Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La casa aperta
La casa aperta
La casa aperta
E-book197 pagine2 ore

La casa aperta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nel corso di una breve vacanza in montagna, dopo un brutto periodo, Luisa ritrova i luoghi della sua infanzia e dei mesi vissuti a Castelrotto durante la Seconda Guerra Mondiale.

I suoi genitori decidono nel maggio '43 di lasciare la casa di Civitavecchia perché preoccupati di un imminente attacco alla città portuale, considerata dai tedeschi come base logistica per un probabile sbarco alleato in Sardegna.

Il viaggio per scappare dalla città è avventuroso e precede solo di qualche ora l'attacco aereo che distruggerà quasi il 90% della città. I successivi mesi, vissuti in montagna, sono un susseguirsi di quotidianità e di episodi reali, di incontro con la guerra e con la morte. La famiglia si divide. La madre di Luisa, Pia, originaria di quelle zone, avvia un breve commercio che la costringe più volte a tornare alla sua città natale dove rincontra anche il marito. Nasce il suo terzo figlio, Carlo che è costretta a lasciare presso una balia fino a tempi migliori.

La famiglia vive a lungo nella 'casa aperta', una casa scoperchiata e solo in parte adattata ad ospitare una famiglia. La vita nella 'casa aperta' ha aspetti piacevoli e momenti di tristezza e disagio, soprattutto in attesa di quel fratello ancora lontano da loro.

Solo nel 1952 la famiglia si riunisce, ma intanto la malattia ha minato la salute di Pia che avrà solo qualche altro anno per godere di una serenità ritrovata…
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2021
ISBN9791220352710
La casa aperta

Correlato a La casa aperta

Ebook correlati

Biografie di donne per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La casa aperta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La casa aperta - Stefano Girardi

    1

    Luisa si era svegliata presto, com'era sua abitudine, e neanche il terzo giorno di vacanza era stato in grado di tenerla a letto oltre le sei. Dalla finestra socchiusa entrava pungente l'aria di marzo, carica degli odori dei campi.

    Mentre si apriva la coltre della neve, iniziavano a riemergere i profumi della natura.

    Anche quel giorno la prima compagna sarebbe stata la sigaretta, ma stavolta l'odore del tabacco si sarebbe confuso con i profumi del fieno e del latte appena munto.

    Le malghe erano già in funzione e oltre agli animali anche gli uomini avevano ripreso la propria attività.

    Sull'albergo di fronte, il comignolo principale sbuffava vigoroso mentre le finestre delle camere più piccole – probabilmente quelle del personale – erano tutte illuminate e al loro interno appariva evidente il fermento di quanti le occupavano.

    Dopo il primo caffè Luisa provò a rimettersi a letto, ma la sensazione di solitudine e soprattutto il silenzio del giorno che cominciava, le impedirono di riprendere sonno.

    'E' la mia prima vacanza da…' – stava pensando tra sé – ma non riuscì a completare la frase perché non ricordava a quando risaliva l'ultima villeggiatura.

    Guardandosi riflessa nello specchio, notò senza sorpresa che i suoi lineamenti erano ancora più marcati di come ricordava. I capelli ormai d'argento cingevano lo stesso viso ovale che aveva preso da sua madre, ma le linee di espressione del volto si erano approfondite e solcavano il viso come fa un aratro, in autunno, sul terreno.

    L'immagine che vedeva le ricordò quanto fossero stati pesanti gli ultimi tre anni. La salute di suo marito l'aveva costretta ad abbandonare la loro casa e a trasferirsi vicino all'ospedale regionale.

    Questa scelta aveva garantito un'ottima assistenza medica, ma, allo stesso tempo, l'aveva totalmente assorbita e destinata a cancellare dalle sue ore ogni momento libero.

    Mentre rifletteva su quei giorni, le tornò alla mente il 30 dicembre di quattro anni prima. Si trovava in fila al pronto soccorso dell'Ospedale regionale della sua città natale, in una serata in cui la maggior parte delle persone corre al caldo della propria casa e ai propri affetti.

    Lei, invece, si era caricata un fardello che non poteva lasciare a nessun altro.

