P Factor - la variabile Parkinson nella mia vita
Di Luca Berti
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Anteprima del libro
P Factor - la variabile Parkinson nella mia vita - Luca Berti
Introduzione
Nella vita di ognuno avvengono cose magnifiche, cose belle, cose meno belle, capitano anche le disgrazie. Fermarsi a riflettere sulle prime sarebbe facile e in linea con quanto ci si aspetta dalla vita, in poche parole ognuno sogna la propria felicità, lo star bene, fare le cose che ci piacciono circondandoci di persone che ci vogliono bene e… se il buon Dio ce lo concede, diciamo appunto che stiamo in grazia di Dio e qualsiasi ulteriore considerazione potrebbe essere scontata o quantomeno evidente. Una situazione bella produce sensazioni belle e tanto altro di positivo.
Se prendessimo un po’ di coraggio e provassimo a guardare invece le cose meno belle della vita incontreremmo subito delle naturali e altrettanto scontate resistenze; soffermarci con il pensiero sulle cose universalmente riconosciute brutte
è un’impresa scomoda. Una cosa brutta è una cosa brutta, che bisogno c’è di provare a salvarla da questo impietoso giudizio?
Ebbene da questo punto della mia vita, cioè da quando ho capito di avere una cosa brutta
, molte cose sono avvenute e hanno cambiato la mia scala di vedere e valutare le cose, le persone, la natura stessa. La luce e la grazia di Dio non sono presenti solo nelle cose belle della vita ma si possono scorgere usando occhi nuovi e attenti anche nelle cose brutte. Mi piacerebbe avere il coraggio di ipotizzare, e poi testimoniare con la vita, che esistono opportunità nuove da vivere parallelamente alla sofferenza.
Le pagine che seguono sono dunque un viaggio. Un viaggio di cui conosco l’inizio ma non la fine. Lo percorro nel tentativo di capire come mettere in ordine le sensazioni e le emozioni che escono dalla mia vita passata e comprendendo anche quanto avviene negli ultimi otto anni trascorsi con uno scomodo e alla lunga spaventoso fardello nel corpo, il morbo di Parkinson. Tra le parole e i pensieri un po’ disordinati ci sono io, quello che ero e che sono, quella parte di me che ho lasciato e quella parte di me che ho trovato.
La tazza di thé
Era tanto tempo che ci stavo pensando, più o meno il tempo di una vita, diciamo una buona trentina di anni dopo gli anni della maturità. Insomma arrivato ai quarantotto il pensiero ha preso forma, si è addensato in una idea e quello che era prima solo un fumetto sospeso a mezz’aria incapace di salire o di scendere si è concretizzato in una azione, semplice, chiara, improvvisa come le scelte che vengono da dentro.
In effetti in gioventù l’idea di scrivere era passata e ripassata più volte tra i progetti che avrei voluto realizzare quasi che scrivere un racconto o un romanzo fosse un tassello piacevole e quasi necessario da appendere al muro e poter poi afferrarlo per tirarsi su e scalare, salire, un appoggio per elevare il mio punto di vista sulle situazioni, sulle fantasie di ragazzo, uno sguardo più alto sulla vita. Non avrei mai pensato invece che mi trovassi a scrivere qualcosa utilizzando la prima persona, qualcosa di mio e solo mio, qualcosa che provasse a interpretare e a portare alla luce sensazioni e situazioni che provengono da dentro il mio corpo e ancora di più, da dentro la mia testa. L’utilizzo dei pronomi io
e me
sarebbero diventati necessari e indispensabili per raccontare la mia storia: una storia che ha fortunatamente poco in comune e molto di diverso dalle persone che mi circondano; una storia che ha anche molto di diverso dal me attuale; mi stupisco a pensare quanta distanza ci sia infatti dal me che conoscevo e che ho lottato per realizzare, forse anche dal me in cui credevo e al quale mi ero affezionato, rispetto al me di oggi. Quella recente sembra quasi una storia che non mi appartiene o non avrebbe dovuto appartenermi.
Sono in terrazza sotto la tettoia seduto davanti al computer portatile e ad una tazza di thé; ho deciso di prendermi un momento per fare quello che mi piace. Una pausa dalle faccende quotidiane nella casa che oggi, in questo pomeriggio tardo autunnale, è deserta. Sono tutti fuori mia moglie ed i miei figli, ognuno con le proprie incombenze dietro a mille impegni, chi per lavoro e chi per studio. Solo io ed il gatto sembriamo rimanere esenti da questa legge del fare e ci stiamo predisponendo ad un momento di relax approfittando dell’ultima luce del sole che è già basso sul tetto delle case; il disco giallo arancio si sta sciogliendo nell’aria pesante un po’ grigia del tramonto. Gli occhi del felino mi fissano per qualche istante per poi iniziare a stirarsi allungando le lunghe zampe sulle mattonelle; è un gatto striato grigio e nero con la pancia quasi bianca sfumata di arancione, un gattone silenzioso che condivide la nostra vita familiare quasi completamente, almeno quella che si svolge tra le mura domestiche. Adesso è immobile sulla schiena con le zampe posteriori tese mostrando il morbido pelo del ventre, sembra apprezzare il caldo contatto con il pavimento; guarda il cielo con una smorfia di sbadiglio che gli piega indietro i baffi. Probabilmente è convinto di fare la cosa migliore per lui in quel preciso istante. Lo ammiro: ammetto di utilizzare spesso il contributo che infonde questa presenza animale sul mio umore. Un contributo fatto di affetto e tenerezza, talvolta con punte di energia aggressiva e all’opposto molte ore di calma ordinata; soprattutto ammiro la sua calma immobile quando sta dritto dietro la finestra a guardare fuori oppure si acciambella nascondendo il musetto tra la coda ripiegata in avanti. Quando mi sento con la testa confusa oppure con i pensieri in agitazione mi serve avere a portata di mano una vita semplice e più sana di me da contemplare e, forse inconsapevolmente, chiederle di aiutarmi.
