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Il Circolo Pickwick
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E-book1.202 pagine17 ore

Il Circolo Pickwick

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A cura di Riccardo Reim

Edizione integrale

Il Circolo Pickwick è il libro che rese di colpo famoso il ventiseienne Charles Dickens, aprendogli la strada del successo. Con mano felicissima e impareggiabile fertilità inventiva, lo scrittore tratteggia personaggi e situazioni paradossali sullo sfondo della vecchia Inghilterra cordiale e ricca di umanità, eccentrica e truffaldina: bizzarri gentiluomini, vecchie zitelle a caccia di marito, ladruncoli impenitenti, servette pettegole, domestici astuti, bellimbusti imbecilli, ragazze seducenti si agitano in un microcosmo esilarante ma al tempo stesso percorso da sottili inquietudini… Perché Il Circolo Pickwick non è soltanto un capolavoro dell’umorismo, ma anche – come è stato giustamente osservato – un libro sulla “perdita dell’innocenza”, in cui Dickens ci fa amaramente riflettere (e la riflessione non esclude il riso, così come il riso non esclude mai la riflessione) su alcune “regole” che, purtroppo, da sempre governano il mondo.

Charles Dickens

nacque a Portsmouth nel 1812. Trascorse l’infanzia a Chatham e poi seguì il padre in un traumatico trasferimento a Londra. Della metropoli in cui visse fece il centro ispiratore della sua arte, il centro di un quadro vivo e mobile, un caleidoscopio armonico e colorato di personaggi, conflitti sociali, umori e fermenti della sua epoca. Di Dickens la Newton Compton ha pubblicato Le due città, Grandi speranze, Oliver Twist, Tempi difficili e, nella collana Mammut, Il circolo Pickwick, David Copperfield e I grandi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2012
ISBN9788854149564
Il Circolo Pickwick
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens was born in 1812 and grew up in poverty. This experience influenced ‘Oliver Twist’, the second of his fourteen major novels, which first appeared in 1837. When he died in 1870, he was buried in Poets’ Corner in Westminster Abbey as an indication of his huge popularity as a novelist, which endures to this day.

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    Anteprima del libro

    Il Circolo Pickwick - Charles Dickens

    420

    In copertina: Dettaglio da Mr. Pickwick slides,

    illustrazione di Phiz a The Pickwick Papers (1837),

    colorato a mano da Helena Zakrzewska-Rucinska.

    Titolo originale: The Posthumous Papers of the Pickwick Club

    Traduzione di Riccardo Reim

    Prima edizione ebook: novembre 2012

    © 2006 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4956-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Charles Dickens

    Il Circolo Pickwick

    Cura e traduzione di Riccardo Reim

    Con un Saggio di Gilbert K. Chesterton

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Mr. Pickwick o della beata semplicità

    Nel febbraio del 1836 gli editori Chapman e Hall si recano, nella persona di un loro rappresentante, dal giovane Charles Dickens (approdato a una discreta notorietà con i suoi Street Sketches by Boz, pubblicati sul «Morning Chronicle», e di cui proprio in quei giorni arriva nelle librerie la prima serie raccolta in volume) proponendogli di scrivere dei brevi testi di commento alle vignette sportive del celebre illustratore Robert Seymour, destinate a una serie di fascicoli umoristici. L’idea, non particolarmente originale, nasce palesemente sulla scia del successo dei primi bozzetti comici di Robert Smith Surtees (illustrati da John Leech), saporosi di gergo e ricchi di osservazioni di costume, sulle avventure - e disavventure - di Jorrocks, un droghiere cockney dedito a vari sport, che sono da tempo la delizia dei lettori del «New Sporting Magazine» ¹:«La proposta che mi veniva fatta», ricorderà in seguito lo stesso Dickens², «era che la narrazione mensile si adattasse alle illustrazioni eseguite da Seymour, ed era opinione sia di quel magnifico caricaturista sia del mio visitatore, che il miglior sistema per ambientarle fosse quello di creare un Circolo Nimrod, i cui membri dovevano recarsi a caccia, a pesca e così via, cacciandosi in mille guai a causa della loro scarsa abilità. Io obiettai che, nonostante fossi nato e avessi vissuto per un certo numero di anni in campagna, non avevo una grande competenza sportiva, tranne per quanto riguardava tutti i mezzi di locomozione; che il soggetto non era una vera e propria storia e che era stato già parecchio sfruttato; che sarebbe stato infinitamente meglio se le illustrazioni fossero derivate naturalmente dal testo; che avrei preferito seguire la mia ispirazione, fruendo di una maggiore libertà di azione nelle scene di vita inglese, e che in ogni caso avrei finito per fare così - lo sapevo bene - qualsiasi linea da seguire mi fossi prefissato all’inizio».

