Antologia Premio I ponti dell'Arte 2018
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Anteprima del libro
Antologia Premio I ponti dell'Arte 2018 - Guaccio Gennaro Maria
Antologia della XIV edizione
del Premio letterario
I Ponti dell’Arte
a cura delle associazioni culturali
I Ponti dell’Arte
e Circolo Letterario Anastasiano
BANDO XIV EDIZIONE
Premio I Ponti dell’Arte
SEZIONI
a) Narrativa
b) Poesia in lingua italiana
c)Poesia in lingua napoletana
d) Raccontare il patrimonio culturale
e) Fotografia
f) Romanzo
g) Silloge poetica
Un Premio letterario vuole dimostrare che l’uomo, animale razionale in grado di lasciare un segno di sé, ovvero una traccia di non meschini egoismi, tende sempre a migliorare ideali ed orizzonti. L’arte è infatti visione del presente e rapporto con i posteri e la poesia in particolare è rivelazione degli intimi recessi dell’animo umano: la nostra civiltà è nata dai contributi offerti dagli antichi aedi, capaci di esprimere non solo le passioni, i dubbi e le speranze dei loro tempi, ma anche l’ansia di comprendere il vero significato del mondo e della vita. Come ammonisce Quinto Orazio Flacco, nelle sue Epistulae, non c’è perfezione né grandezza senza fatica e i versi più belli richiedono un paziente lavoro di lima (limae labor et mora
), perciò colui che si accinge a scrivere dovrà levigare con cura la propria opera ed eliminare ogni suono ridondante o manchevole di pregio (luxuriantia compescet, nimis aspera sono levabit cultu, virtute carentia tollet
- Epist. II, 2 -) per produrre un armonioso mosaico di parole che sfidi con la sua forza il tempo.
Il vero artista crea per sé e per gli altri, invita perciò alla riflessione, anche se i sogni e la fantasia concedono troppe illusioni ed attese; ma non tutti accolgono l’arte nella sua interezza e complessità, e soprattutto nella speranza di favorire un progresso morale e culturale che sembra oggi impedito dagli automatismi tecnologici e da schemi aridi e caotici.
Il mistero della creazione artistica rappresenta ricerca mistica e profonda nell’anelito di comprendere l’Assoluto e il proprio Io: ma i tentativi di elevazione e di catarsi restano poco fecondi in una società corrosa dagli affanni di una sterile globalizzazione.
Sia dunque l’arte baluardo di speranza per una comune riscossa: uniamoci alla schiera degli autori che, coscienti dei molteplici e profondi arcani, ci invitano a proseguire nell’arduo cammino della ricerca e dell’umana solidarietà.
Gabriella Testa
Sezione Narrativa
Preservare la lingua
Ogni popolo si riconosce anzitutto per l’idioma che parla e, s’intende, scrive. Preservare la lingua di un popolo equivale perciò a salvarne l’identità. Questo, però, non è un cammino semplice dal momento che le lingue parlate sono lingue vive, cioè si trasformano mentre si parlano, acquisendo sia accezioni nuove per vocaboli vecchi, sia vocaboli nuovi in relazione alle invenzioni territoriali di qualunque genere, in relazione allo sforzo creativo degli artisti, poeti e scrittori vari ma anche varia giurisprudenza, e in fine, ma non ultimo, in relazione alle parole importate da altre lingue che danno colore diverso a ciò che si esprime. E allora che cosa significa salvaguardare l’idioma? Non può certo ridursi a posizioni del tipo di quelle storiche della prima metà del secolo scorso, quando fu imposto alla Nazione di non usare chauffeur al posto di autista. Né si può pretendere di parlare il fiorentino di Dante Alighieri che è tutt’altro dalla lingua di oggi. Salvaguardare l’idioma è e deve essere altro. In effetti ogni lingua possiede una sua struttura grammaticale e sintattica e una serie di modi di dire, nonché una fonetica del vocabolario e un vocabolario che non nasce ieri l’altro ma contiene la storia stessa della nazione e può dignitosamente essere arricchito da neologismi, purché essi rientrino nella struttura e nella funzionalità della lingua stessa. In tale ottica sono formulate le seguenti cinque opzioni di attenzione alla lingua, di cui sarebbe bene tenere conto allo scopo di non alienare l’idioma nazionale e avere allo stesso tempo un saldo punto di partenza per l’evoluzione dell’idioma stesso.
- La grammatica e la sintassi della lingua italiana devono costituire regole unitarie per tutta la nazione.
- I vocabolari della lingua italiana riconosciuti validi dall’Accademia della Crusca e dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani devono essere utilizzati in tutte le Istituzioni Statali quali regole imprescindibili per l’utilizzo adeguato, secondo le accezioni ivi riportate, delle parole da utilizzare negli scritti che riguardino precipuamente le leggi, i codici e le regolamentazioni pratiche della vita pubblica.
- Gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado devono essere esercitati a scrivere in italiano mediante l’uso di laboratori atti allo scopo.
- Gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado devono seguire laboratori di lettura di autori dell’ultimo secolo che abbiano scritto opere in lingua italiana soffermandosi sull’esame dei vocaboli adottati e sulle loro accezioni.
- Gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado devono studiare approfonditamente le opere dei grandi autori italiani del passato poiché fin dai primi documenti in volgare si delinea la forma della nuova lingua, anche se il De vulgari eloquentia è scritto in latino, in esso si precisa che nel vocabolario di una nazione entrano i costumi, le abitudini e la vita, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni di tutto un popolo.
G.M.GUACCIO
Giuria: Gennaro Guaccio (presidente), Teresa Maiello, Lia Manzi
Enrico Crispino, primo premio
Nasce a Frattaminore (NA) il 22 (o il 23?) dicembre del 1946, ma viene rivelato il I° gennaio successivo per fatti di guerra
. La paura della guerra, da poco conclusa, aveva indotto il papà Nicola a rinviare di un quadrimestre il reclutamento per la successiva ipotetica guerra. Perché… perché intanto poteva pur sempre scoppiare la pace! Ma poi a morire era stato lui, appena un anno dopo, in un incidente stradale. Per fortuna nessuna terza guerra mondiale è scoppiata. Solo uno scotto: a scuola con un anno di ritardo. E, sempre a scuola, è approdato, quasi per caso, da insegnante di scuola elementare, dove, però, è felicemente rimasto per ben 24 anni. Nel 1993 supera il Concorso e diventa Direttore didattico a Massa Carrara. Pur fuori sede si lascia convincere a candidarsi e diventa Sindaco di Frattaminore mentre, indipendentemente da ciò, ottiene il trasferimento a Frattamaggiore (NA), ove resterà per dieci anni. A parte le ingenue poesiole dell’età adolescenziale e giovanile, si può dire che non aveva mai scritto fino al 2009, quando pubblica il libro Cinque anni alla Dala Pertini (diario postumo di un sindaco improbabile).
Raffaele Bellotta
4 ottobre del 1943. Un giorno come tanti, se non fosse che siamo ancora in guerra. Che vuoi che importi alla gente, quella che in tanti amano chiamare popolino, se siamo passati da un’alleanza all’altra. Le bombe sono bombe, chiunque le sganci. Non hanno bandiere. Laggiù, a terra, non ci sono amici: solo persone e case, pronti a diventare morti e macerie, come votati a dare senso alle orribili deflagrazioni.
Come tutti i giorni, anche quella mattina, Raffaele ha una gran voglia di andare in bagno. Nessuna patologia, lieve o grave che sia; solo il naturale bisogno fisiologico quotidiano. E, allora, perché non farlo? Qualche problema, evidentemente, deve esserci. Anzi, più d’uno, perché non parliamo della normalità odierna. Situazione e periodo storico, abbiamo visto, non sono quelli attuali. In piena seconda guerra mondiale, la normalità vuole che la stragrande maggioranza della gente, il popolino, viva in case pollaio. Boschetto Reciso, piccolo centro a nord di Napoli, non fa eccezione. Solo palazzi, tutti uguali: piano terra e primo piano, o anche solo piano terra, con relativa soffitta, tutti con l’immancabile corte, più o meno grande, per le esigenze contadine, ma anche per i giochi dei fanciulli. Di appartamenti con bagno e cucina nessuno ha mai sentito parlare; solo in città ce ne sono, ma, qui da noi, sarà possibile ipotizzarli nei futuri progetti della ricostruzione post-bellica. Non qui, non ora. Solo monolocali o, al massimo, bilocali per famiglie particolarmente numerose, con caminetto/cucina, un tavolo, una credenza, un armadio per riporre di tutto, e poi letti. Qualche volta è il piccolo desco di un ciabattino o di altro artigiano, che, in certe ore, può diventare tavolo da pranzo. Nessuno scandalo, nessuna meraviglia. Nessuno deve durar fatica per accettare quella realtà. È quella la normalità. Nessuno sforzo va fatto per abituarvisi. E il bagno? Sarà retaggio della meraviglia dei savoiardi, che, trovandosi nella stanza da bagno della reggia di Caserta, dovettero annotare che c’era pure uno strano oggetto a forma di chitarra, ma, fino ad ora, solo pochi conoscono le varie porcellane dei bagni odierni per averli visti in città, pur se nessuno ne ha nella propria casa.
I più fortunati, i signori, fuori della porta, sul prospiciente terrazzino, hanno uno stanzino per i bisogni. Per tutti gli altri, quelli dei monolocali, è al piano terra, in un angolo del cortile. Il cosiddetto bagno è nient’altro che uno sgabuzzino, che arriva si e no al metro quadrato. Una porticina con un’apertura retinata in alto per l’aerazione, un grande gradino con un foro di adeguata circonferenza al centro e un condotto per giungere, più o meno, direttamente al pozzo nero, che periodicamente va liberato, con effluvi che invadono le strade circostanti per lunghi tratti. E poi carretti, con botti sciabordanti e debordanti, che vanno a spargere nelle campagne il frutto di mesi di accumulo. Con molta approssimazione lo si dice concime per l’insalata. Alla salmonella o altri germi, diremmo oggi.
