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L'effetto domino
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E-book297 pagine4 ore

L'effetto domino

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Info su questo ebook

L’Effetto domino è una bellissima storia di cambiamento personale, di apertura verso nuove visioni del mondo, visioni che contemplano il perdono, il liberarsi da quei pesi e quei mattoni interiori che a volte portiamo con noi anche tutta la vita. L’effetto domino è un libro liberante. I protagonisti, Amelia e Giacomo, due professionisti quarantenni, vivono su binari già tracciati. Sarà l’incontro e l’intrecciarsi delle loro strade, dei loro cammini, a determinare il loro “effetto domino”: quando le pedine delle loro vite così ordinatamente organizzate al fine di difendersi da cambiamenti, per non abbandonare dogmi e schemi rassicuranti, cadranno ad una ad una. Così, affrontate le loro “cose in sospeso”, saranno liberi di affrontare e intraprendere un cammino diverso, vero, contraddistinto dall’Amore, un Amore totale, catartico, che si compie nella riconciliazione e nell’incontro con Dio.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2013
ISBN9788898473229
L'effetto domino

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    Anteprima del libro

    L'effetto domino - Raffaella Verga

    Prologo

    Erano ormai troppe sere che lei rientrava sempre più tardi e ubriaca.

    Arrivava barcollando con quel sorrisetto stupido stampato sulla faccia, le guance rosse, il rossetto sbavato, il rimmel che le colava lungo le guance perché, nonostante il sorrisetto beffardo, ogni volta, ogni santissima volta, lei tornava piangendo.

    La sentiva dal letto, sentiva quei tentativi ripetuti di centrare la serratura, le chiavi che sbattevano contro il legno dello stipite, che tornavano a sbattere contro l’acciaio del nottolino, che tornavano a sbattere contro il legno, che tornavano a sbattere contro l’acciaio del nottolino, che tornavano a sbattere… e così per cinque, interminabili, minuti.

    Dopodiché, ogni volta, ogni santa volta, lui scostava il lembo del lenzuolo e le poche coperte che metteva sul letto di quello stupido autunno, e, sbuffando si trascinava a piedi scalzi verso la porta d’ingresso. Trascinava i piedi scalzi sul linoleum del pavimento, trascinava e sbuffava, sapendo già quale scena si sarebbe trovato davanti agli occhi.

    E ogni volta, ogni santissima volta, la bambina sentiva tutto quel trambusto e si metteva a piangere a dirotto e lui, diviso fra andare verso la porta e correre dalla sua piccola, lui restava come bloccato per qualche istante, con la testa bassa, le mani fra gli spessi capelli neri, folti, mossi e leggermente spruzzati, alle tempie, da qualche filo grigio.

    Aveva pianto, anche, le prime volte, ora si era ritrovato a reagire come una sorta di automa che si muove a comando, era diventato come insensibile al dolore e non aveva nemmeno il tempo di chiedersi il perché.

    Doveva lavorare, badare alla bambina, badare alla casa: fare le macchinate, preparare da mangiare, pulire per terra, cambiare i letti, trovare ancora la forza di giocare con la piccola e di sorridere, anche.

    Doveva lavorare, in fabbrica, lui lavorava in fabbrica, sì, e si era anche sentito rimproverare di essere un uomo di poco valore, lui, perché lavorava in fabbrica e non le permetteva di vivere come molte delle sue nuove amiche, non portava bei vestiti e spesso aveva le mani sporche, lui. Già, si era sentito dire anche questo.

    Ormai, però, lui non sentiva più nulla, più lei beveva e più era come se lui assorbisse parte di quell’alcool che girava fra le vene di sua moglie e ne venisse come anestetizzato. Non sentiva più nulla, lui. Andava avanti e basta. Pensava alla bambina e andava avanti, e basta.

    Ogni tanto, nel letto matrimoniale sempre mezzo vuoto, si chiedeva come era iniziato tutto questo incubo, e sempre, ogni volta, ogni santissima volta, non riusciva ad afferrare il vero inizio, gli scivolava sempre davanti senza riuscire veramente ad afferrarlo.

    E la rabbia gli montava feroce e furente.

