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E-book1.022 pagine16 ore

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Info su questo ebook

TUTTE LE NOVELLE

Nedda

PRIMAVERA E ALTRI RACCONTI

Primavera

La coda del diavolo

X

Certi argomenti

Le storie del castello di Trezza

VITA DEI CAMPI

Fantasticheria

Jeli il pastore

Rosso Malpelo

Cavalleria rusticana

La Lupa

L’amante di Gramigna

Guerra di Santi

Pentolaccia

NOVELLE RUSTICANE

Il Reverendo

Cos ‘è il Re

Don Licciu Papa

Il Mistero

Malaria

Gli orfani

La Roba

Storia dell ‘asino di S. Giuseppe

Pane nero

I galantuomini

Libertà

Di là del mare

PER LE VIE

Il bastione di Manforte

In piazza della Scala

Al veglione

Il canarino del N. 15

Amore senza benda

Semplice storia

L’osteria dei «Buoni Amici»

Gelosia

Camerati

Via Crucis

Conforti

L’ultima giornata

DRAMMI INTIMI

La Barberina di Marcantonio

Tentazione!

La chiave d’oro

VAGABONDAGGIO

Vagabondaggio

Il maestro dei ragazzi

Un processo

La festa dei morti

Artisti da strapazzo

Il segno d’amore

L’agonia di un villaggio

…e chi vive si dà pace

Il bell’Armando

Nanni Volpe

Quelli del colèra

Lacrymae rerum

I RICORDI DEL CAPITANO D’ARCE

I ricordi del capitano d’Arce

Giuramenti di marinaio

Commedia da salotto

Né mai, né sempre!

Carmen

Prima e poi

Ciò ch ‘è in fondo al bicchiere

Dramma intimo

Ultima visita

Bollettino sanitario

DON CANDELORO E C.I

Don Candeloro e C.i

Le marionette parlanti

Paggio Fernando

La serata della diva

Il tramonto di Venere

Papa Sisto

Epopea spicciola

L’Opera del Divino Amore

Il peccato di donna Santa

La vocazione di suor Agnese

Gli innamorati

Fra le scene della vita

NOVELLE SPARSE

Un’altra inondazione

Casamicciola

I dintorni di Milano

Il come, il quando ed il perché

Nella stalla

Passato!

Mondo piccino

«Il Carnevale fallo con chi vuoi; Pasqua e Natale falli con i tuoi»

Olocausto

La caccia al lupo

«Nel carrozzone dei profughi»

Frammento per «Messina!»

Una capanna e il tuo cuore
LinguaItaliano
Data di uscita13 ago 2019
ISBN9788831635820
Tutte le novelle
Autore

Giovanni Verga

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    Anteprima del libro

    Tutte le novelle - Giovanni Verga

    INDICE

    Giovanni Verga

    Biografia

    Il luogo

    La data

    Gli studi e la prima formazione

    Le prime esperienze a Catania

    Gli anni fiorentini

    Il ventennio a Milano

    Il ritorno a Catania

    La crisi creativa

    Gli ultimi anni

    L’adesione al colonialismo e al nazionalismo

    Riconoscimenti pubblici e morte

    La poetica e le idee

    Opere

    Romanzi

    Novelle

    Trasposizioni teatrali

    Bibliografia

    Biografie

    Studi sull’opera

    TUTTE LE NOVELLE

    Nedda

    PRIMAVERA E ALTRI RACCONTI

    Primavera

    La coda del diavolo

    X

    Certi argomenti

    Le storie del castello di Trezza

    VITA DEI CAMPI

    Fantasticheria

    Jeli il pastore

    Rosso Malpelo

    Cavalleria rusticana

    La Lupa

    L’amante di Gramigna

    Guerra di Santi

    Pentolaccia

    NOVELLE RUSTICANE

    Il Reverendo

    Cos ‘è il Re

    Don Licciu Papa

    Il Mistero

    Malaria

    Gli orfani

    La Roba

    Storia dell ‘asino di S. Giuseppe

    Pane nero

    I galantuomini

    Libertà

    Di là del mare

    PER LE VIE

    Il bastione di Manforte

    In piazza della Scala

    Al veglione

    Il canarino del N. 15

    Amore senza benda

    Semplice storia

    L’osteria dei «Buoni Amici»

    Gelosia

    Camerati

    Via Crucis

    Conforti

    L’ultima giornata

    DRAMMI INTIMI

    La Barberina di Marcantonio

    Tentazione!

    La chiave d’oro

    VAGABONDAGGIO

    Vagabondaggio

    Il maestro dei ragazzi

    Un processo

    La festa dei morti

    Artisti da strapazzo

    Il segno d’amore

    L’agonia di un villaggio

    …e chi vive si dà pace

    Il bell’Armando

    Nanni Volpe

    Quelli del colèra

    Lacrymae rerum

    I RICORDI DEL CAPITANO D’ARCE

    I ricordi del capitano d’Arce

    Giuramenti di marinaio

    Commedia da salotto

    Né mai, né sempre!

    Carmen

    Prima e poi

    Ciò ch ‘è in fondo al bicchiere

    Dramma intimo

    Ultima visita

    Bollettino sanitario

    DON CANDELORO E C.I

    Don Candeloro e C.i

    Le marionette parlanti

    Paggio Fernando

    La serata della diva

    Il tramonto di Venere

    Papa Sisto

    Epopea spicciola

    L’Opera del Divino Amore

    Il peccato di donna Santa

    La vocazione di suor Agnese

    Gli innamorati

    Fra le scene della vita

    NOVELLE SPARSE

    Un’altra inondazione

    Casamicciola

    I dintorni di Milano

    Il come, il quando ed il perché

    Nella stalla

    Passato!

    Mondo piccino

    «Il Carnevale fallo con chi vuoi; Pasqua e Natale falli con i tuoi»

    Olocausto

    La caccia al lupo

    «Nel carrozzone dei profughi»

    Frammento per «Messina!»

    Una capanna e il tuo cuore

    Note

    Giovanni Verga

    Tutte le novelle 

     Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.

    L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale specifico,

    dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina

    ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari 

    (come note e testi introduttivi), 

    è soggetto a copyright. 

    Immagine di copertina: Designed by denamorado / Freepik  (href="http://www.freepik.com)

    Elaborazione grafica: GDM, 2019. 

