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Mostrò ciò che potea...
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Mostrò ciò che potea...
E-book672 pagine7 ore

Mostrò ciò che potea...

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Info su questo ebook

Un’opera insolita consistente in traduzioni in italiano da diverse lingue classiche e moderne di capolavori della letteratura mondiale, con perfetta fedeltà al testo originale (in versi) anche nella metrica.

Una dimostrazione delle persistente, e crescente validità della lingua di Dante (di cui si avvicinano le celebrazioni per il 700mo anniversario della morte) quale mezzo espressivo efficace al di là dei confini per rendere tutte le declinazioni dell’esistenza e della spiritualità umana dalle più quotidiane alle più sublimi.

Un atto di celebrazione dello stesso idioma del divino Poeta, quale mezzo universale di comunicazione, a onta della sua scarsa diffusione mondiale.

L’autore delle traduzioni (e della iniziale concisa prefazione) è un ex diplomatico da sempre particolarmente attento, anche nell’ambito della sua dimensione istituzionale (a partire dal sostegno e dall’incoraggiamento alla stessa Società Dante Alighieri), ai temi e alle attività culturali, a partire dalla letteratura e dal teatro (che lo ha visto anche presente, in più lingue, come interprete amatoriale).
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2019
ISBN9788831603218
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    Anteprima del libro

    Mostrò ciò che potea... - Francesco Capponi

    Quasimodo.

    ORAZIO  SATIRO

    (Selezione di satire di Orazio)

    Traduzione in esametri italiani di F. Capponi

    1.

    Cosa fa sì, Mecenate, che della sua sorte nessuno,

    frutto di scelta oppure offerta in dono dal fato,

    viva contento e invidi ognuno quella degli altri?

    O fortunati mercanti esclama gravato dagli anni

    il militare distrutto nel corpo da lunga fatica;

    ma nella nave sconvolta dai venti del sud il mercante:

    "il militare sta meglio; e che? Nell’assalto di un’ora

    rapida viene la morte, o una gloriosa vittoria".

    L’agricoltore, l’invidia riscuote dal giureconsulto

    quando sul canto del gallo gli bussa chi chiede consiglio;

    quello che sotto cauzione è tratto in città dai suoi campi

    soli felici proclama coloro che vivon nell’urbe.

    Casi del genere in numero tale si posson trovare

    che stancherebbero Fabio¹  prolisso; per fartela breve

    ecco la mia conclusione. Se un dio – poniamo – dicesse

    quel che volete son pronto a fare: tu già militare

    sei un commerciante; tu ora giurista, sarai contadino:

    voi qui, voialtri là fate lo scambio dei ruoli. Ebbene,

    cosa aspettate? Non vogliono più diventare felici.

    Di chi la colpa se d’ira gonfiando entrambe le guance

    Giove dicesse a costoro sbuffando che d’ora in avanti

    facile non sarà tanto ai voti che presti l’orecchio?

    Ma non volendo imitare chi solo le cose scherzose

    sa raccontare – sebbene chi mai ci proibisce di dire

    la verità sorridendo? Talvolta regalano ai bimbi

    per invogliarli a imparare, biscotti i maestri benigni –

    ma tuttavia messo al bando il gioco parliamo sul serio:

    chi si affatica ad arare col vomere duro la terra,

    l’oste malfido, il soldato, gli audaci equipaggi che i mari

    corrono ovunque, i disagi affrontano con l’intenzione,

    dicono, di ritirarsi da vecchi, in tranquillo riposo,

    quando avran messo da parte di quanto sfamarsi: seguendo

    della formica l’esempio, piccina, che a grande fatica

    quello che può con la bocca trascina e lo porta nel mucchio

    che consapevole innalza, pensano prudente al futuro.

    E non appena l’Acquario rattrista il nuovo anno che inizia,

    non si fa più veder fuori e adopera quello che prima

    si procurò previdente, te invece né ardente calore

    dal guadagnare distoglie né inverno, né fuoco né mare

    o ferro, niente ti arresta finché c’è qualcuno più ricco.

    A che ti serve un immenso fardello di argento e di oro

    furtivamente deporre tremante scavando la terra?

    Ché, se lo intacchi, ridotto sarà a un miserabile soldo?

    Se non lo tocchi, che cosa di bello avrà il mucchio innalzato?

    Se centomila quintali di grano nell’aia hai trebbiato:

    non ne entrerà nel tuo ventre di più che nel mio: nello stesso

    modo se tu fra gli schiavi recassi su solide spalle

    la reticella del pane, di più non avresti di quello

    che non portasse alcun peso, dì allora che cosa si ottiene,

    fra chi nei limiti vive di madre natura se cento

    iugeri o mille coltivi? Ma è bello levar da un gran mucchio.

    Se a me da un piccolo mucchio attingere lasci altrettanto,

    i tuoi granai vanteresti lo stesso più delle mie ceste?

    È come se ti servisse di liquido non più di un secchio

    o di un bicchiere e dicessi "attingerlo voglio da un grande

    fiume piuttosto che avere lo stesso a una piccola fonte".

    Quelli che dall’abbondanza di più son sedotti del giusto,

    capita che sian travolti strappati alla riva dal fiume.

    Ma chi del poco ha bisogno che è necessario, di fango

    torbida non beve l’acqua né perde la vita fra le onde.

    Ma degli umani gran parte, indotta da voglia fallace

    niente è abbastanza sostiene ché vali per quanto possiedi.

    Che gli vuoi fare? lodarlo per essere misero, visto

    che lo gradisce: è come quell’ateniese famoso

    ricco, spilorcio, che usava i pettegolezzi del volgo

    lasciar cadere: "mi fischiano, ma da me stesso mi applaudo

    in casa, quando contemplo le belle monete nell’arca".

    Tantalo arse le labbra di sete agogna le acque

    irraggiungibili – ridi? Di te si racconta con altro

    nome la storia: tu dormi su sacchi dovunque pigiati

    a bocca aperta e come se fossero solo dipinti.

    Che si può fare coi soldi ignori, e usare il denaro?

    Pane si compra, verdure, un mezzo boccale di vino,

    ciò che l’umana natura si lagna se le viene tolto.

    Forse vegliare atterrito, le notti e i giorni temendo

    ladri malvagi e incendi, o servi che scappano dopo

    averti fatto man bassa, di questo tu godi? Per sempre

    io poverissimo voglio restare di tali ricchezze.

    Ma se colpito dal freddo hai il corpo che è tutto un dolore

    o ti costringe nel letto un’altra disgrazia, qualcuno

    hai che stia accanto e porti calmanti, che il medico chiami,

    che sollevato ti renda ai pargoli e ai cari parenti?