    La sentiva dentro, dentro lo stomaco che rodeva e rodeva e rodeva. Come un pugno di ferro con gli aculei che gira lentamente nello stomaco, lentamente, ma con  potenza per penetrare meglio, più a fondo. La rabbia la sentiva così.

    Si girava e rigirava nel letto per ore, convinto di riuscire a fregarsene di lei, di quella stronza che ancora una volta era uscita nel pomeriggio e non era ancora rientrata, di quella stronza che ogni volta, ogni santissima volta, diceva che sarebbe stata l’ultima e invece non era mai così.

    Si girava e rigirava nel letto convinto di riuscire a fregarsene della stronza e dormire, finalmente, dormire un sonno pieno e ristoratore dopo due mesi di questa agonia, di questo continuo chiedere alla sua testa una spiegazione, da solo, nel letto matrimoniale semi deserto, dopo due mesi di attesa; attesa del suo ritorno, sempre più tardi la notte, nella speranza di poter finalmente affrontare un confronto maturo e risolutore, nell’attesa di rivedere il suo volto, che gli mancava, nonostante tutto.

    Com’era possibile? Com’era potuto capitare proprio a lui, a loro? Perché?

    Il medico gli aveva detto: Depressione post partum, capita, sa, la assecondi, la assecondi… e aveva tagliato corto. Lui l’aveva assecondata, lei voleva nuovi stimoli, nuove conoscenze, basta con quel piccolo paesino brianzolo squallido e sfigato. Ecco, il termine sfigato era diventato il suo preferito, tutto era diventato sfigato: la casa, gli amici, la macchina, lui stesso. Lui, con il suo lavoro sfigato e la sua aria da sfigato.

    Voleva trascorre le sue serate a Milano, senza considerare che la mattina lui si alzava alle cinque e trenta. Lei a queste osservazioni rispondeva con un’alzata di spalle e con quell’espressione che lui, ormai, conosceva fin troppo bene, quell’espressione che significava: sei uno sfigato!

    Trascinò i piedi scalzi sul linoleum del pavimento fino alla porta d’ingresso, la bambina iniziò a piangere a dirotto, lui si bloccò un istante con le mani fra i capelli reprimendo l’istinto di lasciarla fuori, lasciarla definitivamente fuori dalle loro vite, girarsi e correre verso la camera della sua piccola Amelia.

    Ma non lo fece, rimase un istante con le mani fra i capelli a stringere forte la nuca come per fermare un dolore interno, e poi si mosse e allungò la mano verso la maniglia della porta, la abbassò e attese che lei scivolasse dentro.

    Ops…, fece lei inciampandosi nello zoccolino d’entrata.

    E scoppiò a ridere. Questa volta non aveva nemmeno pianto, non aveva il rimmel che colava come le altre sere lungo le guance, era solo ubriaca marcia.

    Lui si girò di scatto lasciandole l’ingresso completamente a disposizione e si avviò verso la camera di Amelia.

    Dove vai? È mai possibile che sei sempre stanco?, gli urlò dietro con tono acido ed ironico contemporaneamente.

    Solo lei sa ferire in questo modo, pensò lui senza voltarsi nemmeno.

    Allora?, continuò a urlare senza rendersi conto che erano le tre di notte.

    Francesco prese fra le braccia la piccola, tirandola su dal lettino e gli tornò in mente, subitaneo come un flash veloce, il primo giorno in cui la strinse fra le braccia, il calore di quel corpicino, gli occhi ancora chiusi, il profumo, un profumo così non l’aveva mai sentito prima e non aveva nome, ma poteva essere solo legato ad una sensazione.

    Susanna li raggiunse barcollando.

    Esistono effetti, agenti benefici ai quali, dipende dal momento, dipende dallo stato mentale in cui ci troviamo, non vogliamo aggrapparci, che non vediamo nemmeno, che rifiutiamo, addirittura, convinti di seguire una traccia, il giusto percorso, convinti di non vivere solo un’illusione.

    Francesco cullò la piccola fra le sue braccia robuste e nerborute, ultimamente non aveva più né tempo né energia per dedicarsi all’attività fisica che amava perché gli permetteva di scaricare le tensioni accumulate durante i turni pesanti in fabbrica.

    La piccola al solo contatto della pelle calda e del profumo paterno si tranquillizzò e iniziò a sonnecchiare.