    Giovanni Verga

    Biografia

    Giovanni Carmelo Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) è stato uno scrittore e drammaturgo italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del verismo.

     Giovanni Verga viene registrato all’anagrafe di Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri; vista la natura dell’atto di registrazione e diversi elementi, sia la data sia il luogo di nascita non sono universalmente accettati. Il padre, Giovanni Battista Catalano, era di Vizzini, dove la famiglia Verga - di lontane ascendenze spagnole, visto che erano giunti in Sicilia col nome di Vegas nel 1282 circa[2] - aveva delle proprietà e discendeva dal ramo cadetto della famiglia alla quale appartenevano anche i baroni di Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una famiglia borghese di Catania. Il nonno di Giovanni, come testimonia il De Roberto[3] in un articolo raccolto, insieme a molti altri, in un volume a cura di Carmelo Musumarra, era stato carbonaro e, nel 1812, eletto deputato per Vizzini al primo Parlamento Siciliano.[4] Verga aveva due fratelli, Mario e Pietro.[2]

    Il luogo 

    Rappresenta da sempre motivo di acceso dibattito la questione riguardante l’esatto luogo di nascita di Giovanni Verga, nonché la data dell’evento; benché gran parte dei testi lo collochino a Catania, basandosi sul contenuto dell’atto di nascita, esistono fondate argomentazioni sulla base delle quali è possibile ritenere che essa sia avvenuta nei pressi di Vizzini.

    La seconda tesi, secondo cui Verga sarebbe nato in un podere di campagna, di proprietà dello zio don Salvatore, in contrada Tièpidi (una zona di campagna a pochi chilometri dal centro abitato di Vizzini, citata dall’autore verista nei suoi scritti col nome di Tebidi o Tèpidi), poggia su diverse constatazioni. La prima riguarda l’epidemia di colera che nell’estate del 1840 si era abbattuta su Catania, e che avrebbe spinto la famiglia Verga (già abituata ad abbandonare l’afosa Catania d’estate per la frescura collinare di Vizzini) a scegliere il piccolo centro del Calatino per proteggere sia la madre sia il nascituro da ogni potenziale rischio. Nato prematuro, di sette mesi, il piccolo sarebbe poi stato riportato nel capoluogo, dove il padre, Giovanni Battista Verga (originario di Vizzini ma residente nel capoluogo), registrò il figlio come nato a Catania, nell’abitazione di via Sant’Anna. Il documento aveva riporta infatti il numero 284 ter, prova del fatto che si tratta di un atto famiglia. È probabile, inoltre, che Giovanni Battista Verga avrebbe scelto Catania anche per compiacere la moglie Caterina Di Mauro (o Mauro), catanese, ed anche per comodità, visto che la futura eventuale richiesta di certificazioni avrebbe necessitato un viaggio nella distante Vizzini.

    La terza constatazione è relativa a un’annotazione apposta sull’occhiello di una copia della prima edizione delle Novelle Rusticane, che Verga regalò all’amico scrittore Luigi Capuana. Si legge:

    Sebbene secondo Corrado Di Blasi, curatore della biblioteca Capuana, la nota esatta sarebbe

    l’uso del termine villani dimostrerebbe, comunque, come Verga fosse a conoscenza di essere nato in un piccolo paese di provincia (come Capuana), a Vizzini o quasi, appunto in una contrada di campagna, e pertanto villano.

    Infine lo stesso Verga, in molte delle sue missive a diversi interlocutori, si dimostra schivo nell’affrontare l’argomento, segno che, effettivamente, anche in lui esiste la consapevolezza che Catania come luogo di nascita è una dichiarazione più che dubbia. Non è da trascurare, inoltre, che molti amici personali dell’epoca, come lo scienziato geologo Ippolito Cafici, il chirurgo don. Gesualdo Costa, il prof. comm. Luigi La Rocca e l’avv. Giovanni Selvaggi, sostenevano, per conoscenza diretta, che Verga fosse nato nelle campagne di Vizzini.

    La data

    Sull’esatta data di nascita l’incertezza è altrettanto ampia, ma si pensa che sia il 2 settembre del 1840. L’atto di nascita[5] riporta la data del 2 settembre 1840. Il 1º marzo 1915, Verga scrive tuttavia in una sua missiva a Benedetto Croce quanto segue[6]:

    L‘8 settembre è in realtà la data di battesimo, mentre quella di nascita è probabilmente antecedente e potrebbe risalire alla fine di agosto, se non addirittura il 29, giorno in cui a Vizzini si festeggia San Giovanni. Il trasferimento da Vizzini a Catania giustificherebbe, dunque, il ritardo nella registrazione e la posticipazione della data.

    Gli studi e la prima formazione

    Verga, compiuti gli studi primari presso la scuola di Francesco Carrara, venne inviato, per gli studi secondari, alla scuola di don Antonino Abate, scrittore, fervente patriota e repubblicano, dal quale assorbì il gusto letterario romantico ed il patriottismo. Abate faceva leggere ai suoi allievi le opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Manzoni e pagine dell’Estetica di Hegel; inoltre proponeva anche il romanzo storico-patriottico I tre dell’assedio di Torino (scritto nel 1847) del poeta catanese Domenico Castorina, che era lontano parente di Verga e che a quei tempi era considerato dai contemporanei il miglior poeta e scrittore catanese della prima metà dell’Ottocento.[7]

    Nel 1854, a causa di un’epidemia di colera, la famiglia si rifugiò nella campagna di Tèbidi e vi ritornerà nel 1855 per lo stesso motivo. I ricordi di questo periodo, legati alle sue prime esperienze adolescenziali e alla campagna, ispireranno molte delle sue novelle, come Cavalleria rusticana e Jeli il pastore, oltre al romanzo Mastro-don Gesualdo. A soli 18 anni, tra il 1856 ed il 1857, Verga scrisse il suo primo romanzo d’ispirazione risorgimentale Amore e patria rimasto inedito. Il romanzo infatti ottenne giudizio positivo da parte di Abate, ma venne considerato immaturo dall’insegnante di latino, don Mario Torrisi, che lo convinse a non pubblicarlo. Iscrittosi nel 1858 alla facoltà di legge all’Università di Catania, non dimostrò però grande interesse per le materie giuridiche e nel 1861 abbandonò i corsi, preferendo dedicarsi all’attività letteraria e al giornalismo politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il romanzo I carbonari della montagna (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. La sua fu dunque una formazione irregolare che, come scrive Guido Baldi,[8] … segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura umanistica che caratterizza la nostra letteratura, anche quella moderna: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la letteratura di consumo, come Alexandre Dumas padre (I tre moschettieri) e figlio (La signora delle camelie), Sue (I misteri di Parigi), Feuillet (Il romanzo di un giovane povero). Oltre a questo genere di romanzi egli prediligeva i romanzi storici italiani, soprattutto quelli a carattere fortemente romantico, come quelli di Guerrazzi la cui influenza si coglie anche nel suo terzo romanzo, pubblicato nel 1863, dapprima a puntate sulle appendici della rivista fiorentina La nuova Europa, intitolato Sulle lagune, nel periodo in cui, ottenuta ormai l’Italia l’indipendenza, Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Il romanzo narra la vicenda sentimentale di un ufficiale austriaco con una giovane veneziana in uno stile severo e privo di retorica. Entrambi innamorati della vita finiranno per morire insieme. Verga lavorò in questo periodo frequentemente anche ad Acitrezza ed Acicastello.