    Non ti vuol sano nemmeno la moglie né il figlio; vicini,

    amici, e pure i fanciulli, in odio ti tengono tutti.

    Ti meravigli, ponendo davanti a tutto il denaro

    se poi nessuno ti mostra l’amore che non ti guadagni?

    Se i tuoi congiunti che senza nessuna fatica hai avuto

    dalla natura, volessi tenerteli da buoni amici,

    temi di fare un lavoro inutile come in arena

    chi all’asinello docile al morso insegni a trottare?

    Smettila insomma di andare cercando, ché più ne possiedi,

    d’essere povero meno dovresti temer, cominciando

    a moderar la fatica, avuto quel che volevi

    e come Unmidio non fare; la sua storia è breve: ricchezze

    da misurare coi moggi, ma tanto spilorcio da avere

    abiti sempre peggiori dei servi, e sempre paura

    fino al momento supremo, che dalla miseria oppresso

    morto sarebbe di fame, ma lui la liberta dal forte

    animo di Clitennestra aprì con la scure nel mezzo.

    "Che mi consigli allora? Ch’io viva seguendo l’esempio

    di Nevio o di Nomentano?"² vuoi mettere insieme contrari

    su fronti avversi in battaglia: quand’io di non essere avaro

    ti raccomando, non dico che devi far lo scioperato:

    c’è fra Tanai e di Vitellio il suocero in mezzo qualcosa:

    c’è una misura in tutte le cose, precisi confini

    prima o dopo dei quali il giusto non può stabilirsi.

    Là donde mossi ritorno, che, come l’avaro, nessuno

    sia soddisfatto e elogi piuttosto chi segue diverse

    strade, se ha il seno più grosso la capra di un altro, si strugge

    né si confronta alla massa di quelli più poveri, molto

    più numerosa, e si sforza di vincere questo o quell’altro.

    Sempre così gli è davanti in corsa qualcuno più ricco,

    come i cavalli col carro irrompono fuor dei cancelli,

    li sprona contro l’auriga chi gli sta più avanti; di quello

    non tiene conto, rimasto fra gli ultimi, già superato.

    Quindi qualcuno che dica di aver vissuto felice

    e terminato il tempo, di scena si ritiri come

    il commensale già sazio, di rado possiamo trovarlo.

    Basta così, per non farti pensare che ho saccheggiato

    ad un Crispino³ cisposo gli scrigni, non dirò più nulla.

    2.

    Di cortigiane l’unione, di farmaci gli spacciatori,

    i mendicanti, i buffoni, le attrici e la corte intera

    del cantatore Tigellio⁴ la morte l’ha scossa, e depressa.

    Perché era un benefattore. Invece c’è chi paventando

    d’essere preso per prodigo, nega all’amico in bisogno

    quanto potrebbe salvarlo dal freddo e da fame spietata.

    Se poi ad un altro domandi perché mai dei suoi, nonno e padre,

    l’eredità doviziosa consumi con gola vorace,

    specialità di ogni tipo comprando con soldi prestati,

    non vuole essere preso per un pusillanime o tirchio,

    risponderà. E avrà gli elogi dagli uni, rimbrotti dagli altri.

    Di fannullone la fama, e prodigo, teme Fulfidio;

    ricco di terre e pieno di soldi, che presta ad usura:

    sul capitale interessi mensili del cinque per cento

    e quanto più è rovinato qualcuno, più forte lo preme;

    giovani che hanno appena vestito la toga virile

    ai duri padri soggetti. Udendomi chi sommo Giove,

    non sbotterebbe "ma spende per sé in proporzione di quanto

    ha guadagnato?" Chi, quello? a stento potrai immaginare

    quanto egli a sé sia ostile; quel padre che mostra Terenzio

    nella commedia, che avendo cacciato di casa suo figlio

    da miserabile visse, non più di lui si tormentava.

    Se mi domandano adesso che cosa significa?. Questo:

    sfuggendo un vizio gli sciocchi, incorrono in quello contrario.

    Tunica giù penzolante Maltino indossa, ma certi

    su fino all’inguine osceno la fanno salire; elegante,

    Rufilio di pasticchine odora, Gargonio di capro;

    niente nel mezzo. Toccare vorrebbero alcuni soltanto

    quelle a cui copre i tacchi la balza in fondo alla veste,

    altri invece nessuna che non stia in un lercio casino.

    Un personaggio ben noto vedendo uscir dal bordello

    divinamente Catone che per la virtù sia lodato

    disse; perché quando gonfia la tetra lussuria le vene,

    che qui discendano è giusto i giovani, e che le consorti

    lascino stare degli altri. Elogi per questo per questo non voglio

    dice Cupienno cui piacciono solo vestite di bianco.

    Vale la pena di udire, voi che di cavarsela bene

    non augurate agli adulteri, come essi trovino ovunque

    peripezie ed il piacere guastato sia da sofferenze

    e come giunga di rado fra mille pericoli gravi.

    Uno dal tetto gettarsi dovette, ed un altro accoppato

    fu da frustate; fuggendo costui di crudeli banditi

    divenne preda, quell’altro salvò colla borsa la vita,

    e scompisciato da mozzi di stalla fu questo; e a quello

    che gli tagliassero accadde testicoli e coda salace

    con una lama. Per tutti, eccetto Galba, fu giusto.

    Quanto più rassicurante la merce di seconda classe,

    parlo di quelle liberte per cui, nientemeno, Sallustio

    perde la testa, di quelli che cadono nell’adulterio;

    se generoso e gentile perciò dimostrarsi volesse,

    con moderata larghezza secondo i buoni consigli   

    della ragione, darebbe ciò che è sufficiente, né danno

    a lui verrebbe né obbrobrio. Ma questo soltanto gli piace

    ama ed elogia: io – dice – non tocco nessuna matrona,

    come a suo tempo quel Marseo, di Origine amante (l’attrice)

    che alla sua ganza degli avi la casa ed il fondo regala,

    niente da fare, dicendo, avrei con le mogli degli altri.

    Sì, con le attrici va bene, con le prostitute; ma un male

    grave più che al patrimonio al tuo buon nome puoi averne,

    o alla persona ti basta il danno evitare, non quello

    che da altre parti proviene? La reputazione comunque

    è male perdere come lo sperpero del patrimonio.

    Che cosa cambia se colla matrona o l’ancella tu pecchi

    in toga? Villio con Fausta la figlia di Silla, da tanto

    nome attirato, meschino, pagò la sua colpa più cara

    del necessario, di pugni coperto, cacciato da spade

    minacciose, e là dentro intanto restò Longareno.

    Se del suo pene per conto parlando fra tante disgrazie

    l’animo gli avesse detto "Che vuoi? Da te forse ne esigo

    una che sia generata da un celebre console e dalla

    stola coperta, se preso dal fuoco son io della voglia?"

    che cosa avrebbe risposto? È figlia però di un gran padre.