    Solo tre ore prima aveva strappato suo marito da un altro letto di sofferenza. I medici le avevano prospettato un ulteriore intervento chirurgico che lei sapeva inutile e che – era convinta – avrebbe portato il malato solamente alla fine dentro quelle bianche mura.

    Nel giro di pochi minuti aveva preso una decisione che poi avrebbe segnato i mesi successivi: non avrebbe consentito nessun altro esperimento perché, sentendo le diagnosi contraddittorie tra chirurgo, cardiologo e anestesista, aveva perso qualsiasi frammento di fiducia in quella struttura.

    Ricordò che il ritiro della stima rende l'uomo permaloso e un dottore permaloso può diventare un dottore pericoloso.

    In dieci minuti aveva firmato i documenti necessari, aveva chiamato un altro ospedale e quindi organizzato il trasferimento del marito a oltre 100 chilometri da lì.

    L'urgenza di lasciare quell'ospedale non le aveva lasciato il tempo di immaginare i cambiamenti che questa scelta avrebbe comportato.

    Per prima cosa avrebbe dovuto rinunciare all'assistenza pubblica su cui poteva contare al proprio paese. Si trattava di un servizio di volontari della Misericordia che accompagnavano i dializzati all'ospedale e li riportavano indietro sfiniti, dopo alcune ore di trattamento.

    In secondo luogo, trasferendosi in un'altra città, avrebbe dovuto contare, almeno per i primi mesi, solamente sulle proprie forze. Intimamente sperava di poter trovare, nelle settimane seguenti, un aiuto anche fisico, considerando che la sua scelta significava dedicarsi completamente a quella missione.

    Ma, al momento in cui decise questo passo, non aveva consapevolezza dell'effetto che avrebbe provocato anche sulla propria persona.

    Ora che si osservava allo specchio, le vennero in mente tutte le volte che sua figlia Maria Pia le aveva proposto di andare dal parrucchiere o regalato una crema, inesorabilmente finita integra nell'armadietto del bagno.

    'Forse è giunto il momento di aprire quella scatola' – pensò – e svitò con delicatezza il coperchio di una confezione che si era portata con sé.

    Dopo questo esilio di sofferenza Alfonso se ne era andato con la sua abituale discrezione, scegliendo di uscire di scena lontano dai propri affetti.

    Marco, l'infermiere di turno in quella che sarebbe stata l'ultima seduta di dialisi, aveva raccontato che il malato gli aveva chiesto di mangiare un panino e di avere un caffè. Insieme con l'altro paramedico in servizio erano rimasti abbastanza stupiti perché questa richiesta arrivava per la prima volta dopo giorni di rifiuto del cibo.

    Forse è proprio vero che nel momento del trapasso prevale il bisogno di farsi trovare preparati.

    Da quel momento il tempo, prima quasi immobile, aveva ripreso a correre vertiginosamente, tanto che nel giro di pochi giorni Luisa era tornata, stavolta da sola, nella sua casa ora completamente vuota.

    Dopo le prime settimane senza orari e medicine aveva raccolto, quasi come una liberazione, l'invito di suo figlio di seguirlo per trascorrere alcuni giorni sulla neve.

    All'inizio la proposta le era sembrata quasi un oltraggio, vuoi per lo stato di vedovanza, vuoi per la sua completa indifferenza alla neve, lei che era nata a Civitavecchia e aveva sempre respirato solo aria di mare!

    Poi si era resa conto che il suo primogenito le aveva proposto un boccone appetitoso, scegliendo l'unica località alla quale non avrebbe potuto dire no, e la presenza della nipote avrebbe rappresentato comunque un'occasione per comunicare tra donne.

    Quella mattina, dentro le mura dell'Hotel Castel si sentiva particolarmente protetta: le pareti della sua camera, per una volta ancora, erano diventate familiari e le considerava un guscio sicuro.

    Mentre era in attesa di scendere per la colazione, si guardò attorno e si rese conto che la camera era come quella che aveva sempre desiderato: il rivestimento in abete delle pareti esaltava il bianco del piumone. Nel soffitto di legno la rosa intagliata le portò alla mente il lavoro degli abili artigiani tirolesi, capaci di estrarre da un tronco di pino cembro un energico cavaliere o la più dolce delle Madonne.