    Le prime esperienze a Catania

    In Sicilia si verificò un periodo di violente sommosse popolari per l’abolizione del dazio sul macinato e, soprattutto nella provincia catanese, si assistette alla reazione dei contadini che, esasperati, arrivarono ad uccidere e a saccheggiare le terre. Sarà Nino Bixio che, con la forza, riuscirà a riportare l’ordine. Nella novella Libertà, il Verga rivive con forza drammatica una di queste rivolte, quella di Bronte.

    Con l’arrivo di Garibaldi a Catania venne istituita la Guardia Nazionale e Verga, nel 1860, si arruolò in essa prestando servizio per circa quattro anni ma, non avendo inclinazioni per la disciplina militare, se ne liberò con un versamento di 3.100 lire[10] alla Tesoreria Provinciale. Nel frattempo, insieme a Nicolò Niceforo, conosciuto con lo pseudonimo di Emilio Del Cerro, fondò il settimanale Roma degli Italiani, che si basava su un programma anti-regionale, e lo diresse per tre mesi oltre a collaborare alla rivista L’Italia contemporanea. Il settimanale passerà in seguito sotto la direzione di Antonino Abate.

    Nel 1862, Verga e Niceforo ritentano l’esperienza con la rivista letteraria L’Italia contemporanea sulla quale il Verga pubblica la sua prima novella verista, Casa da thè. La rivista però ha breve durata e, dopo il primo numero, viene assimilata da Enrico Montazio alla rivista fiorentina Italia, veglie letterarie.

    Anche il giornale l’Indipendente, fondato e diretto da Verga sempre nel ‘62, venne, dopo dieci numeri, lasciato alla direzione dell’Abate. In quello stesso anno Verga pubblicò sulla Nuova Europa le prime due puntate del romanzo Sulle lagune che verranno sospese per un anno e infine riprese dall’inizio e terminate il 15 marzo 1863 dopo 22 puntate.

    Gli anni fiorentini

    Nel 1865 si recò per la prima volta, a malincuore, lasciando la provincia, a Firenze e vi rimase dal 13 gennaio fino al 14 maggio. In questo periodo scrisse una commedia, che è stata pubblicata solo nel 1982, dal titolo I nuovi tartufi, che venne inviata, sotto forma anonima, al Concorso Drammatico bandito dalla Società d’incoraggiamento all’arte teatrale ma senza successo e il romanzo Una peccatrice.

    Firenze era a quei tempi la capitale del Regno e rappresentava il punto d’incontro degli intellettuali italiani e il giovane Verga avrà modo di conoscere, in questo primo breve periodo, Luigi Capuana, allora critico della Nazione, i pittori Michele Rapisardi e Antonino Gandolfo, il maestro Giuseppe Perrotta e il poeta Mario Rapisardi.

    A Firenze ritornerà nell’aprile 1869 dopo che la nuova epidemia di colera diffusasi nel 1867 l’aveva costretto, insieme alla famiglia, a trovare rifugio dapprima nelle proprietà di Sant’Agata li Battiati e poi a Trecastagni.

    A Firenze, dove rimarrà fino al 1871, decise quindi di stabilirsi avendo compreso che la sua cultura provinciale era troppo restrittiva e che gli impediva di realizzarsi come scrittore.

    Nel 1866 l’editore torinese Negro gli aveva intanto pubblicato Una peccatrice, un romanzo di carattere autobiografico e fortemente melodrammatico, che narra la vicenda di un piccolo borghese catanese, Pietro Brosio, che, pur avendo ottenuto la ricchezza e il successo, ed essere riuscito a conquistare la donna dei suoi sogni, Narcisa, ritornerà alla sua mediocrità dopo che Narcisa, impazzita per amore, si toglierà la vita.

    Gli anni fiorentini saranno fondamentali per la formazione del giovane scrittore che avrà modo di conoscere artisti, musicisti, letterati e uomini politici oltre che frequentare i salotti più conosciuti del momento.

    Con una lettera di presentazione di Mario Rapisardi si introdusse facilmente in casa dello scrittore e patriota Francesco Dall’Ongaro dove incontra Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Andrea Maffei e Arnaldo Fusinato.

    Introdotto dal Dall’Ongaro presso i salotti culturali di Ludmilla Assing e delle signore Swanzberg, madre e figlia entrambe pittrici, conobbe Vittorio Imbriani e altri letterati. Iniziò quindi a condurre una vita mondana frequentando il Caffè Doney, dove conosce letterati e attori, il Caffè Michelangelo luogo d’incontro dei pittori macchiaioli più noti dell’epoca e recandosi spesso alla sera a teatro.

    Risale a questo periodo la stesura del romanzo epistolare Storia di una capinera che apparve nel 1870 sul giornale di moda Il Corriere delle Dame e che l’anno seguente verrà pubblicato, per interessamento del Dall’Ongaro, dalla tipografia Lampugnani di Milano. La prefazione al romanzo venne scritta dal Dall’Ongaro che riportava la lettera da lui scritta a Caterina Percoto per presentarle il libro. Il romanzo ebbe un gran successo e Verga incominciò ad ottenere i suoi primi guadagni.

    Il ventennio a Milano

    Il 20 novembre 1872 Verga si trasferì a Milano dove si fermerà, pur con diversi e lunghi ritorni a Catania, fino al 1893. Lo presenteranno l’amico Capuana con una lettera per il romanziere Salvatore Farina direttore della Rivista minima e il Dall’Ongaro con una al pittore e scrittore Tullo Massarani.