    Susanna fece per prenderla e Francesco si allontanò di scatto.

    Che è ora non posso nemmeno più toccare mia figlia? Bravo, bravo, che padre premuroso, guardatelo!

    Abbassa il volume, Sus, la gente sta dormendo.

    Già, ovvio, pensa sempre agli altri, gli altri dormono, chissà gli altri cosa dicono, chissà gli altri cosa penseranno… buffone! Ecco cosa sei, un buffone, uno smidollato, un… uno…

    Sfigato, dai ti anticipo così non ci pensiamo più e andiamo a dormire.

    Camminava su e giù per cullare anche con il corpo la piccola che a ogni parola della madre sussultava e apriva gli occhi.

    Mi fai venire un nervoso, un nervoso… Aaaaahhhhhhhhhhhhhhhhhhrrrrrrrrrrrrrrrrr……, Susanna strinse i pugni, forte, più forte che poté, fino a sentire le unghie penetrare nella carne, fino a sentire qualcosa, forse un po’ di dolore, almeno quello; anestetizzata dall’alcool e dallo stato mentale, non sentiva più nulla.

    Diede un pugno fortissimo nella schiena al marito e tirò un calcio alla culla della figlia, poi scoppiò in lacrime e si accasciò a terra come un sacco vuoto.

    Rimase così per qualche secondo, singhiozzando, sperando che il marito si avvicinasse, per l’ennesima volta, a consolarla, a prenderla fra le braccia, ma non fu così.

    Quella notte segnò il punto di rottura totale, Francesco sollevò la culla vuota con un braccio, mentre con l’altro reggeva Amelia sulla spalla, si girò e si avviò verso la camera da letto, quella camera da letto che da troppo tempo non li vedeva più insieme.

    Sistemò la culla vicino al lettone matrimoniale, sistemò la figlia nella culla, chiuse la porta della camera a chiave, tutto con una freddezza mentale che quasi lo spaventò, si sentiva squarciato in due, il petto gli doleva forte, una ferita che non si sarebbe più rimarginata si mise a sanguinare copiosamente, era una ferita interna, profonda, che avrebbe lasciato lì, per sempre, al posto di quel giuramento d’amore che avevano fatto davanti a Dio.

    Si sentiva terribilmente solo, devastato, distrutto da tutto quel male che ogni volta usciva dalla bocca di sua moglie. Sapeva, capiva forse, intuiva, non riusciva nemmeno lui a spiegarselo, in qualche modo percepiva da un angolo remoto del suo cervello, impegnato a darsi continuamente delle spiegazioni razionali, che non era colpa direttamente di sua moglie, che qualcosa si era come impadronito di lei e che le strisciava dentro in modo subdolo e schifoso facendole vedere e percepire per buone e giuste le luci sfolgoranti delle vanità.

    Questo, nella sua estrema semplicità, aveva capito osservando a lungo lo stato in cui era andata a finire sua moglie. La sua consorte, uniti, sempre e per sempre, nel bene e nel male, le parole del prete risuonavano nella sua mente ogni giorno, quasi rimbombavano da tanto rumore e scalpore facevano.

    Poche cose l’avevano sconvolto nella sua giovane vita: la prima cotta per Giovanna Falchi, la sua compagna di banco alle elementari la quale aveva scelto invece di mettersi insieme a Raffaele Bicci, un super secchione con gli occhiali.

    Quella era stata la sua prima grande delusione, il primo grande rifiuto.

    In seguito la bocciatura alle scuole medie dovuta ad una fortissima antipatia per la geografia e la storia, non capiva a cosa gli servisse sapere e conoscere le date di guerre passate, come questo potesse influire sulla sua giovane vita, né, tantomeno, quanto frumento producessero l’Emilia Romagna o la Russia, cosa poteva entrarci tutto questo con lui? Con la sua vita semplice e la sua semplice testa? Intanto non si sarebbe mai messo a produrre frumento. Si annoiava terribilmente ad ascoltare tutte quelle notizie inutili e così era arrivata la bocciatura. Un trauma che aveva enormemente contribuito alla sua originaria convinzione di non essere per nulla portato per gli studi.