    Dickens insomma rivendica subito una sua indipendenza, ottenendo abbastanza presto (forse anche per l’improvvisa morte di Seymour dopo la prima puntata) che le illustrazioni vengano subordinate al testo letterario, «trasformando genialmente il disegno originario sulla falsariga del vecchio schema del romanzo picaresco»³ senza però accettarlo passivamente, bensì calandovi dentro le originali creazioni della sua fantasia. Nasce così II Circolo Pickwick (The Posthumous Papers of the Pickwick Club), le cui dispense mensili - illustrate da H.K. Brown (Phiz) dopo la morte di Seymour ⁴ - raggiungono in breve tempo la vertiginosa tiratura di quarantamila copie⁵, determinando, come nota Arnold Hauser, «la forma editoriale in cui doveva svilupparsi per venticinque anni la letteratura amena inglese»⁶, dando al suo autore una fulminea celebrità e facendone di colpo lo scrittore più amato del suo paese, primato che nessuno riuscirà mai più a strappargli fino alla morte e oltre.

    Il Circolo Pickwick vede dunque la luce a puntate: tale tipo di pubblicazione comincia a diffondersi verso il 1820 e ha effetti rivoluzionari nel campo del romanzo, trasformandolo in un efficacissimo veicolo di idee e investendo l’autore di un potere assai affine a quello politico. Esso, come scrive Angela Bianchini, «rappresenta un capovolgimento della struttura del romanzo»⁷, che fino agli inizi del secolo, secondo una tradizione iniziata e codificata da Walter Scott, richiedeva un’opera in tre tomi, ricca di disquisizioni e digressioni - le cosiddette pause di riflessione - , in vendita al notevole prezzo di una ghinea e mezza. Il romanzo a puntate (economicamente accessibile a tutti e di conseguenza assai più diffuso) provoca negli autori la necessità di tenere desta l’attenzione del vasto pubblico, introducendo molti degli elementi che creeranno in futuro il terreno favorevole alla sensation novel e che di lì a poco tempo diventeranno comuni anche al roman feuilleton (di cui il romanzo a puntate è parente stretto e di poco più anziano): la suspense, l’interesse sociologico, la chiusa sensazionale con il cosiddetto twist (giro di vite) dell’intreccio alla fine della puntata per acuire la curiosità. Veri e propri colpi di scena, insomma: non a caso uno tra i più celebri romanzieri del genere, Charles Reade⁸, esordisce quale drammaturgo, e non esita a trasportare nei suoi romanzi - infarciti di tesi e di istanze sociali, come del resto quelli di Dickens e di Eugène Sue - la pratica del teatro di quegli anni, prolisso, artificioso e melodrammatico.

