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La Maestrina degli Operai
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E-book110 pagine1 ora

La Maestrina degli Operai

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Info su questo ebook

La giovane maestra Varetti si trova a dover fare da insegnante a operai della periferia torinese. Lei, di nobile famiglia, si trova così di fronte ad un'umanità che non le appartiene. Un romanzo che ci presenta un De Amici diverso da quello più noto del libro Cuore. Da scoprire.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2019
ISBN9788832551143
La Maestrina degli Operai

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    La Maestrina degli Operai - Edmondo De Amicis

    LA MAESTRINA DEGLI OPERAI

    Edmondo De Amicis

    Indice

    Nota sulla scuola italiana e sul testo del De Amicis

    La maestrina degli Operai

    ANNOTAZIONE INIZIALE

    Le tre più importanti opere di Edmondo De Amicis sulla scuola sono state realizzate tra il 1886 e il 1895. Cuore, il testo decisamente più noto, è pubblicato nel 1886, Il romanzo di un maestro esce nel 1890 ma èrealizzato contestualmente al primo e La maestrina degli operai è del 1895. Questi tre libri vedono la lucce in un decennio fondamentale della vita dello scrittore. E’ il periodo in cui matura progressivamente una visione socialista.

    Edmondo De Amicis si avvicina agli ideali socialisti alla fine degli anni ottanta e bisognerà aspettare il 1896 per vederlo formulare la piena adesione, subito dopo la pubblicazione de La maestrina degli operai.

    Se in Cuore l’elemento nazionale è preponderante o almeno alla pari con la questione sociale, negli scritti successivi la vicenda politica diventa centrale.

    Si farebbe un torto al De Amicis se non si tenesse a mente la sua evoluzione di pensiero e convinzione verso il socialismo, una visione del mondo e dell’Italia che tende a portare sempre più nella sua opera letteraria. Se la figura dell’intellettuale militante si sposa con periodi più recenti della cultura italiana, è dal Risorgimento italiano che l’esercizio intellettuale viene calato nel contesto storico e politico: prima per la conquista dell’Unità nazionale e poi per il crescente conflitto di classe che aumenta al crescere dell’industrializzazione del nostro paese.

    La scuola a quel tempo si fondata su due norme fondamentali:  la legge Casati del 1859 e la legge Coppino del 1877. La prima è in verità pre-unitaria, viene infatti istituita in Piemonte alla vigilia della seconda guerra d’Indipendenza. Con l’unità d’Italia la cosiddetta legge Casati (in verità si tratta di un regio decreto) diviene la base della scuola unitaria.

    Per questa particolare concatenazione di date, la legge Coppino ha l’onore di essere il primo provvedimento scolastico organico del neonato Regno d’Italia.

    La legge Casati prevede un sistema di istruzione articolato su due bienni di elementari e poi le scuole superiori o tecniche. L’elemento di innovazione più importante è che introduce l’obbligo scolastico di due anni. Tale previsione normativa, seppur applicata a macchia di leopardo, ha comunque il merito di inserire il principio dell’obbligo scolastico.

    Tale obbligo viene ribadito dalla legge Coppino. Questa legge porta a cinque gli anni di scuola elementare e aumenta l’obbligo scolastico a tre anni. Non solo, viene anche sancito che l’istruzione pubblica deve essere gratuita. I costi dell’istruzione, in un contesto nel quale ancora non è previsto un ordinamento fiscale generale, vengono addebitati ai comuni.

    Si genera così subito una situazione di disparità attuativa, con comuni virtuosi e ricchi in grado di sostenere l’istruzione obbligatoria e comuni poveri sostanzialmente inattivi, che aumenterà il gap tra territori italiani.

    Sarebbe riduttivo però attribuire solamente alle responsabilità dei singoli comuni il limite attuativo dell’obbligo scolastico. L’Italia manifestava, con rare eccezioni nel nord Italia, un ritardo di industrializzazione; nei campi la presenza dei bambini veniva richiesta già nei primissimi anni di vita, così l’obbligo scolastico veniva vissuto come sottrazione di risorse all’economia familiare, spesso precaria.

    Non è un caso che nello stesso anno in cui viene approvata la legge Coppino venga istituita la prima indagine sul lavoro minorile in agricoltura. Il fenomeno, duro a morire, perdurerà per parecchi decenni ancora nel nostro paese.

    Questo aspetto viene sottolineato ripetutamente nei racconti di De Amicis, così come viene evidenziata l’esigenza, soprattutto rispetto all’industrializzazione emergente, di alfabetizzare le masse.

    La questione dell’alfabetizzazione della popolazione è considerata dal movimento operaio e socialista italiano come prioritaria, tanto che nella simbologia politica italiana alla falce e martello viene sovente affiancata l’immagine del libro aperto. Tale immagine verrà tenuta nei simboli socialisti italiani almeno fino a metà degli anni ottanta del novecento.