    Lui doveva lavorare con le mani, non con la testa, si riteneva un tipo semplice, lui, e gli interessavano le cose semplici.

    Nulla di quanto gli era accaduto prima nella vita, però, l’aveva sconvolto tanto come vedere sua moglie in quello stato; per lui era inconcepibile ridursi così.

    Nella sua estrema semplicità, aveva capito, ma non riusciva ad accettarlo.

    Inoltre, alla non accettazione, si aggiungevano un senso di impotenza e di frustrazione profondi che non facevano che peggiorare le cose.

    L'amore doveva essere autoreferenziale e bastare a se stesso? Significavano questo le parole del Parroco quando dicevano nel bene e nel male? Facile amare nel bene, difficile nel male. Nel male l’amore doveva basarsi sulla sua autoreferenzialità. Sì? No? Boh. Aveva una gran confusione nella testa. Nella sua semplice testa.

    Si ricordava quella sensazione di estrema pienezza che aveva provato quando si era innamorato di Susanna, la sua Susanna; quel giubilo del cuore, la mente sospesa, il cuore al centro. Tutto questo aveva provato, perché non aveva certo una mente brillante, lui, ma riusciva a sentire i sentimenti e a dare loro un nome. Giusto o sbagliato che fosse non gli importava, per lui avevano quel nome, quella forma, quell’impatto.

    Ed ora, si chiedeva con il cuore a pezzi, l'amore come poteva rispondere al tradimento?

    Come poteva rispondere alla disillusione?

    Troppo aveva sopportato, troppo tollerato.

    Alla fine anche l’amore si arrende. E lui si era arreso di fronte alla realtà dei fatti.

    Per la prima volta, quella sera, aveva deciso, con atto eroico, di prendere una posizione nei confronti di quella situazione, di quella donna che non era la moglie che aveva sposato, di quella sorta di invasata che arrivava urlando, piangeva, vomitava, lo copriva di insulti e di male parole.

    Aveva detto basta, basta almeno per una notte con l’odore pungente di alcool o di vomito mischiato ad alcool vicino al naso in piena notte quando lei decideva di tornare a casa e di stendersi e crollare russando sopra le coperte, ancora vestita.

    Basta con l’accettare tutto senza mai ribellarsi minimamente, aiutandola anche a rialzarsi da terra dove regolarmente cadeva.

    Basta agli insulti urlati per almeno una ventina di minuti, alle grida isteriche che sicuramente svegliavano i vicini e lo obbligavano ad arrossire e chinare il capo la mattina quando li incontrava per le scale.

    Basta con tutte le sue scene e un po’ di pianto.

    Basta.

    Per la prima volta quella sera aveva deciso di chiuderla fuori dalle loro vite e di dormire con accanto l’odore buono di sua figlia.

    Odore di pulito, dentro e fuori.

    Odore di emozione, di felicità, di aspettative misto al latte in polvere che le dava sua madre.

    Sì, perché ogni mattina all’alba, mentre lei ancora smaltiva la sbornia della notte, il volto trasfigurato dal sonno, un odore acre e pungente in tutta la stanza, che lo portava a cambiare tutte le sere le lenzuola per non sentire per qualche ora quell’odore nauseabondo, lui usciva con la piccola e la portava da sua mamma. Di lei, purtroppo, non c’era più da fidarsi.

    Per la prima volta quella sera si girò, andò verso la porta e chiuse a chiave, tornò verso il letto, sistemò qualche cuscino in modo da creare una sponda sul limite destro e, presa la bimba dalla culla, la appoggiò delicatamente sul materasso, si stese al suo fianco; la bimba aprì per un momento gli occhi e a lui parve che gli sorridesse, beata e tranquilla fra le sue braccia.

    Sospirò profondamente, prese il respiro dal fondo dello stomaco che sentiva contratto e gli doleva forte. Spense la luce e chiuse gli occhi.

    Fuori dalla porta sentì sua moglie che continuava a piagnucolare, si lamentava della sua indifferenza, si lamentava del suo malessere, si lamentava.

    Poi cominciò nuovamente a urlare cose insensate, insulti contro di lui e contro la loro vita, tutto durò una ventina di minuti, poi tutto tacque e lui, finalmente, si addormentò.

