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Il romanzo di Marusja
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E-book268 pagine3 ore

Il romanzo di Marusja

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Info su questo ebook

Adriano Petta presenta il suo romanzo plagiato 4 volte! C’era una volta L’albero di Giuda, il primo romanzo di Adriano Petta, protetto, invece che alla SIAE, alla Proprietà Letteraria della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Registro Pubblico Generale – Parte I, n. 273793 – prot. 3013). Inviato a quattro colossi editoriali, fu rifiutato… ma dopo un anno vennero pubblicati quattro romanzi tutti con la stessa trama/idea de L’albero di Giuda da quattro grossi autori. Nel corso degli anni a seguire Adriano Petta tramò un’orrenda vendetta che si realizzò nel romanzo noir La cattedrale dei pagliacci, in cui i quattro plagiari finivano bruciati vivi. Nella realtà tre di essi si sono spenti quasi serenamente, mentre Adriano Petta ha riscritto L’albero di Giuda con il titolo Il romanzo di Marusja.
Tempesta Editore invita a leggere questo piccolo capolavoro (un thriller mozzafiato) esortando così i lettori:
Perché accontentarsi di leggere i plagi quando si ha a disposizione l’originale?
“[…] Nodo, Crisi e Scioglimento: un dramma in tre tempi. Quando la ragione si fa tenebra, l’amore e la musica imparano il più temibile dei linguaggi: quello della schiavitù e della tirannide dei sensi. Inizia la discesa agli inferi e lo scollamento tra follia e realtà, tra sogno e delirio. Nella Bologna ingrigita dalla pioggia ininterrotta, negli accesi attimi in cui serpeggia il fulmine, si staglia la figura di Laura, adolescente dagli ambigui occhi verdi, Lolita intrigante che domina la figura paterna e la porta alla dannazione. Laura avanza, bella come la Venere uscente dalle acque: il canto della natura del lago di Colle dell’Orso del natìo borgo selvaggio (Carpinone) strega e dona l’oblio. Ma in un universo pietrificato, esplode una frase illuminante: Non esiste possibilità di fuga verso altre scene. […]”
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9788834156230
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    Il romanzo di Marusja - Petta Adriano

    TEMPESTA RACCONTA

    

    

    Il romanzo di Marusja»

    di Adriano Petta

    © 2014 Adriano Petta

    © 2014 Tempesta Editore

    I edizione cartacea 15 novembre 2014 

    collana: Tempesta Racconta 

    ISBN 9788897309673

    Tempesta Editore

    via Nicola Catena, 11 - 00069 Trevignano Romano RM 

    www.tempestaeditore.it

    info@tempestaeditore.it

    cell. 3479282082

    Adriano Petta

    Il romanzo di Marusja

    Il migliore dei mondi impossibili

    postfazione di Rosa Amato

    

    a tutti gli angeli in cui ho creduto di ravvisare la mia Laura

    

    Prima Parte

    Nodo

    ...la malattia creatrice, la malattia che largisce la genialità, che scavalca gli ostacoli e nell’ebbrezza temeraria balza di roccia in roccia, è mille volte più benvenuta nella vita di quanto non sia la salute che si trascina ciabattando...

    Thomas Mann

    Ma alla fine il Poeta soccombe sotto l’abbraccio mortale dell’umanità, il mondo rimane un’alcova oscura piena di sogni addormentati, di silenzi atrocemente agitati, un’estasi che scorre tra le rive della morte, un respiro Satanico che insegue la bellezza, ed ecco allora che il suo bacio diventa un gesto impuro, perché la coscienza del male diventa la coscienza nel male.

    Donato Di Poce

    

    I

    Abbandonato sul divano ascoltavo il racconto, sguardo perso oltre i contorni vaporosi della ragazza, nel tardo chiarore domenicale di Bologna, oltre l’affilata figura dell’Asinella che tagliava la fetta azzurra di cielo incorniciata dai listelli della vetrata.

    «La foresta amazzonica è la natura selvaggia, forse l’ultimo posto incontaminato che l’uomo aveva risparmiato...».