    La pubblicazione a puntate determina inevitabilmente il metodo di lavoro di Dickens, che «in essa trovò una disciplina da cui seppe trarre mirabile partito per il suo genio»⁹. Di solito, quando inizia la pubblicazione di un nuovo romanzo, lo scrittore (come anche tutti i suoi colleghi) non ha pronto che il contenuto delle prime cinque o sei puntate, e verso la metà della pubblicazione a volte neppure quello della puntata seguente. Per procedere speditamente e con ordine nel lavoro, si organizza adottando una specie di partita doppia: non solo riassume brevemente ogni puntata per non perdere il filo degli avvenimenti, ma di volta in volta, a lato del foglio, appunta laconicamente il piano dello svolgimento futuro (lo faranno - con risultati diversissimi sul piano dell’arte, ma questo è un altro discorso - anche Sue e Carolina Invernizio)¹⁰, autentiche «chiamate in scena dei vari personaggi», come giustamente osserva Mario Praz ¹¹. La pubblicazione a puntate viene dunque ad assecondare in Dickens la naturale propensione per il teatro, la concezione del romanzo come un lunghissimo dramma (ogni puntata un atto), con un aggrovigliarsi di fila - in un crescendo sempre più serrato di equivoci, inganni, tradimenti, rivelazioni, agnizioni - e il loro progressivo scioglimento verso la fine in una serie di episodi più o meno sensazionali e melodrammatici. «La pratica e la sensibilità di Dickens sono quelle di un uomo di teatro: all’abilità nei dialoghi egli unisce remissività verso le esigenze della pubblicazione, pronto a far tagli, a registrare e seguire le reazioni del pubblico modificando il destino di questo o di quel personaggio per non alienarsi il lettore, attenuando certe frasi realistiche che potrebbero offenderlo»¹². Anche i suoi difetti, di conseguenza, sono quelli di un uomo di teatro: ovviamente del teatro di quegli anni, tutt’altro, come già s’è detto, che un modello di gusto e di misura, ma che proprio per questo riesce ad alimentare così bene la sua arte, in virtù della quale, poi, certi vizi - o vezzi - di fondo della sua scrittura (riconducibili anche alla sua cultura mediocre, alla sua instabilità emotiva, al superlavoro) divengono tutto sommato ininfluenti. Come Victor Hugo (altro genio teatrale), Charles Dickens è per i chiaroscuri violenti: «Fermatosi allo stadio della fantasia fanciullesca, era affascinato dai nani e dai giganti, dalle case fatte con le barche, dalle torte nuziali piene di ragni, dal trito contrasto fra la primavera e la morte, dai teatri di marionette nei cimiteri, dalle analogie impossibili e dalle somiglianze illogiche»¹³. Dinanzi a quegli aspetti della vita che non possono essere in tal modo deformati dalla fantasia, quasi sempre la sua arte viene meno, perché dal vero realismo lo esclude proprio la sua tendenza teatrale, «di scenografo più che di minuto descrittore notarile alla Balzac»¹⁴, nonché la sua vittoriana ripugnanza per tutto ciò che è troppo crudo e può in qualche modo offendere la delicatezza: «null’altro che diletto nel pittoresco è quello che in lui può sembrare realismo»¹⁵. Pittoresco nei dialoghi, nelle figure, nelle descrizioni: arte grande, ma tutta esteriore, come più volte è stato rilevato. Una prospettiva teatrale può suggerire l’effetto della realtà pur consistendo di elementi diversi da quelli che si troverebbero nel mondo reale. Come osservava Anthony Trollope, «i personaggi di Dickens non sono creature umane: è la peculiarità e la meraviglia del genio di quest’uomo a investire i suoi burattini di un incanto che gli ha permesso di non tener conto della natura umana»¹⁶. E, per l’appunto, l’incanto della prospettiva, che crea una realtà preternaturale.