    Ma quant’è meglio, in contrasto con ciò, quello che la natura

    ricca com’è di risorse, ci esorta a fare, se solo

    tu voglia spenderle bene, e non mescolare le cose

    da ricercare, o fuggire. O non ti importa se soffri

    per colpa tua o degli eventi? Se non vuoi pentirtene allora

    smettila di corteggiare matrone da cui più fatiche

    e guai ricavi di quanto raccogliere possa dei frutti.

    Né chi di candide pietre, o verdi, è adorna (Cerinto,

    prenditi questa) le cosce più morbide ha, o gambe più dritte

    ché molto spesso migliori le ha invece chi porta la toga.

    Aggiungi che la sua merce trasporta lei priva d’inganni

    e quel che ha in vendita espone apertamente, ed il bello

    lo mostra pubblicamente, e quello ch’è brutto non cela.

    Dei re costume è quando acquistan cavalli, coperti

    di esaminarli ché, come accade sovente, seduca

    un degno corpo sorretto da molli gambe chi compra

    e ammira le belle chiappe, la testa minuta e il collo

    alto. Fan bene: non devi del corpo il meglio con occhi

    esaminare di Linceo, e quelle più cieco d’Ipsea

    che son peggiori. Che gambe, che belle le braccia e intanto

    è senza culo, nasuta, i fianchi cadenti, piedoni.

    Di una matrona nient’altro che il viso riesci a vedere

    (se non si tratta di Cazia)⁷ coperta com’è dalla veste.

    Se delle parti proibite vai in cerca, da un vallo protette

    – quello che ti rende pazzo –  si oppongono a te molte cose,

    guardie del corpo, lettiga, scroccone e pettinatrici,

    fino ai suoi piedi calata la stola, dal mantello avvolta,

    il tutto per impedire che a te al naturale si mostri.

    Non c’è problema con l’altra: a te quasi è dato vederla

    come spogliata, se ha brutte le gambe, o il piede deforme;

    puoi misurarle con l’occhio i fianchi, o preferiresti

    che ci sia inganno e il prezzo ti venga sottratto, la merce

    ancora non esibita? La lepre in mezzo alla neve

    il cacciatore insegue, in tavola non vuol toccarla,

    recita e aggiunge "A questo l’amore mio è simile; infatti

    su quelle esposte sorvola, di quelle che fuggono è a caccia.

    Speri che questi versucci cantando tu possa dolori,

    passioni e preoccupazioni penose scacciarle dal cuore?

    Non giova più ricercare che limiti ponga natura

    alle passioni, e quale mancanza sia da sopportare,

    di che lagnarsi, togliendo dal solido l’inconsistente?

    Forse che quando di sete la bocca hai arsa, una coppa

    che non sia d’oro non cerchi, e quando hai fame disdegni

    ciò che non sia di pavone o rombo? Se l’inguine hai gonfio,

    pronta l’ancella c’è o un servo fanciullo sul quale  portare

    immediato un attacco, o è meglio scoppiare di voglia?

    Non mi va bene: mi piace l’amore facile e pronto.

    Quella che dice fra poco, se più mi dai, "se il marito

    esce" Filodemo⁸ ai Galli va bene, dice, a me una

    che non sia cara, o indugi quand’è chiamata, a venire.

    Bianca sia, e snella, leggiadra ma non sino al punto che voglia

    più alta e chiara sembrare di quel che le ha dato natura.

    Quando si sarà distesa al mio lato destro, sul fianco

    sinistro, è Ilia, e Egèria;⁹ le do tutti i nomi che vuole.

    Né mentre fotto ho paura che torni dai campi lo sposo,

    buttata giù sia porta, col cane che abbaia, e ovunque

    da grande strepito scossa, la casa risuoni, la donna

    pallida salti, la serva me misera gridi: le gambe

    rischia,¹⁰ chi è colta sul fatto la dote, io tutto me stesso.

    I piedi scalzi, la tunica sciolta si deve fuggire

    se non vuoi perdere i soldi, le chiappe, la reputazione.

    Da fessi è farsi beccare: d’accordo con me sarà Fabio.¹¹

    3.

    Eupoli, e Cratino, ed anche Aristofane e tutti gli altri

    poeti che dell’antica commedia son stati gli autori,

    se meritava qualcuno il nome di malvagio o ladro

    o perché adultero fosse o sicario o per altra pecca

    degno di infamia, con molta franchezza ne davano conto.

    Da qui Lucilio¹² ha preso le mosse, seguendoli in tutto,

    il metro e il ritmo soltanto avendo mutato, faceto,

    fiuto sottile, ma rozzo nel mettere insieme dei versi.

    Ché questo fu il suo difetto; in un’ora spesso duecento

    versi dettava all’istante, su un piede (si dice) restando;

    ma perché scorre fangoso, qualcosa da togliere trovi;

    loquace, ma riluttante a fare fatica scrivendo,

    scrivendo bene s’intende: del molto, me ne infischio. Ecco

    che terra terra, Crispino mi sfida "se hai coraggio, prendi

    le tavolette, io prendo le mie; luogo e orario sian dati,

    e testimoni; vediamo, chi dei due più scrivere possa."

    Bene pensaron gli dei a farmi di poche risorse

    e pusillanime, un tipo che parla di rado dicendo

    poco; ma tu l’aria dentro gli otri di pelle di capra

    racchiusa, che si affanna fino a che il fuoco non piega il ferro

    imita, se preferisci. È felice Fannio se dona

    in giro casse di libri con il suo ritratto. Ma quello

    ch’io scrivo nessuno lo legge, né recito in pubblico: temo

    che ci sia chi questo stile non ama perché i suoi complessi

    di colpa suscita. Prendi tra la folla a caso qualcuno:

    è oppresso dall’avarizia o dalla meschina superbia.

    Chi per le spose è pazzo d’amore, chi per i fanciulli;

    attratto è questo dal fulgido argento; pei bronzi stravede

    Albio; chi scambia derrate dal levar del sole ai paesi

    tiepidi nel suo tramonto, sfidando le disavventure,

    va come polvere alzata dal turbine avendo paura

    che possa andare perduto il gruzzolo o non dia profitto.

    Han tutti questi timore dei versi e in odio i poeti.

    "Ha il fieno ai corni,¹³ tenersi lontano; per una risata

    che si guadagna, te e pure l’amico non risparmierebbe

    ed una volta che ha messo qualsiasi cosa su carta,

    vuol che lo sappiano tutti, chi torna dal forno o dal fonte,

    fanciulli e vecchi". Be’ lasciami far qualche precisazione.