    A Milano frequenterà in modo assiduo il salotto Maffei dove conosce i maggiori rappresentanti del secondo romanticismo lombardo e si incontra con l’ambiente degli scapigliati, legando soprattutto con Arrigo Boito, Emilio Praga e Luigi Gualdo.

    Frequentando i ristoranti, come il Cova e il Savini, ritrovo di scrittori e artisti, conosce Gerolamo Rovetta, Giuseppe Giacosa, Emilio Treves e il Felice Cameroni con il quale intreccerà una fitta corrispondenza epistolare molto interessante sia per le opinioni sul verismo e sul naturalismo espresse, sia per i giudizi dati sulla narrativa contemporanea, da Zola a Flaubert, a D’Annunzio. Conoscerà inoltre il De Roberto con il quale sarà amico per tutta la vita.

    Gli anni milanesi saranno ricchi di esperienze e favoriranno la nuova poetica dello scrittore. Risalgono a questi anni Eva (1873), Nedda (1874), Eros e Tigre reale (1875). Sono opere che si iscrivono nella poetica tardoromantica del primo Verga, ad eccezione di Nedda, anticipo verista, corrente di cui lo scrittore catanese sarà il massimo esponente dalle novelle di Vita dei campi in poi.

    Lo scrittore intanto si era avvicinato ad autori nuovi per tematiche e forme, come Zola, Flaubert, Balzac, Maupassant, Daudet, Bourget, e aveva iniziato un abbozzo del romanzo I Malavoglia.

    Nel 1877 verrà pubblicata dall’editore Brigola una raccolta di novelle, Primavera e altri racconti, che erano precedentemente apparsi sulle riviste Illustrazione italiana e Strenna italiana, che presentano stile e soggetto diversi dai precedenti scritti.

    Nel 1878 apparve sulla rivista Il Fanfulla la novella Rosso Malpelo e nel frattempo egli iniziò a scrivere Fantasticheria. Lo stesso anno morì sua madre.[2]

    Risale a questi anni il progetto, annunciato in una lettera del 21 aprile all’amico Salvatore Paolo Verdura,[11] di scrivere un ciclo di cinque romanzi, Padron ‘Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa delle Gargantas, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso, che in origine avrebbero dovuto essere titolati la Marea per poi essere cambiati in I vinti, che, nell’intenzione del Verga, dovevano rappresentare ogni strato sociale, da quello più umile a quello più aristocratico e sarà questo l’inizio della più felice e fervida stagione narrativa dello scrittore catanese.[12]

    Il 5 dicembre  1878 Verga ritornò a Catania in seguito alla morte della madre e farà seguito un lungo periodo di depressione. In luglio lasciò Catania e, dopo essere stato a Firenze ritornò a Milano dove ricomincerà, con maggior fervore, a scrivere. Nell’agosto 1879 uscirà Fantasticherie sul Fanfulla della domenica e, nello stesso anno, scriverà Jeli il pastore oltre a pubblicare, su diverse riviste, alcune novelle di Vita dei campi che vedrà la luce presso l’editore  Treves nel 1880.

    Nel 1881 apparve sul numero di gennaio della Nuova Antologia l’episodio tratto da I Malavoglia che narra della tempesta con il titolo Poveri pescatori e, nello stesso anno, verrà pubblicato da Treves il romanzo che sarà però accolto molto freddamente dalla critica come confesserà il Verga stesso all’amico Capuana in una lettera dell‘11 aprile da Milano: "I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che ne hanno detto bene, molti, Treves il primo, me ne hanno detto male".[13]

    Nel 1882, oppresso da bisogni economici, pubblicò presso l’editore Treves il romanzo Il marito di Elena dove verranno ripresi i temi erotico-mondani della prima maniera anche se con una più accurata indagine psicologica.

    Risale a questo periodo la stesura delle future "Novelle rusticane" che verranno pubblicate man mano su alcune riviste.

    Durante la primavera lo scrittore si recò a Parigi dove incontrerà lo scrittore svizzero di lingua francese Louis Edouard Rod, conosciuto l’anno precedente, che nel 1887 pubblicherà I Malavoglia nella traduzione francese. Dopo Parigi compì un altro viaggio a Médan per vedere Zola e a giugno si recò a Londra. Alla fine dell’anno, ma con data 1883, pubblicò la raccolta di dodici novelle con il titolo Novelle rusticane dove si fa predominante il tema della roba. Lavorava intanto intensamente ai racconti Per le vie, iniziati l’anno precedente, che saranno pubblicati sul Fanfulla della domenica, nella Domenica letteraria e sulla Cronaca bizantina e da Treves nello stesso anno.

    Il 1884 sarà caratterizzato dall’esordio teatrale dello scrittore che, adattando la novella omonima apparsa in Vita dei campi, mise in scena Cavalleria rusticana che verrà rappresentata il 14 gennaio 1884 dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino e avrà come attori Eleonora Duse nella parte di Santuzza e Flavio Andò nella parte di Turiddu. Il dramma, come già aveva intuito il Giacosa che aveva seguito il lavoro del Verga, ottenne un grande successo.

    Confortato da ciò, Verga preparò un’altra commedia adattando una novella di Per le vie, Il canarino del n. 15, e il 16 maggio 1885, con il titolo In portineria, essa venne rappresentata a Milano al Teatro Manzoni, senza però ottenere il successo di quella precedente.

    Il ritorno a Catania

    Afflitto da una grave crisi psicologica dovuta alle preoccupazioni di carattere finanziario e dal fatto che non riusciva a portare avanti come voleva il Ciclo dei Vinti, decise di ritornare in Sicilia. Nel 1887 uscì, presso l’editore Barbèra di Firenze, la raccolta Vagabondaggio.

    Gli anni tra l‘86 e l‘87 li trascorse lavorando, ampliandole, alle novelle pubblicate dal 1884 in poi per la raccolta Vagabondaggio che uscirà nel 1887 presso l’editore Barbèra.

    Nel 1890 soggiornò per un periodo di alcuni mesi a Roma e all’inizio dell’estate ritornò in Sicilia e, tranne alcuni soggiorni a Roma, vi rimase fino al novembre del 1890. Terminata nel frattempo la prima stesura del romanzo Mastro-don Gesualdo, esso venne pubblicato a puntate sulla rivista La Nuova Antologia.