    Gli effetti delle riforme citate sarà parziale ma comunque positivo e aprirà la strada all’alfabetizzazione di massa.

    La versione qui proposta de La maestrina degli Operai proviene da Wikisource che è una biblioteca digitale libera, multilingue, interamente gestita da volontari, ed ha l’obiettivo di mettere a disposizione di tutti il maggior numero possibile di libri e testi in lingua italiana. Scopo di Wikisource è offrire al lettore gratuitamente testi liberi da diritti d’autore. Come espresso dalla stessa wikisource: potete fare quel che volete con i nostri ebook: copiarli, distribuirli, persino modificarli o venderli, a patto che rispettiate le clausole della licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 3.0

    Il testo sorgente è stato riformattato, sono stati corretti piccoli refusi e riadattato nella disposizione testuale con un’attenzione particolare alle esigenze di lettura digitale. Le immagini e le note che accompagnano la lettura sono invece originali ma nello stesso spirito di divulgazione di Wikisource, se ne acconsente l’uso secondo la licenza CC BY-SA 3.0.

    LA MAESTRINA DEGLI OPERAI

    I.

    Una delle più belle scuole suburbane di Torino, che son tutte nuove e di bell’aspetto, è quella del piccolo sobborgo di Sant’Antonio, posto un miglio fuor di porta e abitato in gran parte da contadini e da operai di due grandi fabbriche di ferramenti e di acido solforico, che lo riempion di rumore e lo copron di fumo. Il sobborgo è formato da una sola strada diritta, fiancheggiata di piccole case e d’orticelli, dalla quale si spicca un largo viale, che corre nella campagna aperta: in fondo a questo v’è la chiesa, solitaria, e dall’un dei lati, sul confine d’un campo, la scuola. L’edifizio, piccolo e grazioso, ha cinque stanzoni al pian terreno, per le cinque classi elementari, e due camerette per il cantoniere e sua moglie che servon da bidelli, e al pian di sopra i quartierini per le quattro maestre e un maestro, che hanno ciascuno due camerette e una cucina. Agli insegnanti appartengono cinque orti minuscoli, chiusi nel muro di cinta del cortile, e coltivati dal bidello, che tien per sè i legumi e dà al primo piano le fragole e i fiori. Questa piccola famiglia scolastica, non visitata che rare volte dall’ispettore di Torino, se ne vive là come in una villetta, tranquilla e libera; senonchè le delizie della villeggiatura le sono molto scemate da quattro mesi di freddo e di nebbia, durante i quali il luogo è uggioso e la solitudine triste.

    Era appunto una giornata grigia e cruda della fin di novembre, e la giovine maestra Varetti stava guardando con maggior tristezza del solito, dalla finestra della sua cameretta, i tetti bassi del sobborgo, al di sopra dei quali fumavano i camini altissimi delle officine, e la vasta pianura coperta di neve, chiusa lontano dalle Alpi bianche, velate dalla nebbia. L’uggia della stagione e del luogo le era accresciuta dal pensiero molesto di dover incominciare il giorno dopo la scuola serale degli adulti a cui l’aveva destinata la Direzione delle scuole di Torino, essendosi fatta dispensare da quell’ufficio, dopo un mese e mezzo di lezioni, la moglie del maestro Garallo, per indebolimento improvviso della vista. Ella non sarebbe stata così inquieta se avesse dovuto far quella scuola in un altro villaggio qualsiasi; ma le davan pensiero quei contadini del suburbio, guasti dalla vicinanza della città, dove andavano a passar la domenica, e donde ogni giorno di festa veniva là uno sciame di barabba a giocare e a straviziar nelle osterie, triplicate di numero dopo che v’era il tranvai; la intimidivano anche di più gli operai, meno rispettosi dei contadini e meno maneggevoli, fra i quali si diceva che ci fossero dei socialisti; e più ancora che gli uomini fatti, tutti quei ragazzi tra i dieci e i sedici anni, ch’essa vedeva uscire a frotte dalie fabbriche, maneschi, sboccati, insolenti e, a quel che le dicevano, più sfrontatamente corrotti e viziosi dei grandi. Ma ia sua inquietudine derivava pure da ragioni particolari della sua natura e della sua vita. Figliuola d’un maggiore di fanteria, di famiglia nobile, morto alla battaglia di Custoza, vissuta fino a diciott’anni in un collegio severo di provincia, timida e gentile di natura, aveva avuto fin da bambina una specie di terrore fantastico della plebe, effetto d’una malattia grave, che le era nata da una violenta commozione di spavento, per aver visto dalla finestra di casa sua una rissa sanguinosa d’operai minatori. Essa credeva assai più numerosa, e anche più malvagia che non sia, quella parte infima del popolo che vive in uno stato di ribellione perpetua a tutte le leggi sociali, e che dà la maggior folla alle

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