    Primo, me stesso io tolgo dal conto di quelli che reputo

    siano poeti: infatti né mettere insieme dei versi

    dirai che sia sufficiente, né chi, come io faccio, scriva

    in stile colloquiale, lo prenderai per un poeta.

    A chi l’ingegno possieda, la mente del vate e la voce

    di cose eccelse risuoni, darai di tal nome l’onore.

    Perciò qualcuno se fosse o no poesia la commedia

    si è domandato, in quanto né ispirazione possiede

    né forza nelle parole o nei temi, né dalla prosa

    a parte il metro, sarebbe diversa, "Il padre furioso

    s’incazza perché sedotto il figlio sbandato da una

    puttana, sua mantenuta, rifiuta la sposa con ricca

    dote e ubriaco con grande disdoro va a zonzo con lumi

    accesi prima di notte". Pomponio sentire qualcosa

    di più leggero dovrebbe se il padre vivesse? Ebbene

    non basta scrivere versi con delle parole comuni,

    che se la metrica togli, chiunque vi esprime lo stesso

    sdegno del padre di quella commedia, e quanto io adesso

    ed una volta Lucilio ha scritto se gli togli il ritmo

    fissato, con le cadenze e quelle parole che prima

    vengon nell’ordine sposti, mettendo le ultime avanti,

    come se dal verso sciogli "poiché la discordia sinistra

    di guerra fece cadere gli stipiti e porte di ferro"¹⁴

    non troverai del poeta spezzato nemmeno le membra.

    Basta così; a un’altra volta decider se sia o no poesia.

    Adesso questo soltanto mi chiedo, se a te con ragione

    sia tale letteratura sospetta. Girando van Sulcio

    e Caprio,¹⁵ decisi a tutto e rauchi, coi loro libelli,

    grande spavento entrambi per i malfattori; chi onesto

    vive, le mani pulite, d’entrambi però se ne frega.

    Ma anche se fossi tu come Celio e Birro, briganti,

    io non sarei come Caprio né Sulcio: perché tu mi temi?

    Né i miei libercoli avranno le botteghe o i banchi, e neanche

    mani sudate del volgo o dell’Ermogene Tigellio,¹⁶

    ed a nessuno li leggo, se non agli amici, costretto,

    non dove capita e avanti a chiunque. Nel mezzo del foro

    van recitando gli scritti in molti, e anche nei bagni:

    in luogo chiuso risuona più dolce la voce. Piacere

    fa ai vanitosi che non si domandano se senza senso

    lo fanno o in non appropriati momenti. Ci sguazzi si dice

    nel molestare e apposta lo fai, da carogna. Da dove

    viene quel che tu mi scagli addosso? Da uno di quelli

    fra i quali vivo? Chi parla male dell’amico assente

    non lo difende se un altro lo incolpa, e chi le risate

    del volgo senza ritegno ricerca e fama di arguto,

    chi riesce a fingere cose non viste e quelle segrete

    non sa tacere, è malvagio e di lui diffida, Romano.

    In un triclinio, sovente, cenare vederne puoi quattro,

    uno dei quali a sfottere tutti ci gode, eccetto

    l’ospite che versa l’acqua ed anche lui, dopo che è sbronzo,

    quando riposti pensieri rivela il dio Bacco verace;

    questi a te che ai malvagi sei ostile, socievole sembra,

    civile e aperto: io invece se mi prendo gioco del fesso

    Rufillo che di pastiglie odora, Gorgonio di capro,

    ti sembro pieno di bile, mordace? Se a te davanti

    si fa menzione dei furti di cui si sarebbe macchiato

    Petillio Capitolino,¹⁷ com’è tuo costume, difendi

    lui così: "Capitolino è mio compagno ed amico

    fin da bambino e mi ha fatto piaceri, moltissimi, e sono

    contento che a Roma possa restarsene senza problemi;

    ma tuttavia son sorpreso di come se la sia cavata

    in quel processo"; è questo un nero di seppia, è questa

    ruggine pura; un vizio che lungi terrò dai miei scritti,

    e dal mio animo prima ancora, prometto, se qualche

    cosa promettere posso di certo, ma senza riguardo

    dirò qualcosa per caso scherzando, ma con indulgenza

    giudicherai: ché avvezzo io sono dall’ottimo padre

    a rilevar con esempi i difetti, per evitarli.

    Nell’esortarmi a vivere in modo parco, frugale,

    contento di quel che darmi avrebbe lui stesso potuto:

    "Non vedo come il figliuolo di Albio se la passi male

    e viva misero Baio? La prova è per chi volesse

    dar fondo al suo patrimonio. Per dissuadermi da un turpe

    amore d’una puttana: Non fare come Scetanio.

    Perché fuggissi le adultere, potendo andare con una

    di quelle: Colto sul fatto Trebonio si è disonorato

    diceva. "Qualche sapiente darà a te la giusta ragione

    per evitare qualcosa o cercarne un’altra; a me basta

    di conservare gli antichi costumi degli avi, e la vita.

    Finché sei sotto tutela, proteggere ed il tuo buon nome

    salvaguardare; ma quando l’età ti avrà consolidato

    animo e membra, nuotare potrai senza sughero. Coi

    suoi insegnamenti, fanciullo, così mi educava: dicendo

    a me di fare qualcosa "l’esempio che a questo ti esorta

    ecco" mostrando qualcuno dei giudici selezionati

    o per proibire "che questo inutile sia e disonesto

    ancora dubiti, quando cattiva reputazione

    han questo, e quello?". Spaventa gli infermi ingordi, la strizza

    vicino ad un funerale, spingendoli a fare la dieta,

    così chi è ancora immaturo, l’obbrobrio degli altri l’induce

    ad astenersi dai vizi. Io che sono esente da quelli

    che recan danni di varia natura, ho vizi mediocri

    e perdonabili. Forse in larga misura saranno

    spazzati via dalla tarda età, da un amico leale,

    dalla mia propria saggezza; infatti, presente a me stesso

    così facendo, migliore sarà la mia vita e ai cari

    amici sarò gradito; si comporta male quel tizio:

    incauto farò lo stesso un giorno? Fra me io rifletto

    su queste cose, le labbra serrate; e se ho tempo per farlo,

    le butto giù per iscritto; è questo un vizio di quelli

    mediocri; e se non volessi scusarlo, un gran battaglione

    accorrerebbe per darmi aiuto, di tanti poeti

    – siamo in gran numero infatti – e come fanno i Giudei

    ad arruolarti in questo esercito ti forzeremo.

    4.

