nel tempo aveva compreso che alcune parole, pronunciate al momento giusto, possedevano il potere di penetrare nella mente e nel cuore degli uomini, trasformandoli per sempre. Il silenzio, però, possedeva un potere ancora maggiore…

    Dopo essersi concesso ancora qualche istante per lasciare andare quei pensieri melanconici, Alrik si scosse di dosso la notte, fece un profondo respiro e aprì la porta della sala ricezione. Molto presto, ne era sicuro, sarebbe riuscito a cambiare il mondo. Restava solo da stabilire come questo sarebbe successo.

    3

    I passi di Gabriel riecheggiavano ritmicamente lungo le volte al di sopra della maestosa scalinata in marmo di Carrara. Ottanta gradini, levigati e consunti da un numero infinito di tracce, nel lento scorrere degli ultimi quattro secoli. Passo dopo passo, si ritrovò a riflettere su tutti gli uomini che erano saliti e poi scesi da quella scalinata, agli stati d’animo che li avevano mossi in una direzione piuttosto che l’altra, e alle brucianti passioni che avevano tormentato le loro vite, giungendo alla conclusione che ogni segno visibile su quei gradini potesse raccontare una di quelle storie.

    Quando arrivò al terzo piano, decise di concedersi qualche istante prima di proseguire. Approfittando del riflesso di un vaso in ottone, appoggiato a poca distanza da lui su di una consolle in legno dorato, riccamente scolpita e con il piano in travertino, si specchiò per controllare di essere in ordine. Si passò una mano tra i capelli leggermente brizzolati, folti e lunghi quasi fino alle spalle, per dargli un’ultima pettinata. Una barba non troppo lunga e perfettamente curata, incorniciava il suo volto dalle gradevoli proporzioni e dalla mascella volitiva. Gli occhi, neri come il caffè, erano profondi, sfuggenti e misteriosi. Dopo aver controllato che nessuno potesse vederlo, ne approfittò ancora per aggiustarsi la cravatta in seta color salmone e diede uno sguardo ai mocassini artigianali che calzava. Erano straordinariamente lucidi e puliti, anche troppo per la verità. La perfezione era spesso sintomo di un disagio interiore, di una mania, e non era quella l’impressione che voleva dare ai suoi ospiti. Indossava un completo gessato di alta sartoria, confezionato su misura e di colore nero a righe bianche ravvicinate, insieme a una camicia bianca, perfettamente inamidata, dai bottoni in madreperla. Ai polsi portava dei gemelli composti da due minuscoli orologi automatici con la cassa in oro bianco, dono di sua moglie per il loro primo anniversario di nozze. Non indossava altri segnatempo poiché sapeva sempre come e quando arrivare a destinazione in perfetto orario. In mano reggeva un mazzo di gigli bianchi. Erano la risposta alla chiamata del Sacro Consiglio, meglio conosciuto come il direttivo del Servizio di informazione del Vaticano. Quando il fattorino aveva suonato alla porta della sua camera d’albergo, tre ore prima, per consegnargli un piccolo mazzo di biancospino, Gabriel aveva subito intuito che significato avesse quel gesto.

    «Il dottor Delacroix?» aveva chiesto l’uomo, leggendo ad alta voce il bigliettino che accompagnava il presente che doveva recapitare. «C’è un mazzo di fiori per lei. Non so dirle chi lo mandi, e del resto si tratta di un fiore inconsueto da regalare…»

    Gabriel gli aveva fatto un cenno con la mano per fargli comprendere che non era importante, poi aveva estratto una banconota da cinque euro dalla tasca dei pantaloni e gliel’aveva porta, accompagnandola con un sorriso di circostanza.

    «Oh, grazie…» disse il fattorino, accettandola di buon grado. «Perdoni l’invadenza… lei saprà senz’altro chi è che…»

    Gabriel non aveva potuto fare a meno di sorridere di nuovo.

    «C’è un’antica leggenda a proposito del biancospino» rispose all’uomo fermo sulla porta. «Essa narra, pressappoco, che la Vergine Maria fosse solita stendere il bucato di Gesù Bambino sopra un cespuglio di biancospino. Visto il buon profumo che i fiori donavano ai panni lavati, la Madonna decise di benedire la pianta, che divenne così sacra alla cristianità.»

    Il fattorino era rimasto interdetto dal racconto.