    «Sino al passaggio della cometa di Halley...» m’intromisi laconico, gettando un’occhiata al depliant che, sul frontespizio, portava la scritta, a caratteri cubitali, GRAN VELADA HALLEY.

    «Proprio così, Nicola... Pensa che Yutajé, come qualsiasi altro posto della foresta amazzonica venezuelana, lo si può raggiungere solo con piccoli aerei da turismo».

    «È un villaggio?» domandò mia figlia.

    «No, Laura, è soltanto un grosso prato in mezzo alla foresta dove per l’occasione venne allestito l’evento. A poche centinaia di metri fu tagliata una lingua di alberi ricavandone una pista corta e stretta! Si trova a circa trecento chilometri a est di Porto Ayacucho, al centro del Territorio Federale delle Amazzoni e c’è una splendida cascata che si chiama, appunto, Yutajé. Venne scelto perché era il luogo perfetto per osservare la cometa. L’organizzazione sembrava impeccabile. Donne e uomini dovevano vestire di bianco. Erano state indicate le coordinate della cometa. Vedi? Distanza Terra-Cometa, cinquanta milioni di chilometri; distanza Luna-Cometa, centocinque gradi. E persino la longitudine della coda: venti gradi. Doveva apparire alle tre di notte... ma già dalle prime ore della sera eravamo diventati tutti esperti in astronomia: azimut centoventi gradi da misurarsi nella direzione nord-est-est-sud, favolose macchine fotografiche, binocoli sette-per-cinquanta, telescopi, champagne... e un concerto di pianoforte! Con il nuovo astro della tastiera in predicato di oscurare Rubinstein: lo sconosciuto pianista venezuelano José Villanova!».

    «Un concerto di pianoforte... per la cometa di Halley?» domandò mia moglie mentre Giulia riprendeva fiato.

    «Dicevano che faceva tanto chic - continuò con voce allegra la ragazza, modellando figure immaginarie con le dita - e la scelta del programma, da sola era una vera sciccheria. La Pastourelle di Poulenc, dalle Visioni fuggitive di Prokofiev: Ridicolosamente, la Sonata di Galuppi... e tutto Liszt: Sant-Francoise de Paule marchant sur le flots, Benediction de Dieu dans la solitude, e, per finire, Gaudeamus igitur!

    Verso il tramonto arrivò il biplano a pedali con un prototipo dell’Effe-trecento-e-otto, trasportato direttamente da Pordenone: tre metri e otto centimetri... il pianoforte con la coda più lunga del mondo! Proprio al centro della radura cominciarono a erigere un palco altissimo. Nel frattempo, la gente vestita di bianco si aggirava come fantasma in mezzo alla radura, fra tavoli zeppi di caviale, candele e champagne. Inutile dirvi che erano tutti baroni, conti, industriali: l’alta borghesia italoamericana. Sentivi parlare solo di dollari, di petrolio, del costo della milizia privata, gli jaunços, che stava arrivando alle stelle, eppure erano ancora maledettamente utili, perché ogni tanto una lezione ai contadini bisognava darla per insegnar loro il rispetto della proprietà e di Dio. Le donne, invece, erano indaffaratissime a reggersi in equilibrio sui tacchi alti che puntualmente sparivano nelle crepe del terreno, tutto riarso per la siccità. La mia amica e io ce ne stavamo accoccolate su due amache, godendoci lo spettacolo. A sera inoltrata, il palco era stato montato e il lungo pianoforte troneggiava maestoso. Le vestali e i loro angeli custodi già traballavano per gli ettolitri di Dom Pérignon ingurgitati. Le fiaccole erano accese: si aspettava solo l’arrivo dell’altro carico di latifondisti, conti e baronesse. All’improvviso, dalla foresta sbucò un tizio con la barba lunga e un saio nero strappato, occhi spiritati. Urlava. Era tanta la sporcizia che si portava appiccicata addosso, che il popolo chic si scansò terrorizzato e nessuno osò fermarlo quando salì sul palco e montò sul mastodontico pianoforte, cominciando a tuonare una filippica politico-religiosa. Girolamo Savonarola reincarnato, alla luce delle fiaccole che crepitavano a causa del vento che aveva preso a urlare fra gli alberi, cominciò a invocare l’Apocalisse.