    Durante il 1889 si dedicò completamente alla revisione del Mastro-don Gesualdo che venne dato alle stampe, da Treves, a fine anno ottenendo una buona accoglienza sia dal pubblico sia dalla critica.

    Lo scrittore, rincuorato dal buon successo del romanzo, progettò di continuare il Ciclo dei Vinti con La duchessa di Leyra e L’Onorevole Scipioni mentre continuò la pubblicazione delle novelle che faranno poi parte delle due ultime raccolte.

    L‘8 aprile 1890, al Teatro Costanzi di Roma, venne intanto messa in scena Mala Pasqua tratta dalla novella dello scrittore che però non ottenne un gran successo. Solo un mese dopo venne rappresentata, nello stesso teatro, l’opera Cavalleria rusticana musicata da Pietro Mascagni riscuotendo grande applauso di pubblico e di critica.

    L’opera continuò ad essere rappresentata con sempre maggior successo e il Verga chiese al musicista e all’editore, come da accordi pattuiti, la parte di guadagno per i diritti d’autore. Gli verrà offerta una modesta cifra, 1.000 lire che il Verga non volle accettare. Rivoltosi alla Società degli Autori, che si dimostrò solidale con lo scrittore, egli sarà però costretto ad agire attraverso vie legali. Ha inizio così nel 1891 una complessa vicenda giudiziaria che sembra concludersi, il 22 gennaio 1893, allorché Verga accetta, una tantum, la somma di lire 143.000 come compensazione finale.[14]

    Nel 1891 erano intanto usciti presso l’editore Treves I ricordi del capitano d’Arce e nel 1894 Don Candeloro e C.i.

    Nel 1893 lo scrittore si trasferì definitivamente a Catania dove rimase, a parte qualche breve viaggio a Milano e a Roma, fino alla morte. Sebbene continuasse a scrivere, si dedicò anche alla fotografia.

    La crisi creativa

    Ebbe inizio tuttavia la sua crisi creativa, che gli impedì di proseguire sulla strada del Verismo, per riaccostarsi allo stile post-romantico.[15] Non smise mai, tuttavia, di tentare il completamento del Ciclo dei Vinti: nel 1895 iniziò minuziose indagini di costume che affermava necessarie per il terzo romanzo dei Cicli dei vinti, La duchessa di Leyra, che però non terminò mai (ci rimangono solamente il primo capitolo e un frammento del secondo), a causa della difficoltà di mantenere la poetica dell’impersonalità verso le classi agiate che disprezza, e che aveva già descritto efficacemente nei romanzi milanesi.[15]

    Da alcuni anni lo scrittore aveva intanto intrapreso una relazione con la pianista Dina Castellazzi, contessa di Sordevolo che durò tutta la vita, anche se la riluttanza del Verga al matrimonio ridusse la relazione amorosa ad un’affettuosa amicizia. Un’altra relazione sentimentale conosciuta fu con la contessa milanese Paolina Greppi Lester, che durò dal 1878 al 1905. La Greppi è l’amica del Verga che compare, in forma romanzata, come interlocutrice in Fantasticheria, la novella che racconta il soggiorno della coppia ad Aci Trezza, e che è considerata il preludio a I Malavoglia.[16]

    Presso Treves, vennero pubblicati nel 1896 i drammi La Lupa, In portineria, Cavalleria rusticana, tutti ricavati da novelle. La Lupa venne rappresentata con successo sulle scene del Teatro Gerbino di Torino e a metà dell’anno lo scrittore ricominciò a lavorare a La duchessa di Leyra.

    Gli ultimi anni

    Sulla rivista di Catania Le Grazie, il 1º gennaio 1897, venne pubblicata la novella intitolata La caccia al lupo e l’editore Treves pubblicò una nuova versione di Vita dei campi, con le illustrazioni di Arnaldo Ferraguti che presentava notevoli cambiamenti se confrontata all’edizione del 1880.

    L’adesione al colonialismo e al nazionalismo

    Nel 1896, lo scrittore, che non era mai stato un progressista, ma comunque di idee liberali, approvò la repressione delle proteste sindacali dei Fasci siciliani attuata dal governo di Francesco Crispi, segno della sua involuzione politica, e del suo distacco totale dalle idee politiche dei naturalisti francesi come Émile Zola. Essi infatti credevano nel socialismo, mentre il pessimismo verghiano lo porta a negare ogni riscatto degli umili che si distaccano dalla tradizione, verso cui prova comunque simpatia, e nei suoi ultimi anni Verga adottò idee conservatrici, anche se continuava comunque a provare disgusto verso le classi ricche.[15] Egli giustificò anche la sanguinosa repressione dei moti di Milano ad opera di Fiorenzo Bava-Beccaris, esprimendo anche una certa insofferenza verso la democrazia parlamentare, e appoggiò il colonialismo italiano.[17] Queste posizioni furono dovute anche ad alcune leggi economiche che avevano, a suo dire, danneggiato la produzione dei suoi agrumeti, e, durante la vecchiaia, la sua chiusura contro il resto del mondo e la sua riservatezza aumentarono sempre di più.[17] Nonostante questo, mantiene comunque una certa benevolenza per le classi umili. Sembra intanto proseguire assiduamente la stesura de La duchessa di Leyra, come si apprende da una lettera scritta all’amico Edouard Rod nel 1898, notizia confermata da La Nuova Antologia che ne annuncia la prossima pubblicazione.[18]

    Nel 1901 furono rappresentati i bozzetti La caccia al lupo e La caccia alla volpe al teatro Manzoni di Milano e gli stessi saranno pubblicati nel 1902dall’editore Treves.

    Alla morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, il Verga ebbe in affido i nipoti, Giovanni Verga Patriarca, Caterina e Marco, che poi adottòfacendone i suoi figli adottivi.[2]

    Nel novembre dello stesso anno venne rappresentato, sempre al teatro Manzoni, il dramma Dal tuo al mio che uscirà solamente nel 1905 a puntate su La Nuova Antologia e vedrà le stampe, ancora da Treves, nel 1906.