    Sentì un tocco alla porta: Francesca era arrivata a ricordale che era ora di scendere.

    Nonna sei pronta? Andiamo a colazione.

    Sì, entra, sto prendendo la mia borsa.

    Francesca guardò la nonna indossare la giacca di lana e prendere la borsa. In realtà, per dimensioni, contenuto e peso, quella non era solo una borsa: era il suo forziere, il suo archivio, e, per quanto possibile, anche il suo guardaroba.

    Nonna, ma quella borsa non è troppo pesante? Hai bisogno di portarti dietro tutto?

    Luisa non rispose e Francesca capì dai gesti che non avrebbe avuto senso insistere.

    Negli ultimi tre anni gli improvvisi abbandoni dalle proprie cose dovevano aver insegnato alla nonna quanto poteva essere imprudente dimenticare una medicina, i documenti essenziali, perfino il libretto dell'auto.

    Ora quella fase poteva considerarsi conclusa, ma era inevitabile che la preoccupazione fosse diventata abitudine e che l'abitudine avesse finito per trasformarsi in automatismo.

    Scesero insieme nella sala da pranzo al piano terra, dove i muri erano rivestiti da tavole di pino; correvano lungo tutta la parete principale, al di sotto della mensola sulla quale si aprivano le finestre. Davanti ai vetri liberi da tendine erano in mostra decine di orchidee dai colori più impensabili. I fiori alati sembravano farfalle protese a catturare ogni raggio di sole.

    L'altopiano che stava osservando oltre i vetri, era incorniciato nel portico della sala da pranzo e sembrava l'immagine perfetta di una cartolina.

    Il profilo dello Sciliar spezzava come una lancia la linea dell'orizzonte verso est, lasciandosi abbracciare dalla raggiera luminosa del sole. La palla di luce non aveva ancora superato i Denti di Terrarossa.

    Nell'azzurro cristallino s'insinuava, inesorabile, la scia di condensazione di un aereo militare che, poco dopo, fece sentire anche il suo cupo motore. Quella situazione sembrò un affronto alla perfezione della scena, quasi la violazione di un contesto ideale.

    Luisa passò rapidamente dalla serenità iniziale al turbamento e sua nipote si accorse, dalle pieghe del volto, del cambio di umore.

    Perché sei diventata seria? Ti senti male?

    La nonna reagì immediatamente alla richiesta di spiegazioni.

    No bella, stai tranquilla. Stavo pensando che tanti anni fa ho visto una scena simile, ero molto più piccola di te oggi. Avevo circa 6 anni, ma sento ancora quei rumori di allora come se fosse ora.

    Ma nonna, quando tu eri piccola non c'erano questi aerei!

    "Ma che stai dicendo? Certo che non c'erano, ma c'era la guerra vera e io quei rombi li ho sentiti molte volte…

    Quella mattina un gruppo di aerei stava volteggiando sopra l'altopiano, precedendo una squadriglia in formazione.

    Mia zia Margarethe mi spiegò solo dopo che erano bombardieri diretti a Bolzano per bombardare la città. Mi trovavo vicino al fienile con mia sorella Elsa e quel rumore catturò la nostra attenzione come la tela di un ragno cattura una mosca.

    Mentre gli aerei più avanti controllavano la sicurezza della rotta – ricordo che il gruppo era formato da almeno quattro o cinque – arrivarono da nord due aerei più piccoli che si buttarono contro i primi. Questi allora abbandonarono la formazione e si aprirono per contrastarli.

    Gli assalitori, dopo alcune schermaglie, si allontanarono, inseguiti oltre le montagne, forse consapevoli della loro inferiorità. I bombardieri restarono indifferenti a quelle operazioni e superarono senza problemi la cresta, avvisando con un sordo rimbombo che il carico di morte procedeva oltre, e inesorabile, verso la sua destinazione".

    Nonna – replicò Francesca – come mai ti trovavi a Castelrotto durante la guerra?

    La domanda innocente provocò il risveglio di emozioni che erano state solo parzialmente archiviate. Quella richiesta ravvivò i ricordi di un'esperienza che aveva segnato la sua vita.

