Il sapore del vino e altri racconti
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Info su questo ebook
La raccolta è composta da undici racconti, dieci che esplorano il tema delle relazioni affettive e uno basato sulla mancanza di relazioni che porta alla follia.
Varie le tipologie di rapporto e diverse tonalità emotive: “Il sapore del vino” e “Via Fabio Filzi, Catania” raccontano storie di amori del passato, di quelli che restano nell’anima e nel ricordo per tutta la vita.
“Due numeri” e “Una questione di immagine” parlano di coppie in crisi: il primo dal punto di vista femminile, il secondo imperniato sulla violenza di genere in un rapporto matrimoniale.
“Lui e lei” presenta un innamoramento ai tempi del web: i due protagonisti espongono, ciascuno dal proprio punto di vista, la conoscenza attraverso una chat, il loro coinvolgimento improvviso e violento e lo svanire della relazione, bruciata dalla concretezza della vita quotidiana.
Anche “Bambini” ha un doppio punto di vista: quello del piccolo Mattia, affascinato da una bambina rom per cui scappa al controllo materno, e quello della madre, Margherita, alle prese con le difficoltà della maternità.
“Black out è ambientato durante la Notte Bianca di Roma e il grande black out del 2003; l’evento e l’incidente casuale diventano motivo di consapevolezza per Erica, neomamma in deficit di sonno; per Adriano, stanato dal suo distacco dalla realtà dalla paralisi degli elettrodomestici; per Francesca, che nel buio incontra un uomo.
“IL paziente invisibile”, “La terra desolata”, “La croce”, raccontano altri generi di rapporti affettivi: il primo l’amore da transfert di una donna per il suo analista; il secondo l’amore per la vita di due malati di cancro in un mondo distopico; il terzo la ricerca del padre scomparso da parte della protagonista.
Il ritiro autistico che porta la protagonista a mangiare ossessivamente cose non commestibili è narrato in de “Il mio gusto”, storia dello sviluppo di una patologia psichica, dall’esordio al ricovero coatto.
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Anteprima del libro
Il sapore del vino e altri racconti - Roberta Andres
Cover
Il mio gusto
È cominciato quando ho smesso di bere latte.
Non avevo ancora due anni e mia madre mi trovò seduta per terra nel bagno di servizio, vicino al fustino del detersivo; col bicchierino attingevo polvere bianca e la mettevo in bocca.
Ricordo la consistenza diversa dei granuli azzurrini dispersi nella polvere bianca più sottile: raspavano sulla lingua; anche il sapore era diverso: più aspro di quello dolciastro del resto del composto. Erano il boccone raro e prelibato, l’uvetta nel ciambellone, la goccia di cioccolato nel biscotto. Non ricordo quella prima volta, ovviamente, lo ricordo perché ho continuato a farlo per anni, anche quando avevo ormai sperimentato una gamma di nuovi sapori; andare di nascosto a cercare il detersivo nel bagno era tornare all’infanzia e a quella nascita di un gusto veramente mio.
Il fustino era nell’angolo dietro la lavatrice, il bagno era cieco, senza finestre; questo rendeva ancora più bello sedersi e assaggiare la polvere. Rannicchiata in quell’angolo, vedevo il rettangolo di vetro smerigliato circondato dalla cornice di legno della porta, il profilo squadrato della lavatrice, il cesto dei panni sporchi. Mia madre passava nel corridoio ma non mi scorgeva, il buio amplificava il sapore asprigno del detersivo e il contatto ruvido dei granuli azzurri sulla lingua, che sporgeva tra le labbra a cercare piano; sentivo più forte anche l’odore di sapone perché arrivava al naso, che era tra la bocca aperta e gli occhi chiusi. Lo facevo adagio, con circospezione, non per paura, ma perché volevo godermeli tutti; i granelli si appiccicavano alle labbra umide, alla parte interna delle mucose, formavano una patina bianca nella mia bocca.
Sporgevo la lingua e leccavo dal bicchiere, raccoglievo granelli sulla punta, la piegavo all’indentro come i cani quando mettono acqua in bocca per la sete; continuavo finché potevo.
Qualche volta, soprattutto quando ero molto piccola, mi lasciavo prendere dalla foga di riempirmi e muovevo dentro e fuori la lingua troppo velocemente, fino a respirare di colpo e riempirmi la gola con troppa polvere sottile.
Crescendo ho imparato a dosare i movimenti: è un piacere che va assaporato con calma, la lingua deve sporgersi quel tanto che basta per prendere il nutrimento e portarlo dentro, le labbra fanno da imbuto sensibile ai sapori che esploderanno nella bocca, la cavità non va riempita del tutto, la gola deve poter respirare e ingoiare. È un’arte sottile: tempo, lentezza, piacere, nutrimento!
Non so perché nessuno lo ha mai capito, a cominciare da mia madre; la prima volta che mi trovò seduta nell’angolo dietro la lavatrice, vicino al fustino, che prendevo col bicchierino dosatore la polvere magica, cominciò a gridare come una forsennata, togliendomelo dalle mani.