    Lontano ormai dalla scena letteraria, il Verga rallentò notevolmente la sua attività di scrittore per dedicarsi in modo assiduo alla cura delle sue terre anche se, come abbiamo notizia da una lettera all’amico Rod del 1º gennaio 1907, egli continuava a lavorare a La duchessa di Leyra del quale vedrà la luce un solo capitolo pubblicato postumo in La Letteratura a cura del De Roberto il 1º giugno 1922. Al De Roberto lo scrittore affidò, tra il 1912 e il 1914, la sceneggiatura cinematografica di alcune delle sue opere ed egli stesso provvedette alla riduzione della Storia di una capinera e della La caccia al lupo allo scopo di farne una versione per il teatro. Nel 1915, alla prima guerra mondiale, prese posizione a fianco degli interventisti, entrando a far parte dell’Associazione Nazionalista Italiana, a fianco di Enrico Corradini e Gabriele D’Annunzio, del quale apprezzava l’azione politica. Nel dopoguerra si avvicinò al movimento fascista, mostrando simpatia per la figura politica in ascesa di Benito Mussolini, anche se non si iscrisse mai ai Fasci di combattimento.[17]

    Riconoscimenti pubblici e morte

    La sua ultima novella, intitolata Una capanna e il tuo cuore, risale al 1919 e fu pubblicata anch’essa postuma, il 12 febbraio 1922 sull’Illustrazione italiana, mentre nel 1920 verrà pubblicata una edizione riveduta delle Novelle rusticane a Roma sulla rivista La Voce.

    Nel luglio di quell’anno, per gli ottanta anni dello scrittore, si tennero a Catania le onoranze presso il Teatro Massimo Vincenzo Bellini alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce e il discorso ufficiale fu tenuto da Luigi Pirandello. Sempre in quell’anno Verga ricevette, a Roma, la nomina di senatore del Regno, per decisione del re Vittorio Emanuele III. Furono tra le poche apparizioni pubbliche dello scrittore dopo il ritiro a Catania.

    Il 24 gennaio 1922, colto da ictus, non riprese conoscenza e il 27 gennaio morì per emorragia cerebrale a Catania nella casa di via Sant’Anna, assistito dai nipoti e dall’amico De Roberto[19], e dopo aver ricevuto l’estrema unzione, richiesta dai familiari nonostante durante tutta la vita fosse stato dichiaratamente scettico, se non ateo e materialista, posizione che emerge da molti scritti e che contrasta con le sue idee moderate.[20] Il patrimonio di Verga passò, in maggioranza, al nipote primogenito Giovanni Verga Patriarca.[21]

    Giovanni Verga riposa oggi nel viale degli uomini illustri del cimitero monumentale di Catania.[22]

    La poetica e le idee

    L’ideologia che sta alla base della sua letteratura migliore è una personale ripresa della scientificità, dell’impersonalità e del positivismo dei naturalisti, declinati in senso pessimistico, senza alcuna speranza di miglioramento sociale. Forte è l’influsso di alcune teorie dell’epoca, come quella del darwinismo sociale. Agli umili delle sue novelle e romanzi è negata quasi ogni speranza, sia provvidenziale rifacendosi allo stile del Manzoni, sia laica e sociale di ispirazione Zoliana. Verga nega che una vera felicità sia presente o raggiungibile anche da parte degli appartenenti alle classi ricche, data la rappresentazione che egli ne fa sia nei romanzi non veristi, sia in alcune parti del Ciclo dei Vinti e delle novelle. Solo alcuni valori, come la famiglia, il proprio ambiente ed il lavoro (concetto dell’ostrica) possono dare un po’ di serenità.[23]

    Opere

     Romanzi

    Amore e Patria (1856-1857) [inedito di 672 ff. ms. parzialmente riportati in Lina Perroni, Studi verghiani, II, Ricordi di D’Artagnan. La prima giovinezza di Giovanni Verga e due suoi romanzi sconosciuti: Amore e patria; I carbonari della montagna, Palermo, Ed. del sud, 1929].

    I carbonari della montagna, 4 volumi, Catania, Galatola, 1861-1862.

    Sulle lagune, in La Nuova Europa, 5 e 9 agosto 1862-13 gennaio e 15 marzo 1863.

    Una peccatrice, Torino, Negro, 1866.

    Storia di una capinera, Milano, Lampugnani, 1871.

    Eva, Milano, Treves, 1873.

    Eros, Milano, Brigola, 1875.

    Tigre reale, Milano, Brigola, 1875.

    I Malavoglia, Milano, Treves, 1881.

    Il marito di Elena, Milano, Treves, 1882

    Mastro-don Gesualdo, Milano, Treves, 1889.

    Dal tuo al mio, Milano, Treves, 1906.

    La duchessa di Leyra, incompiuto in Federico De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, Le Monnier, 1964.

    Novelle

    Casa da thè (novella), 1862.

    Nedda. Bozzetto siciliano, Milano, Brigola, 1874.

    Primavera; La coda del diavolo; X; Certi argomenti; Le storie del castello di Trezza; Nedda, Milano, Brigola, 1877.

    Rosso Malpelo, in Fanfulla, 2-5 agosto 1878.

    Vita dei campi. Nuove novelle, Milano, Treves, 1880. [Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia]

    Un’altra inondazione, in Roma-Reggio, numero speciale del Corriere dei Comuni, Roma, Tipografia elzeviriana dell’Officina Statistica, 1880.

    La roba, in Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti, 26 dicembre 1880.

    Casamicciola, in Don Chisciotte, n. 8, 3 aprile 1881.

    I dintorni di Milano, in Milano 1881, Milano, Ottino, 1881.

    Il come, il quando ed il perché, in appendice alla seconda edizione di Vita dei campi, Milano, Treves, 1881.

    Pane nero, Catania, Giannotta, 1882.

    Libertà, in Domenica letteraria, 12 marzo 1882.

    Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1883. [Il Reverendo, Cos’è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La roba, Storia dell’asino di S. Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là del mare]

    Per le vie, Milano, Treves, 1883. [Il bastione di Monforte, In piazza della Scala, Al veglione, Il canarino del N. 15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei «Buoni Amici», Gelosia, Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima giornata]

    Nella stalla, in Arcadia della carità. Strenna internazionale a beneficio degli inondati, Lonigo, Tipo-litografia ed. Luigi Pasini, 1883.

    Drammi intimi, Roma, Sommaruga, 1884. [Drammi intimi, frammento 2, «Nel carrozzone dei profughi» (frammento 3), frammento IV, Un’altra inondazione, - Il Carnevale fallo con chi vuoi; - Natale e Pasqua falli con i tuoi. -, Ultima visita]

    Mondo piccino, in Nuova Antologia, 1º ottobre 1884.