    "Come padre Frei Betto, anch’io nego il dio che negano i marxisti-leninisti: è lo stesso dio, è il vostro dio, il dio del capitale, dello sfruttamento, il dio nel nome del quale fu sterminato il popolo che abitava questa foresta, il dio che benedisse i vincoli della Chiesa con voi, rappresentanti della corruzione e dello Stato Borghese, quel dio che oggi legittima dittature militari come quelle di Pinochet! Questo dio con cui vi siete alleati e che Marx denunciò... questo dio lo nego anch’io. Non è il Dio della Bibbia, non è il Dio di Gesù! Mentre il Dio di Gesù e della Bibbia calerà la spada della giustizia su questa empia profanazione. Dopo aver causato il genocidio del popolo a cui Dio aveva assegnato questa meravigliosa terra, ora venite a profanare col vostro lusso, col peccato e con quest’orribile strumento... l’ultimo pezzetto di Paradiso sulla Terra! Dio! Scaglia la tua collera su questi peccatori! Fa’ che questa festa pagana, questo baccanale, quest’empio concerto non abbia luogo! Lancia i tuoi fulmini su Yutajé!" - Giulia tirò il fiato - e mentre il vento urlava indemoniato, il cielo prese a scagliare fulmini veri. Chi reagì fu soltanto José Villanova con due assistenti, costrinsero Girolamo Savonarola a scendere. Mentre i due lo trascinavano via, il pianista aprì la lunga coda dell’Effe-trecento-otto e si mise alla tastiera, urlando che avrebbe suonato la Benedizione di Dio... di quel Liszt che era nato proprio mentre una cometa passava sopra la sua terra. Con la mia amica ci eravamo avvinghiate a un albero, affascinate dallo spettacolo. E proprio mentre il José Villanova pestando i tasti faceva urlare le prime note della Benedizione, fulmini e tuoni aprirono le cateratte del cielo e prese a venir giù un temporale. Il popolo vestito di bianco era rimasto impietrito dallo spavento. Il Villanova, preda ormai d’un irrefrenabile raptus, mugghiava le note, le pestava mentre il flagello d’acqua scavava la terra attorno ai pali del palco. Un urlo del Savonarola che, di nuovo libero, inginocchiato nel fango levava le braccia al cielo in segno di ringraziamento, accompagnò il crollo del palco, del pianoforte e del pianista. Il popolo chic, sempre più sporco e atterrito, prese a urlare di paura, in mezzo ai tuoni e all’Effe-trecento-eotto che emetteva i suoi ultimi ferrosi lamenti».

    Giulia non ce la fece più a continuare, scoppiando in una risata che contagiò Laura. Mentre rideva, con le mani continuava a mimare il crollo del pianoforte... e presi a ridere anch’io. E riuscimmo a contagiare anche mia moglie. Giulia ci raccontò com’era andata a finire. L’altro biplano a pedali incappato nella tempesta, si era perso, ma era riuscito a effettuare un atterraggio di fortuna proprio accanto alla missione di Girolamo Savonarola! Avevano sì trovato rifugio, ma i frati li avevano tenuti segregati per due settimane nelle celle di clausura a pane, acqua, rosario e parecchie prediche al giorno! E nessuno era riuscito a vedere nemmeno un pezzettino della coda della cometa di Halley.