    Ottenuto, come s’è detto, un immenso successo - anche finanziario - con Il Circolo Pickwick, Dickens si dedicò successivamente (seguendo la moda del momento) al romanzo sociale a tendenza filantropica, iniziando con Oliver Twist il fortunatissimo filone dei suoi libri picaresco-sentimentali (rifacendosi da un lato a Defoe, Smollet e Fielding, dall’altro a Goldsmith e Sterne) che culminerà dodici anni dopo nel celeberrimo David Copperfield. Certo, l’immagine idealizzata e nostalgica di un’Inghilterra eccentrica e cordiale, estrosa e ricca di umanità, ancora integrata nonostante le divisioni di classe - l’Inghilterra delle strade maestre, delle diligenze e delle locande, antecedente al fiery devil, il tonante demone di fuoco, il vapore - sembra risultare totalmente capovolta nella tetra e patetica storia del piccolo orfano Oliver, prima segregato in un ospizio di mendicanti e poi gettato allo sbaraglio nel mondo della malavita. A ben guardare, invece, quasi tutti gli elementi - difetti compresi - dell’opera dickensiana sono già contenuti nel Circolo Pickwick (e qui torna alla mente G.K. Chesterton, quando afferma che «l’opera di Dickens va catalogata per personaggi, a volte per gruppi, più spesso per episodi, mai tuttavia per romanzi»)¹⁷ : Jingle e il suo complice Job Trotter inaugurano la lunga serie di bricconi più o meno simpatici e più o meno redimibili che popoleranno i romanzi successivi; Sam Weller - con l’ammirevole complemento del suo irresistibile genitore - realizza quell’ideale commistione di onestà e faccia tosta, scaltrezza e allegria, sincerità e cocciutaggine che Dickens considererà sempre le migliori qualità umane, ideale cockney dall’imperturbabile buonumore e dall’infallibile buonsenso, sempre leale verso il suo padrone e sempre pronto a far fronte alle situazioni più difficili con incredibile generosità; l’ipocrita Stiggins, che predica la morale e la sobrietà scroccando a tutto spiano ponce e brandy, piccolo antenato del Pecksniff di Martin Chuzzlewit... Anche la totale sfiducia nelle istituzioni (uno dei leitmotiv dell’opera dickensiana) è già chiaramente presente nelle pagine del romanzo: basti pensare alle scene delle elezioni politiche di Eatanswill o del processo per «mancata promessa di matrimonio», con i sinistri e truffaldini Dodson e Fogg, «furbissimi tra i furbi»...: anzi, a questo proposito è significativo notare - d’accordo con Piergiorgio Bellocchio - come già nel Pickwick lo scrittore «distingua nettamente la furfanteria individuale dalla furfanteria legalizzata»¹⁸: la prima comporta, in fondo, più rischi che vantaggi, mentre la seconda è un vero e proprio meccanismo micidiale. Non manca neppure l’elemento nero e melodrammatico, che Dickens riesce abilmente a introdurre (anche se il tono del romanzo sembrerebbe escluderlo) attraverso l’interpolazione di racconti a sé stanti, come la Storia del pagliaccio, o la Storia dello strano cliente, o l’allucinato Manoscritto di un pazzo; divertendosi a toccare i toni del capriccio hoffmaniano con la bizzarra Storia dei folletti che si portarono via un beccamorti o a creare un’ironica ghost-story con la Storia del commesso viaggiatore...

    Brulicante di personaggi (circa una settantina) quasi tutti comici, Il Circolo Pickwick è uno dei grandi capolavori della letteratura umoristica inglese. Il protagonista, un atticciato, anzianotto signore calvo e occhialuto (si è occupato di commercio e ora vive agiatamente di rendita) entra in scena come una caricatura di sprovveduto sempliciotto - sul tipo del parroco Adams di Fielding o del dottor Primrose di Goldsmith - tutto cuore e benevolenza, con i suoi lati deboli - ad esempio, indulge ai piaceri della tavola e gli piace alzare il gomito - che lo rendono più vero e simpatico, ma «alla fine dell’opera il suo cranio calvo e lucido si cinge quasi di un’aureola di santit໹⁹, come se in lui «si sublimasse l’essenza spirituale di una borghesia proba e pedestre»²⁰. Pian piano, di capitolo in capitolo, Mr. Pickwick cessa di essere lo zimbello di Dickens, il bersaglio dei suoi scherzi anche crudeli, e le sue disavventure non si basano più su incidenti ed equivoci più o meno meccanici, ma derivano dallo scontro con la realtà, con la società organizzata: il sorridente signore dai miti occhi miopi non è tanto uno sciocco, come sembrava all’inizio, quanto un innocente, «un uomo che non ha mangiato il frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, e perciò vive nell’Eden»²¹. Una volta divenuto cosciente della realtà del Male, Mr. Pickwick tenterà invano di resistere, ma alla fine sarà costretto anche lui a perdere l’innocenza, cedendo, per amore degli altri e dopo non poche riflessioni, all’ignobile ricatto dei diabolici Dodson e Fogg. Come nota ancora Auden, «la perdita dell’innocenza attraverso un processo per cui diventa consapevole del mondo reale ha per Pickwick, in quanto personaggio immaginario, le stesse conseguenze che ha per Don Chisciotte il recupero della ragione: diventando eticamente seri, entrambi cessano di essere esteticamente comici, cessano, in altri termini, di interessare il lettore e devono scomparire, Don Chisciotte morendo, Pickwick ritirandosi dalla scena» ²².