E, puntualmente, di buon mattino, ogni cortile ha la sua processione: un viavai di donne che trionfalmente escono dalle case, inalberando, ciascuna, un vaso di terracotta o di zinco, con relativo traballante coperchio, preoccupate di recarlo lateralmente al corpo, con viso a guardar di lato, quello opposto, e naso arricciato
per impedire l’accesso di tanto profumo. E giù per le scale o dagli usci terranei a formare la fila di quattro, cinque o anche più, devote di un rituale di cui farebbero volentieri a meno. E anche litigi possono capitare, per precedenze o per sversamenti causati da un uso improprio del mezzo e del luogo. La foga, poi, fa il resto. Ma poi, tutte, deposto il cadeau, si danno a pulire, versando inutilmente secchi d’acqua. La frittata è fatta e il profumo continuerà a occupare per ore l’aere di un intero cortile. Ma, tant’è. E in bagno? In bagno si va come e quando si può, sempre attendendo il proprio turno, nella considerazione che nel palazzo di abitanti ce ne sono proprio tanti. E quando poi l’urgenza preme e non è possibile aspettare, a due passi c’è sempre la campagna ospitale. Per i maschi.
Dall’inizio di Via Del Progresso alla strada denominata Carraia ci sono solo cento metri o poco più. Una breve passeggiata e si guadagna uno spazio/latrina immenso, con i freschi, naturali deodoranti profumi della campagna, e tanta pace, come richiesto per un impegno che va dalla piacevole liberazione, fino alla lotta armata tra espellendo ed espulsore.
In un giorno come tanti altri, così ripetitivo e noioso, chissà cosa rimugina tra sé Raffaele quella mattina. Pensa alla guerra, che non accenna a finire, e agli ordigni che, di lontano, rimbombano o, piuttosto, all’ufficio che va a espletare, o ad altre cose più carine, o a tutte quante insieme? Ancora pochi passi e Raffaele avrebbe guadagnato il suo immenso bagno; c’è solo da individuare l’albero a cui regalare il frutto di misere cene, con l’unica attenzione a non scegliere un albero già usato da altri ed evitare impronte infelici. Ed è questa l’ultima attenzione da porre prima di dare il via a tanta operazione. Ma l’esperienza maturata negli anni, non può essere accantonata per improvvisa distrazione. Semmai è vero il contrario. Passo esperto e scelta sempre felice. Anche quella mattina. Ma c’è la guerra. Ci sono le bombe e le loro schegge impazzite che vagano come a cercare bersagli imprevisti, fuori dalla naturale traiettoria dei proiettili. E ci sono ovunque persone inermi che l’infame destino ha individuato e posto in linea di tiro. Neanche il tempo di pensare alle possibili conseguenze di quegli scoppi e Raffaele se ne trova ignaro bersaglio. Uno squarcio al ventre e urla lancinanti a chiedere aiuto. Si sentono e, di voce in voce, si rincorrono. La voci si fanno notizia, che si diffonde in un batter d’ali. Arriva a casa, la sua, ove moglie e figli aspettano ansiosi il ritorno di un padre e marito dolce e premuroso. Ma non può. Raffaele giace in terra sanguinante, ma vivo. Una corsa affannosa e l’intera famiglia è sul posto. Urla e pianti disperati, ma non può andare così. Raffaele è vivo; seppure affannosamente, respira. Ed è allora che la disperazione fa spazio al coraggio. Vincenzo, vent’anni, o giù di lì, raccatta quel cencio di padre e sulle braccia, o sulle spalle, chi lo ricorda?, prova a riportarlo a casa. A parti invertite, si ripete l’amorevole gioco tra padre e figlio. Stavolta, però, non è un gioco. Le sole premure non possono guarire, va fatta qualcosa. Va fatta subito. Non ci sono auto né ambulanze per portarlo all’ospedale. C’è un piccolo carretto in cortile. Basterà. Vincenzo lo adagia come può e via, di corsa, contro il tempo. Pardinola, piccolo e male attrezzato ospedale, che vuoi che possa fare per un delicato e complesso intervento? Certo il suo non è un ragionamento razionalmente elaborato. Solo una risposta istintiva a una situazione disperante e, probabilmente, già disperata. Forse Aversa può essere la risposta, spera. Il carretto ha già imboccato la strada di gran carriera.
Via Del Progresso, palazzo Mastropaolo e, a sinistra, inizia il percorso fuori dell’abitato. Tira il carretto, Vincenzo, senza guardare alle sue spalle, per non vedere il padre agonizzante; ma dovrebbe tapparsi le orecchie per non sentirlo. Aversa è a circa otto chilometri, ma, a vent’anni, non pesa il carretto; pesa il fardello di un carico umano, che devi trattenere in vita, perché la tua ultima idea è quella di perderlo. Per te, per mamma, per i fratelli. Non c’è fatica che freni la corsa. Non c’è affatto fatica. Così, velocemente, Vincenzo giunge quasi all’incrocio del Cavone, mentre vede poco più avanti il Municipio