    "A parte quel che hai già detto, questo anche ti chiedo, Tiresia,

    rispondi, come io possa riavere le ricchezze perdute,

    con quali metodi, ed arti. Che ridi?. A te, furbacchione,

    non basta più di tornare ad Itaca, e i patri Penati

    di rivedere?. Fallace tu che mai non fosti, previsto

    hai che io povero e nudo a casa ritorni: non resta

    là magazzino né gregge che sia risparmiato dai Proci:

    ed il valore non conta, né la nobiltà senza soldi".

    "Fuor dai preamboli, dato che la povertà ti fa orrore,

    impara come potresti diventar ricco. Se un tordo

    ti viene dato o un altro presente, che corra là dove

    brilli il gran patrimonio di un vecchio; i frutti più dolci

    ed ogni dono che porta a te il coltivato podere

    prima del Lare li gusti chi è più venerabile, il ricco.

    Che sia lui pure spergiuro, non nobile e si sia macchiato

    del sangue di suo fratello, sia transfuga, a quello comunque

    non rifiutare di stargli, se vuole, al fianco sinistro".

    "La destra cedere a un Dama¹⁸ fetente? Così non facevo

    a Troia, sempre lottando coi più valorosi. Ebbene

    povero resti". Da forte all’animo di tollerare

    ordino; ne ho sopportate di peggio. Tu subito dimmi

    dove ricchezze e soldi a mucchi raccogliere, o vate".

    "Già te l’ho detto, e ripeto: ovunque arraffa, da furbo

    i testamenti dei vecchi, e se qualcheduno più astuto,

    un morso dato nell’esca, all’insidiatore sfuggisse,

    non deporrai la speranza o mollerai l’arte, deluso. Al

    grande o piccola al foro si giudichi di una vertenza,

    uno dei due molto ricco non ha figli ed è disonesto

    e chi è nel giusto trascina audace in causa; di quello

    sii difensore; chi ha fama migliore e buone ragioni

    snobbalo, se ha figli in casa ed una consorte feconda.

    Quinto o Publio poniamo – chiamarli per nome le orecchie

    dolce solletica – "amico tuo sono per il tuo valore.

    che è bivalente la legge so bene, e star in giudizio;

    gli occhi mi faccio cavare piuttosto che farti rubare

    pur una noce schiacciata; sarà mia premura costante

    che non ti faccia fregare". Consiglialo di andare a casa

    e di curar la salute; e fagli da procuratore,

    perseverante resisti: la rossa Canicola rompa

    le statue senza parola, o Furio,¹⁹ il gran ventre teso

    con neve bianca ricopra, sputando, le Alpi d’inverno.

    Non vedi il gomito a quello che gli è vicino toccando,

    dirà qualcuno "legato com’è ai suoi amici, paziente,

    tenace?". E verranno più tonni nuotando nella tonnara.

    Se poi c’è qualcuno che alleva un figlio d’incerta salute

    fra le ricchezze splendenti, per non comprometterti troppo

    con un omaggio esclusivo ai celibi, discretamente

    striscia ossequioso sperando di farti iscrivere come

    secondo erede, prendendo il posto del giovane in caso

    fosse rapito nell’Orco: di rado quel gioco fallisce.

    A chi ti dà il testamento per fartelo leggere, bada

    di rifiutare scostando da te il documento, ma in modo

    tale però da sbirciare che cosa disponga nel primo

    foglio nel secondo rigo; se solo o con molti eredi

    sei, scorra l’occhio veloce.  Perché spesso fa da notaio

    un magistrato che frega il corvo vorace: Nasica,

    d’eredità il cacciatore, deriso sarà da Corano".

    Sei pazzo forse? O apposta mi sfotti con indovinelli?.

    "Qualsiasi cosa io dico, Laerziade, può capitare

    o no: ché a me il grande Apollo il dono profetico ha dato".

    Ma che vuol significare la favola dimmi, ti prego.

    "Il giorno che un giovanotto, terrore dei parti, dall’alta

    stirpe d’Enea  discendente, per terra sarà e per i mari

    grande, al forte Corano in sposa la figlia stangona

    andrà di quel tal Nasica che i debiti non vuol saldare.

    Cosa fa il genero allora: al suocero dà il testamento,

    vuole che legga; Nasica rifiuta a lungo ma infine

    lo prende e tacito legge scoprendo che nulla è stato

    altro che gli occhi per piangere, a lui e alla famiglia lasciato.

    A questo inoltre ti esorto: se in mano è un vecchio balordo

    di qualche femmina astuta o d’un suo liberto, con loro

    diventar socio; lodarli per essere lodato da assente.

    Ciò ti può pure giovare, ma da preferire è l’assedio

    del tipo stesso. Dei versi scadenti lo stupido scrive:

    lodalo. È a caccia di donne: di tuo, senza che te lo chieda,

    condiscendente al potere, Penelope portagli. "Credi

    che persuaderla io possa, lei tanto virtuosa ed onesta,

    che manco i Proci dal retto cammino poteron deviare?".

    "Perché son giovani, poco propensi a fare regali,

    e meno desiderosi del sesso che della cucina.

    Così Penelope resta fedele a te; ma se accetta

    per una volta regali da un vecchio, con te compiacente,

    mai più li lascerà, come un cane il cuoio bisunto.

    Racconto un fatto che seppi già vecchio. A Tebe, salace,

    una vecchietta dispose nel suo testamento che il corpo

    ben unto d’olio portasse con le spalle nude l’erede

    per scivolare almeno da lui dopo morta: ché credo

    troppo da viva l’aveva pressata. Vai dunque prudente

    e non mollare la presa ma senza insistere troppo.

    Irrita un tipo bisbetico e ombroso chi è chiacchierone:

    oltre no e non andare; e, quale il comico Davo

    a capo chino stai, come quello che ha grande timore.

    Avanti vai con gli ossequi; esortalo, se s’alza il vento

    che copra il capo prezioso, prudente; e toglilo dalla

    folla giocando di spalle; se chiacchiera tendi l’orecchio.

    sfacciatamente gli piace di farsi lodare: provvedi

    fino a che lui non ti dica alzando le mani al cielo

    basta così: gonfia l’otre che cresce con gonfie parole.

    Quando ti avrà sollevato da un lungo, solerte servizio

    e, certo d’essere desto d’un quarto sia erede Ulisse

    avrai sentito. "Ebbene il caro amico mio Dama

    non avrò più? Dov’è un altro così bravo ed affezionato?"

    va ripetendo, e il pianto se non ti vien fuori, almeno

    nascondi prudentemente la gioia nel volto. La tomba,

    se al tuo giudizio lasciata, innalzala senza risparmio:

    un funerale ben fatto sarà dai vicini lodato.

    Se dei coeredi la tosse maligna ha uno più vecchio,

    digli che dalla tua parte se un fondo volesse comprare.

    O un casolare, ben lieto a lui venderesti a due soldi.