    La luce del sole si alzava rapidamente dalle arcate dei portici. Per me e Marta il pomeriggio della domenica erano le ore più lugubri della settimana, ma le risate di Giulia erano servite a iniettarci una carica di buonumore. Giulia Raimondi, diciotto anni, uno più della nostra Laura: frequentavano il quarto anno del Liceo Musicale. Studiavano pianoforte. Entrambe avevano programmato, una volta finito il liceo, di iscriversi al Conservatorio. Giulia apparteneva all’alta borghesia della città. Era una ragazza semplicissima e il suo gioco preferito era quello di scaricare il carattere ironico sulle manie e sulle stravaganze della madre e delle amiche chic. Non era una pianista eccezionale eppure riusciva a trasmettere la sua impetuosità. Per questo le si perdonava il fatto che pestava la tastiera. E Marta mi beccava spesso perché ero noioso con il continuo esaltarne le virtù.

    Mentre la spossatezza e il languore per il gran ridere andavano abbandonandoci, fissavo Marta che si era fermata scrutando la penombra di una vetrina. Aveva trentacinque anni, due meno di me, ed ero stato io a strapparla all’università. Aveva diciannove anni quando aveva finito il liceo classico e io, giunto dal mio selvaggio paesino molisano, l’avevo conosciuta a una Festa dell’Unità. L’avevo voluta, amata... e Laura già sgambettava felice dietro di noi, nella chiesa, il giorno delle nostre nozze: la nostra bambina aveva quasi un anno. Marta Bernini, della vecchia e decaduta famiglia Bernini. Con lei avevo sposato anche la madre vedova, oltre al piccolo e accogliente attico al centro. Quasi timorosa d’intromettersi troppo nella nostra vita, mia suocera, dopo appena tre anni che viveva con noi, si prese una banale broncopolmonite... e ci lasciò soli. Io avevo appena conseguito il diploma in elettronica; a Bologna non ero venuto soltanto per la Festa dell’Unità, ma per sostenere un colloquio con una grande azienda di apparecchiature elettromedicali. Fui assunto, e questo facilitò tutto.

    Quando ci accorgemmo che Marta era incinta, non si scatenò alcun dramma: mia suocera era una donna comprensiva; aiutò Marta a superare i momenti di difficoltà, a renderle meno gravoso il salto da studentessa a madre e casalinga. Io ero addetto all’istallazione e alla manutenzione di apparecchiature presso ambulatori e ospedali della città e della regione. Arrotondavo lo stipendio grazie a Piero, il mio primo amico di Bologna: lavorava presso una ditta che costruiva strumenti musicali elettronici. Ultimamente stavano cercando di progettare un sofisticatissimo elaboratore che potesse riprodurre tutti gli strumenti musicali di un’orchestra: tentavano di creare artificialmente un’intera orchestra.

    Posai lo sguardo sulla figura di Marta. Capelli castano chiari, spalle larghe, fronte alta, mento un po’ sporgente con una fossetta al centro. Da pochi mesi si era finalmente decisa a uscire dall’apatia che l’attanagliava. Aveva accettato la proposta della sua amica Emilia, titolare di uno studio di arredamento, e aveva cominciato a lavorare.

    Per un attimo i suoi occhi incontrarono i miei nello specchio di una vetrina. Mentre si andavano accendendo le luci sotto i portici, tentai di rompere il silenzio «Come c’è finita a Yutajé quella scatenata creatura?».

    Liberò una smorfia sarcastica che le deturpò il viso «Le sue condizioni economiche non sono certo quelle di nostra figlia. Trascorrere un fine settimana a Londra o a Parigi, per Giulia è più facile che per noi andare a prendere un gelato sopra San Luca».

    Rallentò: non voleva che mi perdessi la prossima battuta «Giulia diventerà quasi certamente una buona concertista, ma a casa sua c’è un semplice pianoforte a muro. Per suonare un gran coda... deve farlo al Liceo oppure in una sala pubblica».

    «A Natale, quando ho firmato le cambiali, non potevo prevedere che due settimane dopo mi avrebbero tagliato lo straordinario! Erano quattrocento euro al mese: l’importo di ogni cambiale».

    «Settantadue rate. Sei anni. Trentamila euro. E il bello è che proprio tu, come sindacalista, hai lottato per l’abolizione dello straordinario. E ci sei riuscito! E la tua società non ha assunto nessuno. E ora ti spremono per farti fare, durante l’orario normale, tutto quello che prima facevi nell’arco di un’intera giornata».