    Se la popolarità di Charles Dickens non ha mai conosciuto flessioni fino ai nostri giorni, la sua fortuna critica, al contrario, è stata assai discontinua. Celebrato in vita come romanziere eminente, con la reazione antivittoriana viene sbrigativamente relegato fra gli scrittori da bancarella, accusato di essere bassamente demagogico, sciatto e frettoloso nello stile, improbabile e meccanico negli intrecci, incapace di tracciare autentici caratteri ma soltanto caricature, dotato di una genuina anche se modesta vena comica quasi sempre però inficiata dal sentimentalismo più becero e smaccato. La successiva rivalutazione - sempre fra riserve più o meno ampie, soprattutto da parte della critica marxista che invero non a torto lo accusa (con l’eccezione di Gyorgy Lukàcs, il quale, al contrario, lo colloca senza esitazione sullo stesso piano di un Balzac, di uno Stendhal o di un Dostoevskij) di superficialità e di non aver compreso i termini reali del conflitto tra capitale e lavoro - sarà opera isolata di scrittori come Chesterton e Shaw, nel malcelato disprezzo - o, peggio ancora, nello sbadato ignoramus - di buona parte della critica accademica che lo esclude dal solco della grande tradizione dove campeggiano i nomi di Thackeray, di George Eliot e delle sorelle Bronte. E questo non deve troppo stupire, perché, come acutamente osserva Giorgio Manganelli, «Dickens è uno scrittore delizioso e irritante», che «soffre di allucinazioni sentimentali», da maneggiare con estrema cautela, incredibilmente ambiguo e contraddittorio, «capace di invenzioni straordinarie, di intuizioni fulminee e inquietanti, di fantasie furibonde e ilari; e insieme incline a una corrività da mediocre libertino dei sentimenti»²³. Insomma, grande guitto, per tornare alla terminologia teatrale, dalla gloriosa e impura recitazione, cheap e sublime al tempo stesso, capace comunque di trascinare la platea all’applauso finale non rinunciando a nulla di insensato, di assurdo, di improbabile. Ma se è innegabile la volgarità di alcune parti dell’opera di Dickens, se è palese la sua ingenuità sentimentale, se è indiscutibile la sua mancanza di misura, è altresì vero che Dickens fu il primo, ad esempio, a comprendere l’inquietante poesia di una grande metropoli moderna e che anche se spesso caricaturali, certe sue robuste figure (alcune delle quali sono passate in proverbio, quasi maschere di una nuova commedia dell’arte, a cominciare proprio da Mr. Pickwick) formano «una galleria quale non si era più data nella letteratura inglese dopo Chaucer e Shakespeare»²⁴.

    RICCARDO REIM

    ¹ I romanzi di Surtees risultano ancora oggi estremamente godibili: Jorrocks e il suo domestico Pigg formano una coppia non del tutto indegna di essere ricordata accanto a quella formata da Mr. Pickwick e Sam Weller.

    ² Presentando la nuova edizione in volume del romanzo.

    ³ M. Praz, La letteratura inglese, vol. il, Dai romantici al Novecento, Sansoni/ Accademia, Firenze-Roma 1967.

    ⁴ La prima dispensa era stata di ventiquattro pagine con quattro illustrazioni; tutte le altre furono di trentadue pagine con due illustrazioni.

    ⁵ La prima dispensa uscì il 31 marzo 1836, l’ultima il 31 ottobre 1837. La modesta tiratura iniziale era di sole quattrocento copie: basti questo a dare un’idea del successo del romanzo.

    ⁶ La citazione è ripresa da P. Bellocchio, Introduzione a C. Dickens, Il Circolo Pickwick, Garzanti, Milano 1973.

    ⁷ A. Bianchini, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento, Liguori, Napoli 1988.

    ⁸ C. Reade (1814-1884), oggi quasi del tutto dimenticato, ebbe notevole fama come romanziere e come drammaturgo, con polpettoni moraleggianti a forti tinte come Non è mai troppo tardi per redimersi (It’s never too late to mend, 1856) e Denaro rubato (Hard cash, 1863), basati sulle terribili condizioni dei penitenziari. La sua opera migliore è Il chiostro e il focolare (The cloister and the heart, 1861), suggestiva saga ambientata sullo sfondo della Provenza rinascimentale.

    ⁹ Vedi nota 3.

    ¹⁰Sul metodo di lavoro dei feuilletonisti in generale e della Invernizio in particolare, vedi A. Bianchini, La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell’Ottocento, cit. e Riccardo Reim, L’Italia dei misteri, Editori Riuniti, Roma 1989, nonché R. Reim, Nero per signora. I racconti neri di Carolina Invernizio, Editori Riuniti, Roma, nuova ediz. aggiornata 2006.