    «Cosa sta cercando di dirmi, dottor Delacroix? Che non è il fiore adatto a un invito galante, essendo sacro?»

    «L’amore non è forse ben più sacro di una semplice pianta? Per quale motivo non sarebbe consono per un messaggio del genere? No, amico mio, sta sbagliando a interpretare il mio gesto. Volevo solo raccontarle una storia. Tutto qui. Non la tratterrò oltre…» e gli aveva porto la mano in segno di congedo. L’uomo l’aveva stretta con poca convinzione, grattandosi la testa con aria confusa, per poi voltarsi e sparire nella penombra del corridoio.

    Dopo aver richiuso la porta, Gabriel aveva contato con calma i fiori. Il loro numero era il vero messaggio che attendeva dal Consiglio.

    Ora, con il mazzo di gigli ben in vista davanti a sé, si trovava davanti a una pesante porta lignea riccamente decorata con motivi geometrici. Ravvivò i fiori, affinché si presentassero al meglio, e poi bussò un paio di volte, rimanendo in attesa con la schiena ben dritta e lo sguardo sicuro.

    Udì un rumore di passi svelti giungere dall’altra parte della porta, e la vide aprirsi pochi istanti dopo, senza alcun rumore. Un prelato dall’aspetto giovanile, in abito talare, fece capolino e lo salutò con evidente deferenza.

    «Benvenuto Nuntius, la stavamo aspettando con impazienza. Il Consiglio è al completo ed è ansioso di cominciare la riunione. Si accomodi, la prego.»

    Gabriel gli porse il mazzo di fiori. Il prelato chinò il capo e lo prese in custodia con delicatezza, per poi farsi da parte.

    Quando mise piede nella sala, Gabriel venne subito raggiunto da un coro di saluti, che contraccambiò.

    «Grazie di essere venuto, Nuntius.» La voce che lo accolse sovrastando le altre proveniva dal più anziano dei sei uomini che erano seduti a un massiccio tavolo in legno di quercia secolare, disposto al centro esatto della sala, cui si aggiunse il prelato. Essere convocati dal Consiglio provocava ogni volta un misto di ansia ed emozione, e Gabriel cercò di immaginare quale fosse il ruolo scelto per lui all’interno dell’ordine del giorno.

    «Dovere, Eminenza» rispose raggiungendo i suoi ospiti per poi protendersi a baciare l’anello mostratogli dal cardinale.

    «Non sia così protocollare. Sappiamo che da tempo ha abbracciato la decisione di non partecipare più in prima linea, per così dire, nelle attività di questa organizzazione. Ciononostante, vedo con estremo piacere che ha deciso di aderire all’invito di questo Consiglio. Posso chiederle il perché? La cosa desta in me viva curiosità e la prego Nuntius, parli pure liberamente.»

    Gabriel tacque qualche istante per guardarsi attorno. La sala, a esclusione del tavolo e delle persone sedute dietro di esso, era completamente vuota. Le pareti, alte quasi quattro metri, terminavano in un soffitto riccamente decorato con scene sacre e immagini votive, attorniate da un turbinio di cumuli paradisiaci. Il pavimento, in splendido marmo rosa, presentava al centro un enorme mosaico con una rappresentazione mariana circondata da un delicato volo di putti in estasi. Alla parete dietro al tavolo vi era appeso un olio su tavola quadrata di circa un metro e mezzo di lunghezza, raffigurante la Torre di Babele.

    «Le piace?» chiese l’alto prelato. «È un’opera originale di…»

    Gabriel lo interruppe, incredulo.

    «Di Pieter Bruegel detto il Vecchio, o almeno così sembrerebbe. È un soggetto inconfondibile, ma stento a credere che possa trattarsi di un originale del Maestro. I dipinti con quel soggetto dovrebbero essere solamente due, entrambi del 1563, uno esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna, e uno al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam. A meno che…»

    «A meno che quest’opera non sia sconosciuta dalla storia dell’arte ufficiale» puntualizzò il cardinale, con aria soddisfatta. «La prego, Nuntius, se ha piacere lo può osservare da vicino e rendersi conto da solo, ne è evidentemente in grado, che si tratta di un’opera assolutamente originale del Maestro e non il manufatto di un suo allievo di bottega né, tanto peggio, di una copia coeva o addirittura più tarda.»