    «Marta, in qualche modo me la caverò, non ti preoccupare».

    «Certo. Come abbiamo sempre fatto in quindici anni di matrimonio: prestiti su prestiti. E per finire, uno stramaledetto Steinway mezza coda da trentamila euro! Sono capitata proprio male».

    «T’ho chiesto un po’ d’aiuto soltanto per questi mesi. Se riesco a portare a termine il progetto che mi ha affidato Piero, ci scapperà un bel gruzzolo che ci darà un po’ di respiro. Nel frattempo...».

    «Nel frattempo, io, arredatrice nel corso di una notte, batto cassa a Emilia. Io ancora ce l’ho un po’ di dignità e d’amor proprio».

    «Che diavolo c’entra la dignità con nostra figlia? O per te è poco dignitoso rinunciare ogni tanto a un vestito, allo yoga, alla manicure, alla pedicure, al coiffeur, agli psicanalisti, psicagoghi o esorcisti? Il tuo amor proprio si sente tanto abbrutito al pensiero di fare qualche sacrificio per il futuro di Laura?».

    Avevo rallentato. Le avevo messo una mano sulla spalla tentando di fissarla negli occhi.

    Ma lei riprese a camminare «Il vecchio pianoforte era più che sufficiente. Il mostro le ha tolto spazio, aria, vita. Per quanto tempo dovrà rinunciare a una vacanza? Tu sai quanto ci tiene ai viaggi! E per quanto riguarda le rinunce, ti ricordo che ho sacrificato tutto per te e tua figlia. La mia stessa vita. Ma non ti preoccupare: anche se per ora Emilia non può darmi più di tanto, è comunque sufficiente per le mie manie. Dal tuo stipendio tolgo solamente i pasti e in cambio faccio la serva a te e tua figlia».

    Quando la sua rabbia diventava amara, l’orgoglio s’impossessava di lei e Laura diventava ‘tua figlia’.

    «‘Nostra’ figlia...».

    «Sarebbe nostra se mi avessi permesso di partecipare alla sua educazione. Invece m’hai annullata. Con la sua complicità, certo, ma tu gliele hai date tutte vinte. Non sei soltanto un ingenuo, ma un folle perché stai giocando con un essere umano. Tu non stai mai in casa, ora non ci sto più nemmeno io: come la troviamo quando rincasiamo? Non di certo sul vostro maledetto mostro nero, ma sempre davanti a quel dannatissimo computer!».

    Erano anni che non faceva discorsi così lunghi. Quello che mi aveva sempre spaventato era il suo mutismo, le frasi spezzate, lapidarie, le sentenze inappellabili.

    «Marta, a nostra figlia l’aspetta un futuro diverso dal nostro. Questo mondo che si sta sfasciando non riuscirà a inghiottire la nostra Laura. Diverrà una grande concertista, girerà il mondo e si nutrirà solo di quelle emozioni che per te sono inutile zavorra. Al diavolo i soldi, al diavolo tutto! Non mi pento di quello che ho fatto».

    Fu Marta, stavolta, a rallentare. E fermarsi. Non esitò a piantarmi negli occhi il suo sguardo spietato «Nicola, tu l’hai circondata d’affetto, di adorazione. Le stai dedicando la vita: è vero. Ma Laura conosce perfettamente il perché di questa venerazione, sa che da lei ti aspetti qualcosa, è ben cosciente che deve assolutamente diventare una concertista di fama internazionale. Stai donandole la vita stessa affinché lei realizzi un TUO sogno! Il tuo non è amore. Tu vuoi comprarti un pezzo di felicità per mezzo delle mani di tua figlia! E per questo stai distruggendo il nostro matrimonio. Pur sapendo che Laura non potrà mai riuscire!».

    Mi sentii schiacciare sotto il peso di quel sogno che ormai mi perseguitava e che non mi dava più pace «Mi dici perché Laura non dovrebbe farcela?».