    ¹¹ Vedi nota 3.

    ¹² Vedi nota 3

    ¹³ Vedi nota 3.

    ¹⁴ Vedi nota 3.

    ¹⁵ Vedi nota 3.

    ¹⁶ La citazione è ripresa da M. Praz, La letteratura inglese, cit.

    ¹⁷ A questo proposito vedi il breve saggio su Dickens e sul Circolo Pickwick in particolare incluso in G.K. Chesterton, Selected essays, Londra 1959, riprodotto nel presente volume.

    ¹⁸ Vedi P. Bellocchio, Introduzione a C. Dickens, Il Circolo Pickwick, cit.

    ¹⁹ Vedi nota 3. A proposito della trasformazione del suo protagonista, lo stesso Dickens (vedi nota 2) scrive: «È stato osservato che, man mano che il testo procede, si verifica un deciso mutamento nel personaggio di Mr. Pickwick, e che egli va facendosi migliore e più sensibile. Non penso che tale mutamento possa sembrare forzato o innaturale ai miei lettori, se vorranno riflettere che nella vita reale le varie stramberie di un eccentrico generalmente fanno presa su di noi per le prime, ed è soltanto dopo che abbiamo conosciuto meglio l’individuo in questione che cominciamo a scorgere sotto quelle caratteristiche superficiali i suoi lati migliori».

    ²⁰ Vedi nota 3.

    ²¹ Vedi nota 18.

    ²² Vedi nota 6.

    ²³ G. Manganelli, Prefazione a C. Dickens, Grandi speranze, Casini, Roma 1967.

    ²⁴ Vedi nota 3.

    L’incantevole Pickwick

    Saggio di Gilbert K. Chesterton

    Con Il Circolo Pickwick Dickens balzò d’un tratto da un livello relativamente basso a un livello davvero altissimo. In seguito non ricadde più alla mediocre levatura degli Schizzi di Boz, ma non possiamo dare per certo che sia mai più risalito all’altezza del Pickwick. Il Circolo Pickwick non è di sicuro un buon romanzo, come però non è neppure un cattivo romanzo, semplicemente perché non è un romanzo. Da un certo punto di vista è opera più nobile del romanzo, perché nessun romanzo fornito di normale intreccio e conclusione potrebbe irradiare una tale sensazione di perenne giovinezza, quasi l’impressione che gli dei se ne vadano a zonzo per l’Inghilterra. Non è un romanzo, perché tutti i romanzi hanno una fine, mentre il Pickwick, propriamente parlando, non ce l’ha: partecipa della natura degli angeli. Il punto in cui termina la materia stampata, infatti, non è per nulla in senso artistico una fine. Da ragazzo, pensavo che alla mia copia mancassero alcune pagine, e le sto ancora cercando. Il libro poteva interrompersi in qualsiasi altro punto: dopo la liberazione di Mr. Pickwick a opera di Mr. Nupkins, oppure dopo che Mr. Pickwick viene ripescato dall’acqua, o in cento altri punti. E avremmo sempre compreso che la vera fine della storia non era quella. Ci sarebbe ancora rimasta la certezza che Mr. Pickwick avrebbe continuato a correre sulle medesime strade maestre vivendo le stesse emozionanti peripezie. Comunque, sta di fatto che il libro termina dopo che Mr. Pickwick ha messo su casa dalle parti di Dulwich. Ma noi sappiamo bene che non rimase lì per sempre: sappiamo che è uscito da quella casa per infilare daccapo la strada maestra delle grandi avventure, come sappiamo altresì che se anche noi la percorreremo, chissà in quale angolo dell’Inghilterra ci potrà capitare di trovarcelo di fronte.