    Gabriel ringraziò con un cenno del capo. Avrebbe voluto conoscere la storia del dipinto ed esaminarlo da vicino, poiché si trattava di un’occasione straordinaria per la quale molti suoi colleghi avrebbero fatto carte false, ma decise di rimandare. Guardò poi gli uomini seduti di fronte a lui. Riconobbe nel suo interlocutore Johannes, lo Ierofante, facente le funzioni misteriche di colui che rivelava le cose sacre, Paulus, il Daduchos, il portatore della sacra fiaccola, Matteus, lo Ierocerice, l’araldo divino, Lucas, l’Assistente del Consiglio, e Petrus, l’Arcanus Maximus.

    Il sesto ospite, seduto un po’ più indietro rispetto al gruppo principale, era il prelato che gli aveva aperto la porta, sicuramente il segretario personale di un membro del Consiglio. Il settimo era un ragazzo di venticinque, trent’anni al massimo, alto, dai capelli biondo cenere e dalla corporatura robusta. Era l’unico del gruppo a vestire in abiti civili, ma, dall’aria e dal portamento, Gabriel ipotizzò si trattasse comunque di un religioso, quasi sicuramente un gesuita.

    Nonostante avesse fatto volontariamente richiesta di non partecipare più come agente operativo, Gabriel non avrebbe mai mancato a una chiamata del Consiglio. Se era stata richiesta la sua presenza significava che era in corso una crisi che necessitava di una soluzione urgente. «È successo qualcosa di grave, non è così?» chiese accomodandosi in una delle poltrone di fronte al tavolo.

    Johannes annuì con aria preoccupata.

    «Infatti, caro Nuntius. Purtroppo ha perfettamente ragione, ma prima che le vengano esposti i motivi della sua convocazione, il fratello Petrus, in qualità di Arcanus Maximus, vorrebbe rivolgerle qualche altra domanda, sempre che non le dispiaccia.»

    Tutti i presenti, compreso Gabriel, si voltarono verso il porporato seduto all’estremità destra del tavolo. Questi era un uomo di oltre sessant’anni, più giovane di Johannes ma certamente di maggiore presenza e autorevolezza, vista la sua posizione al vertice del Consiglio.

    Petrus tossì un paio di volte, poi fece una pausa, chiudendo gli occhi, prima di parlare con voce lenta e profonda.

    «Fratello Nuntius, Gabriel… Innanzitutto le rinnovo i sentiti ringraziamenti per la sua adesione alla chiamata. Come certamente saprà, ero un buon amico di padre Antoine Delacroix, cui lei deve il nome e, soprattutto, parte dell’uomo che è diventato. È proprio in virtù dell’amicizia che mi legava al suo padre adottivo che mi preme essere il portavoce di alcune preoccupazioni in seno a questo Consiglio, affinché lei stesso possa rassicurarci in merito. Senza contare che lei, attualmente, è uno dei pochissimi laici iscritti al Servizio…»

    Gabriel raddrizzò la schiena e si protese verso il suo interlocutore. Petrus agitò le mani invitandolo alla calma, lasciando intendere di avere appena iniziato.

    «Non si allarmi, Gabriel, la prego non è il caso, ma per farla breve non mi dilungherò inutilmente, perciò le chiedo a nome di tutto il Consiglio: la sua decisione di astenersi dal partecipare come agente operativo, è da attribuirsi unicamente al grave lutto che l’ha colpita? Oppure c’è dell’altro?»

    In un istante Gabriel ritornò con la mente a diversi anni prima, quando ricevette la notizia della tragica morte di sua moglie Laura. Il dolore per la perdita non si era mai sopito, tuttavia aveva imparato a conviverci.

    «Il Consiglio vuole sapere se la mia fede nella giustezza della causa è venuta meno? È questo quello che mi state chiedendo?»

    Petrus scosse il capo con veemenza.

    «A questo Consiglio preme ancor più la sua fede nell’Altissimo, e nel Consiglio stesso come sua manifesta volontà su questa Terra» rispose greve. «Anche se, sulla carta, ciò non le è stato mai espressamente richiesto per via del suo status laico. La domanda che le ho posto deriva dalla natura della missione che la vedrebbe coinvolta, qualora lei accettasse l’incarico.»