    Si sentiva impotente nei confronti di quella situazione, così decise di tornare dal dottore. La mattina seguente, dopo la doccia calda che lasciò scorrere sul corpo indolenzito per la posizione che aveva dovuto tenere tutta la notte per non svegliare o schiacciare quel piccolo e morbido corpicino che aveva tenuto accanto, dopo la barba veloce davanti allo specchio, bussò delicatamente alla porta della madre che abitava a cinquecento metri da casa sua.

    Francesco, amore mio, che faccia. Che è successo? Hai delle occhiaie…

    L’uomo entrò in casa cercando di fare piano, sapeva che suo padre, da quando era andato in pensione, amava dormire qualche ora in più, si era sacrificato tutta la vita alzandosi alle cinque per andare in fabbrica.

    Spinse la carrozzina lungo l’ingresso stretto della casa dei suoi e andò in cucina.

    Vuoi un caffè?

    Magari, mentre si lasciava andare su una sedia.

    Mise le grandi mani fra i capelli neri corvini e chiuse gli occhi per qualche secondo.

    La madre era intenta a riempire la caffettiera e metterla sul fuoco. Quando si girò vide il figlio ricurvo su se stesso, le mani fra i folti capelli e gli occhi chiusi.

    Amore mio. Prese una sedia e la avvicinò a quella del figlio, la voce calda e accogliente colma di tenerezza, posò una piccola e delicata mano sulla sua spalla, notò che non la rifiutava, come aveva fatto da quando nella sua vita era entrata Susanna e ne approfittò per trovare un contatto più intimo. Gli passò la mano sul collo, sentì i nervi tesi e duri che al passaggio cedevano un poco, continuò a massaggiare le sue contratture.

    Hai voglia di raccontarmi?

    Lui scosse la testa in segno di diniego; non aveva voglia di raccontare lo squallore a cui doveva assistere ogni notte da troppo tempo, e per di più raccontarlo a sua madre.

    Senza insistere la madre si alzò lentamente dalla sedia, sospirando appena, leggermente, sperando che lui non lo sentisse quel sospiro di preoccupazione, e preparò il caffè, aggiungendone un po’ alla dose che era solita mettere nella caffettiera perché conosceva i gusti del suo piccolo: amaro, spesso e bollente.

    Si ritrovò, nonostante la preoccupazione crescente nel vedere lo stato del figlio a sorridere di se stessa all’idea che lei ancora, veramente, lo vedeva e lo considerava il suo piccolo, nonostante la stazza, nonostante il metro e ottantasette del figlio, le spalle possenti da giocatore di ragby quale era stato dai dodici ai ventiquattro anni, nonostante ora fosse anche lui un marito e un padre. Per lei era e restava il suo piccolo, il suo cucciolo, da proteggere.

    Dovresti tenermi Amelia oggi, tutto il giorno se puoi

    Ma certo, lo sai che per me è solo un piacere. Ma…, mentre finiva di sorseggiare il caffè nero e spesso come piaceva a suo figlio, ma che lei non amava molto e quindi aveva bisogno di berlo lentamente, troppo spesso e forte il gusto, guardò gli occhi di Francesco e capì che per il momento non era il caso di proseguire.

    L’uomo sospirò profondamente, si alzò con fatica dalla sedia, quasi avesse un masso che gli pesava terribilmente sulla schiena e un altro sulle gambe.

    Nel frattempo arrivò il padre sfregandosi gli occhi dal sonno che stava ancora lievemente gravando sulle palpebre semi chiuse. Francesco fece un solo cenno come saluto e si diresse verso l’uscita.

    Il padre borbottò qualcosa con la bocca impastata, ma Francesco aveva già preso la porta.

    C’è del caffè ancora caldo ne vuoi?, gli chiese la moglie cercando di richiamare la sua attenzione fissa alla porta d’ingresso.

    Che caspita ha quel ragazzo?, chiese il padre di Francesco rivolto sempre con lo sguardo verso la porta. Ultimamente si comporta in modo così strano, è sempre teso, agitato, nervoso. Non lo capisco più. Non capisco proprio…

    Si sedette su una sedia della cucina avvolta dall’aroma corposo del caffè. I primi tiepidi raggi di sole fecero capolino e illuminarono la cucina.