    Ma mi trascina tirando Proserpina: addio, statti bene.

    5.

    Da un pezzo ascolto e dirti volendo qualcosa da schiavo,

    ho un po’ paura.  Sei Davo?. "Sì, Davo, il servo fedele

    al suo padrone e onesto quant’è sufficiente a farti

    ritener giusto che viva". Di quella licenza profitta

    che fu fissata dagli avi²⁰ per ogni dicembre: su, parla".

    "Parte degli uomini gode dei vizi, e insiste coerente

    nella sua scelta; gran parte oscilla  seguendo il bene

    ora, poi al male soggetta. Per i suoi tre anelli fu Prisco

    spesso notato, poi invece la mano sinistra sua spoglia.

    contraddicendosi visse, cambiando vestito ogni ora,

    dai gran palazzi di botto celandosi in luoghi da dove

    pure un liberto avrebbe avuto vergogna ad uscire;

    ora da adultero a Roma, ed ora da dotto ad Atene

    voleva vivere, nato da tanti ostili Vertunni.²¹

    e Volanerio, buffone, da quando la gotta le dita

    gli bloccò vendicatrice, qualcuno che per lui prendesse

    i dadi per poi gettarli nel bossolo assunse, pagando

    un regolare stipendio: di quanto nei vizi consueti

    più si persiste, più è lieve l’infelicità e si sta meglio

    di chi si affanna tirando e poi mollando la fune".

    "Ora mi dici, furfante, a chi si dirigono queste

    tue fetenzie?. Di te parlo. E a che proposito, infame?".

    "Lodi la sorte e i costumi di quelli di un tempo, ma qualche

    dio se volesse portarti indietro, ti rifiuteresti,

    o perché non sei persuaso che quel che proclami sia il meglio

    o perché non risoluto difendi il giusto e ti infogni

    inutilmente cercando di togliere il piede dal fango.

    A Roma vuoi la campagna; nei campi la città ti manca,

    volubilmente la esalti. Nessuno per caso t’invita

    a cena, il cavolo elogi mangiato a casa tranquillo

    e come se incatenato uscissi, ti dici ben lieto

    di non dover far stravizi da nessuna parte. Ti chiama

    tardi da lui Mecenate, si accendono le prime luci,

    a mensa: "L’olio nessuno ci porta veloce? Nessuno

    mi sente?". Con gran fracasso protesti ed esci di fretta.

    Mulvio con i buffoni, mandandoti dove non dico,

    lasciano il campo. È vero, lo ammetto lui dice "che dalla

    gola mi faccio guidare, sniffando l’odore del cibo,

    debole, inerte, e aggiungi quello che vuoi, crapulone.

    Tu che hai gli stessi difetti, e forse peggiori, vuoi pure

    rimproverare me, come se tu fossi meglio, e avvolgi

    i vizi con eleganti parole?". Che fai, se più sciocco

    di me – comprato per mezzo migliaio di dracme – ti scopro?

    smetti di farmi paura con quella faccia; le mani, e lo sdegno

    frena: dirò quel che insegna a me di Crispino²² il portiere.

    Conquista sei della moglie di un altro, e di una trojetta

    Davo: qual è della croce fra i nostri peccati il più degno?

    Se un forte istinto mi spinge, la prima che trovo  nel nudo

    chiarore di una lanterna, colpisco con turgida coda

    e lei il cavallo supino agita lascivamente,

    se ne va ed io diffamato non resto né m’importa che uno

    più di me ricco o bello d’aspetto con lei se ne venga.

    Deposte avendo le insegne, di cavaliere l’anello

    e di  Romano la veste, da giudice diventi un Dama

    turpe, la ben profumata tua testa nel manto nascosta,

    forse non sei quel che fingi? Sei fatto entrare tremante

    di strizza fin dentro l’ossa, che colla lussuria fa a pugni.

    Che cambia se dalle verghe per esser spellato o ucciso

    da spada vai gladiatore, o chiuso nell’infame cassa

    dove ti ha messo la serva che è complice nell’adulterio,

    stretto, toccar coi ginocchi la testa? E non appartiene

    su entrambi un giusto potere al coniuge dell’infedele?

    Più giusto sul seduttore? Inoltre costei non è tipo

    da cambiar abito pure, nel fottere, la posizione

    per starti sopra, paurosa e senza fiducia nel ganzo.

    Ben consapevole dunque vai verso le forche, lasciando

    all’incazzato padrone gli averi, la vita, l’onore.

    Se scampi: credo che dalla paura frenato, da saggio

    stia al largo; o cerchi di nuovo la strizza, rischiando

    la vita, o d’essere schiavo per sempre. C’è mai una bestia

    che, in fuga dalle catene infrante, vi torni, perverso?

    Non sono adultero dici. Neanch’io, per Ercole, ladro,

    se per timore mi astengo dal fottere i vasi d’argento.

    Ma togli il rischio: rimosse le remore, vince l’istinto

    sfrenato. Sei  il mio padrone? Tu che così spesso ti inchini

    a ordini d’uomini  o cose? Che se ti toccasse più volte

    la verga liberatrice, la tua fottuta paura

    mai sparirebbe; ancora c’è questo, di non minor peso;

    che se vicario è il servo, è vostra la definizione,

    d’un altro servo, oppure con – servo, per te cosa sono?

    Tu che mi domini, servi gli altri, tapino, e come

    un burattino ti lasci guidare con fili dall’alto.

    Chi è dunque libero? Il saggio che sa comandare se stesso.

    Che né miseria né morte spaventano né le catene,

    che ai desideri smodati resiste, disprezza gli onori

    solido, in sé ben racchiuso, tornito ed arrotondato,

    ché niente sul levigato potrà dall’esterno posarsi,

    su cui la sorte non riesce mai ad infierire. Tra queste

    cose  qualcuna che propria sia a te, puoi mostrare? Ti chiede

    cinque talenti la ganza ti tratta da cane, e cacciato

    fuori ti inonda con acqua gelata, ti chiama di nuovo:

    strappa da quel giogo infame il collo, son libero. Niente.

    uno spietato padrone ti opprime lo spirito e senza

    tregua ti sprona sfinito, spingendoti recalcitrante.

    O quando ti manda in estasi, da fesso, un quadro di Pausia,

    meno di me non sei in fallo, se anch’io di Fulvio o Rutuba

    o Pacideiano²³ ammiro le ginocchia tese, le gesta

    guerresche con terra rossa dipinte o col carboncino,

    come se vere battaglie muovessero gli uomini, i colpi

    schivando e dando colle armi? È quel fannullone di Davo;

    tu invece di antiquariato per critico passi, sottile

    e accorto. Un nulla io sono, se della focaccia fumante

    son ghiotto; ma a pingui cene resiste la tua virtù insigne

    e l’ardimento? Perché per me è più dannosa la gola?