    Vagabondaggio, Firenze, Barbera, 1887. [Vagabondaggio, Il maestro dei ragazzi, Un processo, La festa dei morti, Artisti da strapazzo, Il segno d’amore, L’agonia d’un villaggio, …e chi vive si dà pace, Il bell’Armando, Nanni Volpe, Quelli del colèra, Lacrymae rerum]

    I ricordi del capitano d’Arce, Milano, Treves, 1891. [I ricordi del capitano d’Arce, Giuramenti di marinaio, Commedia da salotto, Né mai, né sempre!, Carmen, Prima e poi, Ciò ch’è in fondo al bicchiere, Dramma intimo, Ultima visita, Bollettino sanitario (Corrispondenza in 4ª pagina)]

    Don Candeloro e C.i, Milano, Treves, 1894. [Don Candeloro e C.i, Le marionette parlanti, Paggio Fernando, La serata della diva, Il tramonto di Venere, Papa Sisto, Epopea spicciola, L’opera del Divino Amore, Il peccato di donna Santa, La vocazione di suor Agnese, Gli innamorati, Fra le scene della vita]

    Una capanna e il tuo cuore, in Illustrazione italiana, 12 febbraio 1922.

    Tutte le novelle, 2 voll., Milano, A. Mondadori, 1940-1942.

    Trasposizioni teatrali

    I nuovi tartufi (1865-1866)

    Rose caduche (1867)

    L’onore I (1869)

    L’onore II

    Cavalleria rusticana (1884)

    In portineria (1885)

    La lupa (1886)

    Dopo (1886)

    Mastro-don Gesualdo (1889)

    Cavalleria rusticana (1896)

    La caccia al lupo (1901)

    La caccia alla volpe (1901)

    Dal tuo al mio (1903)

    Versioni cinematografiche

    Chavalerie rustique (1910) di Victorin Jasset (o secondo altri storici Emile Chautard o ancora Raymond Agnel).

    Cavalleria rusticana (1916) di Ugo Falena.

    Cavalleria rusticana (1916) di Ubaldo Maria Del Colle.

    Tigre reale (1916) diretto da Piero Fosco (Giovanni Pastrone).

    La storia di una capinera (1917) di Giuseppe Sterni.

    Caccia al lupo (1917) di Giuseppe Sterni.

    Una peccatrice (1918) di Giulio Antamoro.

    Eva (1919) di Ivo Illuminati.

    Il marito di Elena (1921) di Riccardo Cassano

    Cavalleria rusticana (1924) di Mario Gargiulo.

    Cavalleria rusticana (1939) di Amleto Palermi.

    La storia di una capinera (1943) di Gennaro Righelli.

    La terra trema (1948) diretto da Luchino Visconti, ispirato a I Malavoglia.

    La lupa (1953) di Alberto Lattuada.

    Cavalleria rusticana (1953) di Carmine Gallone.

    L’amante di Gramigna (1968) di Carlo Lizzani.

    Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato 1972 diretto da Florestano Vancini, tratto dalla novella di Giovanni Verga intitolata Libertà.

    Cavalleria rusticana (1981) di Franco Zeffirelli, film-opera.

    Storia di una capinera (1993) di Franco Zeffirelli con Vanessa Redgrave, ispirato al romanzo omonimo.

    La lupa (1996) diretto da Gabriele Lavia con Monica Guerritore, Michele Placido e Raoul Bova, ispirato alla novella omonima.

    Rosso malpelo (2007) di Pasquale Scimeca.[24]

    Bibliografia

    Biografie

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    Vossler Karl, Letteratura italiana contemporanea, Napoli, Ricciardi, 1916

    TUTTE LE NOVELLE

    Nedda

    Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri. Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l’effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.

    E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna. Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della pioggia che rubava loro il - pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco, rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull’ammattonato sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch’esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: - Nedda! Nedda la varannisa - sclamarono parecchie. - Dove s’è cacciata la varannisal - Son qua - rispose una voce breve dall’angolo più buio, dove s’era ac coccolata una ragazza su di un fascio di legna.

    - O che fai tu costà?

    - Nulla.

    - Perché non hai ballato?

    - Perché sono stanca.

    - Cantaci una delle tue belle canzonette.

    - No, non voglio cantare.

    - Che hai?

    - Nulla.

    - Ha la mamma che sta per morire, - rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.

    La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi pieni nudi.

    Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: - O allora perché hai lasciato tua madre?

    - Per trovar del lavoro.

    - Di dove sei?

    - Di Viagrande, ma sto a Ravanusa -.

    Una delle spiritose, la figlioccia del castaido, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d’oro al collo, le disse volgendole le spalle:

    - Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l’uccello -.

    Nedda le lanciò dietro un’occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda.

    - No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! - esclamò come rispondendo a se stessa.

    - Chi è lo zio Giovanni?

    - E’ lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così.

    - Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, - disse un’altra.

    - Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! - aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un’intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: - ma a veder tramontare il sole dall’uscio, pensando che non c’è pane nell’armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l’indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel tettuccio! - E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere.

    - Le vostre scodelle, ragazze! - gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale.

    Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l’illuminò tutta.

    Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al compito dell’uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. E vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava 13 bravi soldi ! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. - Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. - E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

    Nedda sporse la sua scodella, e la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era molto.

    - Perché vieni sempre l’ultima? Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? - le disse a mo’ di compenso la castalda.

    La povera ragazza chinò gli occhi sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse.

    - Io te ne darei volentieri delle mie, - disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; - ma se domani continuasse a piovere… davvero!… oltre a perdere la mia giornata non vorrei anche mangiare tutto il mio pane.

    - Io non ho questo timore! - rispose Nedda con un triste sorriso.

    - Perché?

    Perché non ho pane di mio. Quel po’ che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma.

    - E vivi della sola minestra?

    - Sì, ci sono avvezza; - rispose Nedda semplicemente.

    - Maledetto tempaccio, che ci ruba la nostra giornata! - imprecò un’altra.

    - To’, prendi dalla mia scodella.

    - Non ho più fame; - rispose la varannisa ruvidamente, a mo’ di ringraziamento.

    - Tu che bestemmi la pioggia del buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? - disse la castalda a colei che aveva imprecato contro il cattivo tempo.