    L’uomo sbadigliò forte, si grattò la testa pelata e guardò per la prima volta la moglie in volto.

    Anche tu sei preoccupata, vero?

    Il caffè è un po’ forte, sai, come quelli che piacciono a Francesco.

    Va bene lo stesso, mi sveglierò prima. Ma non mi hai risposto, anche tu sei preoccupata, vero?

    La donna si girò con gli occhi velati dalle lacrime trattenute.

    Il Dottor Sarino, Giorgio Sarino, era un uomo di mezza età, poteva oscillare fra i cinquantadue ed i cinquantasette anni, una di quelle persone a cui è impossibile dare precisamente un’età.

    Di statura media, magro, con il volto scavato e segnato, soprattutto sul naso, da una moltitudine di lentiggini; la peluria che gli era rimasta sul capo, le sopracciglia ed i peli dell’avambraccio, sempre scoperto in quanto il dottore aveva l’abitudine di portare sia d’estate che d’inverno il camice a maniche corte, tutte quelle efelidi sul volto e sulle braccia, indicavano che da giovane doveva avere i capelli rossissimi.

    Era una persona limpida e schietta che amava dire sempre le cose come stavano, senza giri di parole, dritto e diretto, a volte anche troppo, ma cordiale ed accogliente.

    Il suo studio si trovava a poche centinaia di metri dalla casa dei genitori di Francesco, così lui decise di andare a fargli visita per un consiglio, per capire meglio cosa fare, per trovare l’ultima sua spiaggia, o così sperava.

    Lo fece entrare sorridendogli e prendendolo sotto braccio con affabile cordialità.

    Ti vedo particolarmente stanco, Francesco. Hai bisogno di riposo.

    Se solo la notte riuscissi a dormire per più di tre ore di fila… rispose lui affaticato e sospirando.

    Vieni, siediti qui comodamente su questo divanetto, ti preparo una tisana rilassante.

    Il dottor Sarino era un patito della medicina omeopatica, aveva studiato per anni tutti i rimedi legati all’omeopatia e all’aroma terapia in Germania, a Lipsia (perché il fondatore dell’omeopatia, Samuel Hahnemann, aveva fondato un centro di ricerca, uno dei più importanti, proprio nel suo paese d’origine). Si era specializzato ulteriormente poi in India.

    La sua prima laurea l’aveva presa in neuropsichiatria e poi aveva continuato il suo percorso di specializzazioni, praticamente non si era mai fermato, aveva a cuore di poter veramente curare le persone e prendersene cura a livello olistico. Era uno dei pionieri in questo campo e pertanto, in quel piccolo paesino, molti lo guardavano con diffidenza, ma lui continuava sicuro ed imperturbabile.

    Aveva uno studio anche a Milano e uno a Roma, ma amava il suo piccolo paese natio e non voleva abbandonarlo conscio del fatto che nemo profeta in patria.

    Ecco!, ti ho preparato questa tisana con quattro erbe che sicuramente ti aiuteranno a rilassarti un po’ e a vedere le cose con più lucidità.

    Come fa a sapere che sono confuso?

    Lo vedo dal colore dei tuoi occhi, non è limpido come prima, è sul grigio, indice di confusione mentale. E poi lo sento dall’energia che emani. Povero ragazzo mio, qui la cura sarà lunga. Dovrai avere pazienza.

    Ma io non ho tempo. Devo prendere una decisione velocemente, ne va del benessere e dell’equilibrio di Amelia.

    Pensi solo alla piccola?

    Beh, che domanda, soprattutto a lei. L’abbiamo messa al mondo ed ora abbiamo una responsabilità nei suoi confronti. Non si gioca con i bambini. Lo vedo fare spesso e mi viene un tale nervoso. Coppie che si lasciano con bambini piccoli e dopo poco uno dei due già ha un altro partner, magari altri figli. Ma in che mondo viviamo! Francesco parlava in modo concitato, aumentando sempre più la sua agitazione. Lui era un uomo dai principi saldi, come quelli di una volta, legato alla terra, con origini contadine, legato all’idea che la famiglia comunque era la cosa più importante. Non tollerava vedere il comportamento di tante coppie che con tale

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