Era arrabbiata, la mamma, perché non bevevo più il latte e rifiutavo molti dei cibi che lei mi offriva, volevo invece questi che lei mi negava. Era così arrabbiata che nascose tutti i detersivi e i saponi.
La nostra casa cominciò a riempirsi di serrature, lucchetti, sicure per gli sportelli. All’inizio bastava; quando sono cresciuta ho imparato a forzarli, ho trovato le chiavi nascoste, ho sciolto nodi complicati.
Da un giorno all’altro, però, era venuto meno il cibo di cui avevo voglia e bisogno. Così cominciai ad assaggiare tutto quello che mia madre non riusciva a togliermi: la terra ai giardini, più buona quando aveva piovuto; i muri di casa, soprattutto quelli esterni, ruvidi, che mi graffiavano la lingua; la polvere che cercavo dietro le porte o sotto i letti quando lei non aveva il tempo di pulire.
Per questo cominciarono a sorvegliarmi: avevo sempre qualcuno intorno, occhi vigili notte e giorno, che non dormivano mai, occhi immortali e onnipresenti, che sapevano dove io potevo cercare, leccare, ingoiare. Con la luce e con le tenebre, in ogni tempo e spazio, quando sono cresciuta e sono passata dagli oggetti ai corpi, leccati, bevuti, assaporati.
Così ora sono in questa stanza dove non ci sono sapori interessanti; i muri sono dolci, non c’è polvere, persino le sbarre alla finestra sanno di disgustosa bontà. Se avessi le scarpe potrei leccare le suole, ma ho con me solo indumenti morbidi, privi di sapore.
Aspetto con pazienza, esercitando la lingua a uscire piano dalla bocca, a restare appuntita, a raccogliere e tornare indietro portando cibo, la lingua che struscerò contro la lama del rasoio con cui mi tagliano i capelli. La lingua dovrà essere lenta come la mano è veloce, dovrà fermarla, quella mano, e lasciare che la lama la morda. Il sangue ne colerà, riempiendo di sapore la mia bocca.
Il paziente invisibile
«Pochi secondi e sono da lei», disse il dottor B. socchiudendo la porta della sala d’attesa, mentre la donna si sedeva sulla poltrona di fronte alla libreria.
Il silenzio ovattato scivolava sulla stanza in fondo al corridoio, interrotto soltanto dal rumore soffocato delle porte che il dottor B. chiudeva dietro di sé tornando dal paziente precedente.
Ogni volta che entrava nell’appartamento la donna sbirciava dietro la porta a vetri, cercando di intuire chi ci fosse dall’altra parte.
Era un attimo; si incamminava subito verso il corridoio accompagnata dai passi gentili del dottore, chiedendosi se dall’interno della stanza si fossero sentiti il suo saluto e il rumore dei suoi tacchi sul pavimento; ogni volta era in dubbio se calcare rumorosamente per farsi sentire o procedere leggera per rispettare il silenzio.
Quella sera, per la prima volta, il dottor B. aveva chiuso anche la porta della sala d’attesa. Si sentì sola al cospetto di quella superficie marrone laccata; alzò lo sguardo alla libreria di fronte alla poltrona dove si era accomodata; i libri erano tutti lì, ordinati come sempre, neanche uno aveva cambiato posizione.
Forse li spostava solo lei quando, per far trascorrere i minuti prima della seduta, ne prendeva in mano qualcuno, cercando di combattere l’ansia che la attanagliava. Li rimetteva però sempre nello stesso identico posto in cui li aveva trovati, come aveva promesso al dottore in uno dei primi appuntamenti, quando gli aveva chiesto il permesso di sfogliarli durante l’attesa. Forse anche gli altri pazienti facevano la stessa cosa: li prendevano, li sfogliavano, leggiucchiavano qua e là alcune pagine, poi li riponevano con estrema cura, rispettando l’ordine, il verso, la copertina.
Una sua amica, che a sua volta era stata paziente del dottor B., le aveva confessato di averne rubato uno: l’aveva infilato nella borsa e se l’era portato via dopo la seduta, per la rabbia di aver aspettato troppo.
Quella sera dovevano esserci dei problemi, perché l’attesa si stava protraendo più del solito; la donna si sistemò sulla poltrona, spingendosi contro lo schienale e poggiando gli avambracci sui braccioli rivestiti di velluto. Chiuse gli occhi e cominciò a respirare lentamente, per calmare l’ansia, quel giorno mista a inquietudine e rabbia.
Temeva che il dottor B. fosse in pericolo, o, peggio, che avesse voluto tenerla lontana da quel pomeriggio di lavoro.
Per un attimo le balenò l’idea di aprire le porte, percorrere in silenzio il corridoio e andare a origliare, o, addirittura, varcare la porta d’ingresso, ma temeva di capitare proprio nell’istante in cui il dottore sarebbe uscito dalla stanza per accompagnare all’uscita il paziente precedente; incontrarli faccia a faccia e causargli un problema o morire lei stessa di imbarazzo.
Fuori il cielo si oscurava; non voleva sapere che ora fosse, perciò chiuse gli occhi e si concentrò sul proprio respiro regolare.
«Mio dio, mi sono addormentata, non mi era mai successo», mormorò fra sé.
Frastornata, si alzò dalla