    «Si sta sfasciando un matrimonio e lui è sempre là, col pensiero al suo delirio...».

    «Marta, guardami: pensi davvero che io possa aver prodotto l’effetto contrario? Che possa averla inibita?».

    Il suo sguardo si fece meno ostile.

    «Questo no. Io sono onesta, e non solo con me stessa. Laura non riuscirà perché ha dei limiti. Limiti di sensibilità dovuti forse alla generazione a cui appartiene, al mondo in cui viviamo, al suo carattere. Limiti che si porta nel sangue. E nulla e nessuno potrà modificare questo stato di cose. E la tua ragione lo sa. Mentre la tua testardaggine è così diabolica che non te ne frega niente di distruggere tre vite, la tua compresa».

    Riprese lentamente a camminare, la seguii come un automa.

    «Nicola... devi fartene una ragione: Laura ha preso da te la predisposizione per la musica e da me ha ereditato il carattere ordinato... o, come direbbe il tuo maledetto Fromm, sterile, pedante, privo di spirito d’iniziativa; una personalità negativa, diresti tu. I miei geni, evidentemente, sono più forti dei tuoi. Facesti male, quel giorno alla Festa dell’Unità, ad adocchiare me».

    Il suo sguardo si era imbevuto di malinconia. Là dove finiva un portico e ne cominciava un altro, un lembo di marciapiede era cosparso di ciocchi fangosi ancora intrisi di neve. Volevo continuare a spiegarle, ma le parole sul carattere ordinato e sterile di Laura avevano riacceso la mia angoscia.

    Da via Castiglione prendemmo via Farini e, poco dopo, sbucammo in piazza Santo Stefano. Rasentammo i pini attorno alle Tre Chiese mentre uno sparuto gruppo di anziani usciva dalla funzione serale.

    «Laura non condurrà una vita di merda come la nostra - masticavo amaro, farfugliavo, la vista annebbiata - Laura non appartiene a questo mondo».

    I vetri di una finestra emisero il riverbero di un raggio di sole morente, la luce guizzò sugli alberi accanto alle chiese, un vento leggero liberò un sottile fruscìo alle foglie. Assieme al riflesso rossastro, nell’aria prese a vibrare uno struggente sciame di note musicali, il vago tremolìo di un organo. Uno stormo di piccioni si levò in volo alle nostre spalle: ci girammo... e ci trovammo di fronte nostra figlia «Ma come? Quelle facce... dopo questo splendido pomeriggio?».

    «Niente, Laura - fece Marta tentando di abbozzare un sorriso - cose nostre. E tu come mai già di ritorno?».

    Un guizzo di luce colpì il volto di Laura: i bellissimi occhi verdi emanarono un riflesso pericoloso. Alle sue spalle presero a tremolare le foglie di un lauro. Fissavo mia figlia con un crescente timore, uno sgomento sconosciuto, scrutando la rifrazione purpurea, mentre con gli occhi seguivo la scia rossastra sino ai vetri della finestra in alto, il polverìo luminoso si spense assieme alla struggente vibrazione sonora.

    Prima di rispondere, Laura m’interrogò con lo sguardo che evitai. Cominciò a raccontare, mentre avevamo ripreso la strada verso casa. Rallentava, sfilava il braccio da sotto il mio, costringeva la madre a fermarsi, io avevo fatto mezzo passo avanti. Mi giravo, la guardavo: aveva quasi diciassette anni. Il volto era incorniciato da una chioma folta e nera con riflessi color rame, lunga sin sotto le spalle e tenuta legata a coda di cavallo, appena un po’ ondulata e ribelle. Orecchie piccole, naso minuto e dolce, labbra carnose, a cuore: il labbro inferiore era appena rivolto in fuori, leggermente spaccato nel mezzo, e lasciava intravedere il bianco dei denti. Gli occhi verdi e luminosi erano incorniciati in lunghe sopracciglia di seta. Sguardo dolce, allegro, triste... ma sempre languido, mai violento, folgorante. Sopra una morbida gonna jeans che le sfiorava le

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