    Perché le prendo sul gobbo. Ma più impunemente di quelle

    pietanze che non puoi avere con poco denaro, ti abboffi?

    Amaro fiele diventa la tua scorpacciata infinita

    e i piedi marci quel corpo vizioso non voglion portare

    più oltre. Se fa peccato quel servo che a sera con uva

    scambia la striglia rubata: chi per soddisfare la gola

    si priva dei suoi poderi, non è forse simile al servo?

    Aggiungi che non sai stare nemmeno un’ora da solo

    e per trascorrere il tempo sfuggi a te stesso vagando

    o con il vino cercando o il sonno di cacciar gli affanni

    invano: il tetro drappello in fuga da presso ti insegue".

    Mi date un sasso?. Per farne che cosa?. Oppure le frecce?.

    È uscito pazzo quest’uomo o vuol farlo credere. "O smammi

    subito o all’agro Sabino col numero nove ti trovi".

    6.

    "Ti divertisti a cena dal ricco Nasidieno?

    a me che per invitarti ti andavo cercando, hanno detto

    che stavi da mezzogiorno con lui a bere. Sì, niente

    in  vita mia mi è piaciuto di più. Se non ti scoccia, dimmi

    quali portate per prime placaron, famelico, il ventre".

    "Prima di tutto, coniglio lucano: coll’Austro leggero

    preso, a quanto diceva il padron di casa; ed intorno

    piccole rape piccanti, lattuga, radicchi che il moscio

    stomaco svegliano, acciughe e raperonzoli e feccia

    di Coo, e portati via questi da un servo succinto, nettata

    da un tovagliolo purpureo la tavola d’acero, un altro

    qualsiasi cosa raccolse che inutile in terra giacesse

    e infastidisse chi stava cenando; si fa avanti al modo

    di attica vergine sacra a Cerere il fosco Idaspe²⁴

    portando Cecubo e Alcone di Chio, senza acqua di mare.²⁵

    L’ospite qui ‘Mecenate, se Albano o Falerno ti piace

    più di quei vini che sono serviti, li abbiam, l’uno e l’altro’".

    "Che miserande ricchezze! Ma chi insieme a te nella cena,

    Fundanio, fu della bella brigata, mi preme sapere".

    Io a capotavola e accanto Visco Turino e più oltre

    Vario, se ben mi ricordo; e con Balatrone (Servilio)

    Vibidio, che Mecenate aveva appresso portato.

    E c’era poi Nomentano al di là dell’ospite, e Porcio

    di qua, che al riso muoveva coll’inghiottire le torte;

    addetto a ciò Nomentano, che se si lasciava qualcosa

    per caso, di farvi segno col dito; perché tutti gli altri,

    noi dico, ci abboffavamo di uccelli e molluschi, e di pesci,

    che un gusto molto diverso avevan da quello già noto

    come appariva evidente ben presto a me quando offerti

    mi furon pezzi di rombo e passero mai assaporati.

    Le mele dolci, si apprese in seguito, vengon più rosse

    raccolte a luna calante. Da lui stesso meglio puoi udire

    come ciò avvenga. Vibidio allora fa a Balatrone:

    ‘invendicati morremo, se non sbronzi da far casino’,

    e chiede coppe più grandi. Allora cambiò del padrone

    per il pallore la faccia, ché più d’ogni cosa paventa

    chi beve troppo, sapendo che parla senza ritegno,

    e che insensibile il fine palato i vini più forti 

    rendono. Di Allife dentro boccali riversano intere

    anfore e tutti a seguirli, i due Balatrone e Vibidio:

    soltanto gli ospiti in fondo al letto rispettano i fiaschi.

    una murena guazzante fra squille poi viene servita

    distesa su una padella. al che dice l’ospite ‘incinta

    è stata presa, ché dopo il parto la carne peggiora.

    il sugo è un misto di: olio d’olive di prima spremuta,

    Venafro ce l’ha in dispensa; salsa di pesci d’Iberia;

    del vino vecchio cinque anni, al di qua del mare prodotto,

    nella cottura – al cibo già cotto si addice più di ogni

    altro il vino di Chio  –; poi del pepe bianco, d’aceto

    un po’ di quello che rese acidulo il vino Metimmeo.

    Rucole verdi, io per primo mostrai e le enule amare

    si posson cuocere dentro; Curtillo i ricci di mare

    senza lavarli: l’essenza è meglio che la salamoia’

    In quel momento precipita una pesante cortina

    ch’era sospesa sul piatto, tra nubi di polvere nera,

    quanta dall’agro campano non può sollevare Aquilone.

    panico per un momento ma poi, visto che più non c’era

    alcun percolo, in piedi ci alziamo. E Rufo chinando

    il capo, lacrima come se un figlio avesse perduto.

    Come sarebbe finita, se saggio così Nomentano

    tirato su non l’avesse: ‘fortuna, qual nume crudele

    è più di te con noi? Come dei fatti degli uomini sempre

    ti prendi gioco!’. A stento reprimere Vario poteva

    il riso col tovagliolo. E quel Balatrone che scherza

    su tutto ‘è questa la sorte’ diceva ‘dei vivi,

    mai che la fama coroni non impari, le tue fatiche.

    vedi, perché lautamente sia accolto io, tu ti torturi,

    preso da mille pensieri, che il pane non venga bruciato,

    che il sugo non sia portato scondito, perché tutti quanti

    gli schiavi servano bene vestiti e ben pettinati.

    Poi si dà il caso che vengano giù le cortine come ora

    è capitato; o che un piatto sia rotto da un servo che cade.

    Ma di chi invita, al pari di un capo guerriero, l’ingegno

    dai casi avversi è svelato, celato da quelli propizi’.

    Rispose a lui Nasidieno: ‘a te diano i numi qualunque

    cosa tu voglia: ché un buono tu sei, e un commensale gentile’.

    E chiede i sandali. Allora dovevi vederli nei letti

    svelarsi i loro segreti ronzanti sussurri all’orecchio".

    "Di più non avrei gradito nessuno spettacolo. Dimmi

    però di cosa ridesti in seguito. Vibidio intanto

    ai servi chiede se rotti non sian pure i fiaschi, ché a bere

    a lui che chiama non vengono dati bicchieri e mentre

    alle battute sue ridono ed eco gli fa Balatrone;

    o Nasidieno ritorna con un’altra faccia per l’arte

    di rimediare alla sorte; poi un seguito viene di servi

    su un gran tagliere portando le membra ben dissezionate

    d’una gru di molto sale cosparsa,  e non priva di farro,

    di grassi fichi nutrito il fegato  d’un’oca bianca,

    spalle di lepre staccate, che sono molto più saporite

    così che se con i lombi si mangiano. Poi il petto arrosto,

    vedemmo merli portare e senza le cosce colombe,

    vere leccornie, se l’ospite non raccontava la loro

    natura e la provenienza; noi per vendetta fuggimmo,

    senza gustare più niente del tutto, era come se avesse

    soffiato sopra Canidia,²⁶ peggiore che d’Africa i serpi.