Il thé si sta raffreddando, un pennacchietto di fumo si solleva dalla tazza appoggiata sul tavolino e subito svanisce portato via da una folata di brezza; ne sento il profumo leggermente affumicato, è pronto.
Stendo il braccio lentamente e stringo la tazza che inizia ad oscillare oltre al limite consentito versando un’onda di thé sul tavolo. Mollo tutto facendo sbattere la tazza sul piano del tavolo, bagnato; per un attimo prevale la paura di non farcela, quella brutta sensazione negativa che mi tartassa da quando il P-Factor ha occupato la mia vita. Con la coda dell’occhio guardo il gatto che sembra non essersi accorto di nulla, accucciato vicino a me non mi guarda quasi volutamente, forse lui si fida che io possa farcela; ma si, deve aver ragione lui, posso farcela, riprovo. Faccio un respiro e scarico la tensione del collo e del braccio, afferro rapidamente la tazza e la riporto alla bocca.
Il thé è un rito di rilassamento che va pianificato con cura; l’ho imparato tardi come ho imparato tardi tante altre cose ma questo mi consente di godermelo ancora di più e insieme al thé di godermi di più anche queste tante altre cose. Passo la tazza da una mano all’altra per sfruttare quei pochi secondi di stabilità concessa a ciascuna; sfidare il proprio corpo a fare quello che vuoi comporta uno sforzo di concentrazione insieme ad una dose di grande pazienza, essere pronti al fallimento è la prassi. Si, non è particolarmente complicato ma altamente faticoso.
Tra le altre cose che ho imparato, dunque, c’è l’aver scoperto da poco che i viaggi lunghi e faticosi si fanno in compagnia. Proverò a rimuovere gli istinti che mi tengono frenato e a liberare sulla tastiera quello che sento in modo rarefatto, appena percettibile, per lo più confuso; se me lo ricordo significa che esiste. Lo vivo nel corpo e sta nello spirito. Appoggio le mani sulla tastiera, tremanti, con le dita disobbedienti, e inizio.
Anche un gatto diventa una risorsa utile al quinto piano di un condominio di una città caotica; da divoratore di croccantini a stimolo prezioso, inconsapevole animale dal quale accolgo sereno una morbida carezza pelosa.
La danza degli storni
La mia vita, come la vita di tutti quanti, è fatta di doveri e di piaceri. Sono stato contento che sia il dovere che il piacere si siano concretizzati per me in un ruolo meraviglioso e complesso che è quello del marito e del padre di famiglia.
Mi ricordo in modo chiaro il desiderio che ho sentito quando avevo venti anni di prendere la direzione di costruire la mia famiglia. Un po’ per ricerca di autonomia, un po’ per un ceco istinto, molto perché ero innamorato. Ovviamente non avevo idea di cosa avrebbe comportato nel tempo e neanche dove mi avrebbe portato. Il desiderio di famiglia c’era ed era sicuramente molto precoce: ero poco più che un ragazzo, entusiasta e curioso verso tutto o quasi. Lo sentivo scaturire dall’amore verso la mia fidanzata che, nonostante le difficoltà della relazione con un me molto diverso da lei, ha saputo nutrirsi ad un amore puro e coraggioso che ci ha poi sostenuto sempre. Insieme abbiamo portato avanti tante battaglie per sostenere il nostro credo e i nostri ideali, nel lavoro e nelle relazioni; la stessa energia era indirizzata verso tutti i problemi quotidiani della nostra coppia. Ogni giorno abbiamo avuto modo di confrontarci in modo costruttivo adattando, picchiettando e cesellando nel tempo un rapporto complesso ma funzionale e devo riconoscere soprattutto molto appagante.
E’ passato tanto tempo da quella sera tiepida. L’estate romana non era ancora terminata ed uscivamo con la moto per poi lasciarla e passeggiare al centro, da Piazza Venezia a Fontana di Trevi, o poco di più. Ci godevamo il primo fresco del tramonto, mano per mano facendoci largo tra i turisti; i portoni chiusi delle vecchie case si alternavano lentamente agli scorci di cielo tra una chiesetta ed un bar; colonne annerite dimenticate da duemila anni che rimanevano incastonate allo sguardo tra un muro in mattoni e un blocco di travertino; il frastuono delle automobili lascia intendere che questi vicoli abbiano avuto sempre un gran traffico di carri e carrozzelle che nei secoli hanno intessuto lentamente storie forse di sacrifici e fatica; al momento c’eravamo invece noi che camminavamo sul selciato di sanpietrini, ignari dei secoli alle nostre spalle e tutti concentrati sul nostro presente; non ci stancavamo mai di parlare, di raccontarci le giornate, e ogni scusa era buona per provare a scoprire nell’altro una parola o un sorriso che denunciasse in modo chiaro i nostri reciproci sentimenti.
Non avevamo fretta di conoscerci ma era inevitabile rimanere incantati a parlare; freschi di scuola si dissertava dai sommi sistemi del pensiero