    - E non sai che pioggia d’autunno vuol dire buon anno? - Un mormorio generale approvò quelle parole.

    - Sì, ma intanto son tre buone mezze giornate che vostro marito toglie rà dal conto della settimana! - Altro mormorio d’approvazione.

    - Hai forse lavorato in queste tre mezze giornate, perché ti s’abbiano a pagare? - rispose trionfalmente la vecchia.

    - E’ vero! è vero! - risposero le altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c’è nelle masse, anche quando questa giustizia danneggia gli individui.

    La castalda intuonò il rosario, le avemarie si seguirono col loro mono-tono brontolio, accompagnate da qualche sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere amen.

    - Che modo è cotesto di non rispondere ameni - le disse la vecchia in tuono severo.

    Pensava alla mia povera mamma che è tanto lontana: - balbettò Nedda timidamente.

    Poi la castalda diede la santa notte, prese la lucerna e andò via. Qua e là, perla cucina o attorno al fuoco, s’improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant’altri, fave per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile.

    Dove poi il padrone è avaro, o la fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono, nella stalla, o altrove, sulla pa glia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi nella cenere calda, o si copre di paglia, s’ingegna come può; dopo un giorno di fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non potesse compiere le sue dieci ore di fatica. Prima di giorno le più mattiniere erano uscite per vedere che tempo facesse, e l’uscio che sbatteva ad ogni momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaido era venuto a spalancare l’uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo tari, e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la minestra.

    - Piove! - era la parola uggiosa che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata all’uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo s’impantanava in una pozzanghera dove s’avvoltolavano voluttuosamente dei maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono piagnoloso.

    - Ecco un’altra giornata andata a male! - mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero.

    - Le nuvole si distaccano dal mare laggiù, - disse Nedda stendendo il braccio; - verso il mezzogiorno forse il tempo cambierà.

    - Però quel birbo del fattore non ci pagherà che un terzo della giornata!

    - Sarà tanto di guadagnato.

    Sì, ma il nostro pane che mangiamo a tradimento?

    - E il danno che avrà il padrone delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota?

    - È vero, - disse un’altra.

    - Ma provati ad andare a raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz’ora, per accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà per giunta il fattore!

    - È giusto, perché le olive non sono nostre!

    - Ma non sono nemmeno della terra che se le mangia!

    - La terra è del padrone, to’ ! - replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi.

    - È vero anche questo; - rispose un’altra, la quale non sapeva che rispondere.

    - Quanto a me preferirei che continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi.

    - A te non ti fanno nulla tre o quattro soldi, non ti fanno! - esclamò Nedda tristemente.

    La sera del sabato, quando fu l’ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore, tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo, e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto, Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato, restava ad avere quaranta soldi.

    La povera ragazza non osò aprir bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime.

    - E lamentati per giunta, piagnucolona! - gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore coscienzioso che difende i soldi del padrone. -Dopo che ti pago come le altre, e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara, Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra!

    - Io non mi lamento… - disse timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il valore, aveva conteggiato per grani. - La colpa è del tempo che è stato cattivo e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi.

    - Pigliatela col Signore! - disse il fattore ruvidamente.

    - Oh, non col Signore! ma con me che son tanto povera!

    - Pagagli intiera la sua settimana, a quella povera ragazza; - disse al fattore il figliuolo del padrone, il quale assisteva alla raccolta delle olive. - Non sono che pochi soldi di differenza.

    - Non devo darle che quel ch’è giusto!

    - Ma se te lo dico io!

    - Tutti i proprietari del vicinato farebbero la guerra a voi e a me se facessimo delle novità.

    - Hai ragione! - rispose il figliuolo del padrone, il quale era un ricco proprietario, e aveva molti vicini.

    Nedda raccolse quei pochi cenci che erano suoi, e disse addio alle compagne.

    - Vai a Ravanusa a quest’ora? - dissero alcune.

    - La mamma sta male!

    - Non hai paura?

    - Sì, ho paura per questi soldi che ho in tasca; ma la mamma sta male, e adesso che non son più costretta a star qui a lavorare, mi sembra che non potrei dormire, se mi fermassi anche stanotte.

    - Vuoi che t’accompagni? - le disse in tuono di scherzo il giovane pecoraio.

    - Vado con Dio e con Maria - disse semplicemente la povera ragazza, prendendo la via dei campi a capo chino.

    Il sole era tramontato da qualche tempo e le ombre salivano rapidamente verso la cima della montagna. Nedda camminava sollecita, e quando le tenebre si fecero profonde, cominciò a cantare come un uccelletto spaventato. Ogni dieci passi voltavasi indietro, paurosa, e allorché un sasso, smosso dalla pioggia che era caduta, sdrucciolava dal muricciolo, o il vento le spruzzava bruscamente addosso a guisa di gragnuola la pioggia raccolta nelle foglie degli alberi, ella si fermava tutta tremante, come una capretta sbrancata. Un assiolo la seguiva d’albero in albero col suo canto lamentoso; ed ella, tutta lieta di quella compagnia, gli faceva il richiamo, perché l’uccello non si stancasse di seguirla. Quando passava dinanzi ad una cappelletta, accanto alla porta di qualche fattoria, si fermava un istante nella viottola per dire in fretta un’avemaria, stando all’erta che non le saltasse addosso dal muro di cinta il cane di guardia, che abbaiava furiosamente; poi partiva di passo più lesto, rivolgendosi due o tre volte a guardare il lumicino che ardeva in omaggio alla Santa, nello stesso tempo che faceva lume al fattore, quando doveva tornar tardi dai campi.

    Quel lumicino le dava coraggio, e la faceva pregare per la sua povera mamma. Di tempo in tempo un pensiero doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri della vendemmia, o alle sere d’estate, quando, con la più bella luna del mondo, si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente; ma il suo pensiero correva sempre là, dinanzi al misero giaciglio della sua inferma. Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò un piede; l’oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio e a non saper dove si trovasse. Tutt’a un tratto udì l’orologio di Punta che suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo. Nedda sorrise, quasi un amico l’avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla di stranieri.

    infilò allegramente la via del villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi.

    Passando dinanzi alla farmacia vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte. Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un capo all’altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la solita canzone che l’accompagnava da venti anni, nelle notti d’inverno e nei meriggi della

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