    7.

    A zonzo per la via Sacra, andavo come è mio costume,

    in non so quali sciocchezze immerso, e rimuginando:

    mi si fa avanti qualcuno di cui solo il nome mi è noto,

    la mano strettami: Come ti vanno le cose, mio caro?.

    Bene, finora gli dico e spero che tu sia felice.

    Poiché mi segue:  Vuoi nulla? gli piazzo, ma quello: "Sai bene

    che un letterato mi dice io sono. Più ancora" rispondo

    per questo ti tengo in conto. Volendo scappare, tapino,

    ora cammino più svelto, ed ora mi fermo di colpo

    per sussurrare qualcosa al giovane schiavo, sudando

    giù fino ai piedi. "Bolano, o te fortunato d’avere

    facile l’incazzatura" dicevo fra me mentre quello

    cianciava a vuoto, lodando le vie, la città, poi notando

    che non fiatavo "Vorresti squagliartela  –  disse – lo vedo

    già da gran tempo; ma invano: ti tengo ben stretto;

    ti seguirò fino a dove andrai. Ma a te non conviene

    il lungo giro: ché voglio far visita a un tale lontano,

    che non conosci; sta accanto agli orti di Cesare, oltre

    Tevere. Ma non ho niente da fare, son svelto: ti seguo".

    Le orecchie abbasso nel modo dell’asino che si rassegna

    quando sul gobbo gli arriva un peso gravoso. Comincia:

    "Se ben conosco me stesso, tu più non terrai in conto Visco

    per l’amicizia o Vario; chi più di me infatti i versi

    scrivere sa, più veloce? Chi muover più dolcemente

    le membra e quando io canto Ermogene pure m’invidia".

    D’interrogarlo il momento è questo: "Ma tu non hai madre,

    o dei parenti qualcuno che a te provveda?. Nessuno

    più, sono tutti sepoltiFelici!. Io solo rimango"

    termina l’opera. "Incombe su me un triste fato: fanciullo

    per me lo trasse dall’urna la vecchia veggente sabina:

    ‘Né da funesti veleni sarà lui rapito, o da ostile

    spada né dalla pleurite o tosse o lenta podagra:

    lo annienterà un chiacchierone un giorno, perciò dai loquaci

    resti lontano se è saggio, da quando sarà adolescente’.

    Giunti già al tempio di Vesta, la quarta parte del giorno

    era passata, ed il caso voleva che fosse citato

    in tribunale; e se assente avrebbe perduto la lite.

    Se mi vuoi bene mi dice a assistermi resta. "Ch’io muoia

    se a stare in causa son buono o so di diritto civile,

    e vo di fretta nel posto che sai. Sono in dubbio, che fare,

    lasciare te o la mia causa. Me, è naturale. Non posso"

    mi dice e avanza: ed è duro contendere col vincitore

    per me; lo seguo. In quali rapporti sei con Mecenate?

    di qui riprende "di poca brigata è, uomo di senno.

    nessuno la sua fortuna sa meglio usare. Tu avresti

    un grande sostenitore, che resta al secondo posto,

    se presentarmi volessi: ch’io possa crepare se largo

    non ti faresti fra tutti. Ma lì non viviamo nel modo

    che credi. Non c’è fra tutte le case nessuna più pura

    né a questi mali più estranea: per niente m’importa, ti dico,

    che sia qualcuno più ricco di me o più sapiente; ciascuno

    ha il proprio posto. Son cose a stento credibili. Eppure

    è così. Rendi più grande in me il desiderio di stare

    vicino a lui. Devi solo volerlo: con il tuo valore

    lo espugnerai: conquistarlo si può ed è per questo che i primi

    accostamenti li rende difficili. Ma non mi faccio

    io scoraggiare: gli schiavi corrompere posso con doni;

    oggi mi buttano fuori, non mollo ma cerco l’istante

    in cui beccarlo per strada, lo seguo. Mai niente la vita

    ha dato agli uomini senza gran sforzo". Sta ancora parlando,

    ecco venir Fosco Aristio, mio grande amico, che l’altro

    sicuramente. Sostiamo. Da dove provieni?

    e dove vai? ci scambiamo domande, risposte. Comincio

    a strattonarlo, stringendo le braccia inerti, ammiccando

    cogli occhi storti, per farmi portare via. Fa lo gnorri

    quel bello spirito e ride; nel fegato brucia la bile.

    "Di non so che tu volevi parlare con me, mi dicevi,

    privatamente. Ricordo benissimo, ma in un momento

    più adatto intendo parlare; è il sabato di fine mese:

    offender vuoi i circoncisi Giudei?. Non mi frega" gli dico

    la religione. "Io invece un po’ sono superstizioso,

    uno fra tanti, parliamo in seguito. Scusa." Che giorno

    nero mi è capitato! Va via quel fetente, lasciando

    me sotto i ferri. Ma vuole il caso che quello si imbatta

    nell’avversario che Dove vai tu mascalzone? gli grida

    a voce altissima e posso chiamarti a testimoniare?.

    Io gli presento l’orecchio.²⁷ Lo porta in causa;  schiamazzi,

    di gente accorrere ovunque.  Apollo mi aveva salvato.

    FEDRA  di  Jean Racine

    traduzione di F. Capponi

    ATTO I

    SCENA  I

    IPPOLITO – La decisione è presa. Io parto, o Teramene

    lasciando la dimora  della cara Trezene.

    Da un dubbio tormentoso io mi sento assalire,

    e di restare inerte comincio ad arrossire.

    Più di sei mesi ormai dal padre separato

    non conosco la sorte di un volto così amato.

    Persino i luoghi ignoro che possono celarlo.

    TERAMENE – E in quale, mio Signore, andrete voi a cercarlo?

    Già per seguire il vostro timor non infondato

    i mari che Corinto separa, ho attraversato.

    Di Teseo ho domandato a genti che alla fonte

    vedono nell’Averno perdersi l’Acheronte.

    L’Elide ho visitato, e poi doppiando il Tenaro

    al mare son passato che vide cadere Icaro.

    Con quale nuova speme e in che lieto paesaggio

    credete di scoprire tracce del suo passaggio?

    Chi del re vostro padre è infine a conoscenza

    se voglia che il mistero resti sulla

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