    Luisa sentì vivi rumori che pensava ormai di aver archiviato. Mille ricordi riemersero dal profondo della sua esperienza come le scintille che partono dalla brace rianimata da rinnovata vitalità …

    2

    L'allarme antiaereo aveva risuonato un'altra volta, ma ormai la popolazione si stava quasi abituando. Nell'ultima settimana dell'aprile '43 le sirene di Civitavecchia avevano suonato quasi ogni giorno.

    A sud della città, vicino alla torre del Marangone, era stata installata un'importante postazione di avvistamento con i servizi di allarme e le batterie contraeree. La posizione era particolarmente favorevole per scrutare l'orizzonte, sia verso la città, a nord, che verso Santa Marinella.

    Avevo sentito molte volte l'allarme antiaereo, ma le batterie al molo sette erano rimaste quasi sempre silenziose.

    Ogni volta che uscivamo sul balcone per andare al bagno, guardando verso porta Livorno, potevamo osservare l'attività del porto da una posizione privilegiata.

    Con l'inizio del conflitto i traffici militari avevano ampiamente sovrastato quelli commerciali. Le navi arrivavano cariche di materiali, erano scaricate e nuovamente riempite con mezzi e truppe destinate in Sardegna.

    Quelle che portavano il carbone attraccavano oltre il Lazzaretto, dove arrivava un binario secondario della ferrovia.

    Mi aveva raccontato papà che gli alti comandi militari pensavano che l'isola potesse essere un potenziale obiettivo per lo sbarco delle truppe alleate.

    L'Ente Camerale di Assistenza aveva ordinato che, in caso di allarme aereo, dovevamo dirigersi subito verso i rifugi che, in realtà, erano scantinati e seminterrati trasformati solo nel nome.

    Il porto era stato indicato fin dall'inizio della guerra come un bersaglio strategico. Noi che abitavamo in Piazza Calamatta eravamo in pericolo perché molto vicini allo scalo marittimo.

    La nostra casa era sul lato nord della grande piazza squadrata, chiusa verso il mare dalla Rocca e dall'ospedale civico verso monte.

    La rocca era una struttura molto antica che ospitava il palazzo municipale e le autorità portuali. Era anche il luogo dove aveva alloggiato il Papa in occasione delle sue visite a Civitavecchia e dove il responsabile del porto riceveva i cardinali, i commissari della Marina e delle armi e le altre autorità in visita alla città.

    Un quarto dell'edificio che guardava la piazza e l'ala verso il porto era stato destinato, in passato, agli uffici del governatore e a quelli di giustizia.

    La città era percorsa tutti i giorni da uomini in divisa e spesso le colonne di mezzi militari in attesa dell'imbarco si mettevano in fila, anche oltre il Forte Michelangelo, occupando buona parte del Viale della Vittoria.

    I soldati che si trovavano sui camion, quando arrivavano davanti al Grand Hotel delle Terme, avevano la fortuna di intravedere, oltre il colonnato dell'ingresso, le signore in ghingheri che uscivano per la passeggiata o i portieri in livrea blu che accompagnavano all'interno i nuovi ospiti, nella speranza di ottenere qualche lira di mancia.

    Dopo il bombardamento a Grosseto erano aumentati i controlli per prevenire eventuali attacchi, ma la guerra era ancora un racconto e non un'esperienza.

    Il lunedì precedente, subito dopo Pasqua, c'era stata nella vicina città toscana, un'incursione aerea non annunciata dal suono delle sirene. L'attacco si era consumato nel primissimo pomeriggio, attorno alle quattordici, in una tiepida e assolata giornata di festa.

    In Maremma era già piena primavera.

    Lo stormo di bombardieri americani arrivò dal mare, inaspettato e improvviso.

    Nel giro di pochi istanti, non appena gli aerei furono in asse sulla città, numerose bombe a frammentazione furono scaricate sull'abitato, colpendo diversi edifici tra il centro storico e alcune aree semicentrali al di fuori della cerchia muraria; nelle aree colpite dalle bombe non ci fu scampo per le persone che a quell'ora si trovavano all'aperto.

    Savino, un nostro conoscente originario di Castellammare di Stabia, si era stabilito a Civitavecchia a causa di affari legati al porto e abitava da due anni nell'appartamento vicino al nostro.

    Era

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1