    Gabriel lo guardò dritto negli occhi, senza alcun timore reverenziale. «Sono stato allevato nel rispetto e nella tolleranza di tutte le manifestazioni di Dio, e questa stessa istituzione riconosce che l’uomo non è la sola creatura senziente fatta a sua immagine e somiglianza. Del resto, la ragione della scienza ha incontrovertibilmente dimostrato che il nostro pianeta non è al centro di nulla, né della galassia né dell’universo che ci accolgono, né, forse, della mente di Dio stesso, ammesso che Dio abbia una mente con qualcosa al suo centro

    Un coro di voci in sottofondo, sottolineò l’ultima frase di Gabriel e il brusio indusse Petrus a battere la mano un paio di volte sul tavolo per portare i fratelli all’ordine e ripristinare il silenzio.

    «Certo la sua educazione è stata multidisciplinare, per così dire, ma suo padre…»

    Gabriel non lo lasciò finire. «Mio padre era un uomo straordinario, di immensa e incrollabile fede, e lo ribadisco per venire incontro alle vostre ansie, ma, al contempo, era un uomo di scienza e in vita sua, per quanto mi è dato sapere, non è trascorso un solo giorno senza che egli abbia utilizzato l’intelletto di cui era dotato.»

    Era chiaro che non amava che si parlasse di padre Antoine in sua presenza, e la passione che lo infervorava ricordandone la memoria non giunse inaspettata all’uditorio. Poi, dopo una breve pausa, si calmò e proseguì.

    «Mi ha insegnato ad avere la mente e il cuore aperti alla verità delle cose, e a fare sempre e comunque la scelta che in cuor mio ritenevo essere giusta, indipendentemente dagli effetti che avrebbe provocato. La morte di mia moglie è un episodio della mia vita di cui non intendo discutere in questa sede, tuttavia posso assicurarvi che le motivazioni alla base della mia decisione sono state di ordine pragmatico e non certo spirituale. Due figlie da allevare e un lavoro di ricerca in ambito accademico penso che siano state ragioni più che sufficienti. Per come ho potuto, ho continuato a servire questo Consiglio al meglio delle mie capacità, capacità che voi stessi mi riconoscete, altrimenti ora non sarei qui, di fronte a voi tutti.»

    Petrus alzò le mani in segno di resa.

    «Fratello Nuntius» intervenne Johannes «in qualità di membro di questo Servizio, lei sarà senz’altro a conoscenza di alcuni dettagli in merito ai progetti del Vaticano volti allo studio del cosmo e dei suoi misteri. È corretto?»

    Gabriel parve sollevato del fatto che l’argomento della conversazione fosse finalmente arrivato al nocciolo. «Certamente, Eminenza. So che il più importante è stato varato circa due decenni or sono allo scopo di verificare, ed eventualmente monitorare, le orbite del pianeta Tyche e della stella Nemesis.»

    «Esatto. Fin dalla metà del secolo scorso la Santa Sede si è premurata di conoscere la verità sull’origine dell’umanità, adeguandosi al disegno divino celato dietro di essa. Il progetto di cui lei ha fatto menzione ha avuto come scopo proprio quello di inviare una sonda, dotata di motore a impulsi elettromagnetici, fino ai margini del sistema solare esterno, ben oltre l’orbita di Plutone. Lo scopo era proprio quello di intercettare e monitorare il presunto avvicinamento dei corpi celesti da lei citati. Ma esistono progetti ancora più avanzati…»

    Gabriel sollevò le sopracciglia e spalancò gli occhi. Pendeva dalle labbra del cardinale, ma cercò di contenersi e non lo interruppe.

    «Ha mai sentito parlare del progetto Lucifero?» attese un segno di diniego da parte del suo ospite e poi proseguì «Riguarda l’invio di un telescopio, il Lucifer appunto, in orbita geostazionaria intorno alla Terra. Grazie al suo potente occhio tecnologico siamo ora in grado di investigare il cosmo con una definizione e una chiarezza impensabili fino a poco tempo fa. Congiuntamente ai dati provenienti dai telescopi spaziali statunitensi SkyHole e Hubble, le trasmissioni provenienti dai nostri messaggeri celesti sono sempre state ricevute ed elaborate dal nostro osservatorio in Arizona, il Vatt. Ma non tutte…»

    «E dove allora, Eminenza? Non certo presso la Specola Vaticana» chiese Gabriel.

    «Ovviamente no. In Alaska, presso una nostra struttura segreta,

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