    Ma il rapporto che corre tra il Pickwick e la normale struttura della narrativa richiede un discorso un po’ meno frettoloso, che in ogni modo va fatto prima di prendere in esame uno qualsiasi dei libri di Dickens o tutta l’opera nel suo insieme. L’opera di Dickens va catalogata per personaggi, a volte per gruppi, più spesso per episodi, mai tuttavia per romanzi. Non si può discutere se Nicholas Nickleby sia un buon romanzo o no, oppure se Il nostro comune amico sia brutto o meno. A rigor di termini, non esiste un romanzo intitolato Nicholas Nickleby, così come non ne esiste uno dal titolo Il nostro comune amico. Sono soltanto metrature tagliate via da quella fluttuante, variegata pezza che si chiama Dickens, scampoli più o meno lunghi che immancabilmente verranno a contenere una certa porzione di ottima sostanza e un’altra certa porzione di sostanza scadente. Si potrà dire, a seconda dei gusti, che «il personaggio di Crummles è perfetto», o magari che «i Boffins sono sbagliati», allo stesso modo che un uomo intento a osservare un fiume che scorre davanti ai suoi occhi potrà notare qui un fiore che galleggia e laggiù una striscia di scorie. Ma dal punto di vista dell’arte, è impossibile dividere in libri una produzione del genere. Magari sarà possibile trovare il meglio dell’opera globale nella peggiore delle opere singole.

    Racconto di due città è un bel romanzo, mentre La piccola Dorrit non lo è, ma nella Piccola Dorrit la descrizione dell’Ufficio di circonlocuzioneˮ è ottima quanto la descrizione della Banca Tellsonˮ nel Racconto di due città.

    La bottega dell’antiquario non è certamente bello quanto David Copperfield, ma il personaggio di Swiveller è altrettanto riuscito di quello di Micawber. E, oltretutto, non esiste alcuna ragione per cui queste stupende creazioni si trovino in un romanzo invece che in un altro. Non si capisce perché Sam Weller, nel corso dei suoi vagabondaggi, non possa incontrarsi con Nicholas Nickleby, né vi è motivo per cui il maggiore Bagstock non debba improvvisamente uscire a passi vigorosi dalle pagine di Ditta Dombey e Figlio per entrare altrettanto improvvisamente in quelle di Martin Chuzzlewit.

    A questo punto della generalizzazione va però precisato che Il Circolo Pickwick si distingue da tutto il resto per essere l’unico libro in cui Dickens alterò leggermente se stesso. Ma in linea generale bisogna tenere ben presente che in Dickens l’elemento principale non è rappresentato dalle storie, bensì dai personaggi che hanno peso sulle storie, o anche, piuttosto spesso, dai quei personaggi che per le storie non hanno alcun peso.

    Tutto ciò è assai evidente, ma se non lo si afferma e non lo si comprende a fondo, c’è rischio di fraintendere e sottovalutare grandemente Dickens. Perché non soltanto è vero che ogni suo congegno è mirato a facilitare la bella mostra che certi personaggi fanno di sé, ma vi è inoltre qualcosa di ancora più profondo e di meno moderno: ovvero che tutto il moto dei vari congegni esiste soltanto per mettere bene in mostra dei personaggi perfettamente statici. Nelle opere di Dickens le cose si muovono e cambiano al solo scopo di farci gettare lo sguardo sui grandi personaggi che non mutano affatto. Se esistesse un seguito del Circolo Pickwick dieci anni dopo, Mr. Pickwick avrebbe sempre la medesima età. E sappiamo che di certo non sarebbe caduto in quella bizzarra, dolce seconda infanzia che rasserena e semplifica la fine del colonnello Newcome. Perché per tutto il libro il colonnello Newcome vive nel tempo, non così Mr. Pickwick. Molti prenderanno questa mia affermazione come una lode per Thackeray e un biasimo nei confronti di Dickens, il che sta a dimostrare come siano pochi i moderni capaci di comprendere Dickens. E sta a dimostrare pure come siano pochi gli uomini capaci di comprendere le credenze e le favole dell’umanità. In sintesi, potremmo affermare che Dickems non fece veramente della letteratura, ma piuttosto creò una mitologia.

    Più che romanziere, Dickens fu scrittore mitologico: l’ultimo degli autori mitologici, forse il più grande. Non sempre riuscì a rendere uomini vivi i suoi personaggi, però riuscì almeno a farne sempre degli dei. Sono creature simili a Pulcinella e a Babbo Natale, che conducono una vita statica all’interno di una loro perpetua e personalissima estate. Dickens non si preoccupava di mostrare quali effetti il tempo e le circostanze potessero avere su un personaggio, e neppure gli effetti che quel personaggio potesse avere sul tempo e sulle circostanze. Diciamolo pure di sfuggita, ma tutte le volte che tentò di descrivere un qualche mutamento nella natura di un suo eroe, se la cavò abbastanza male, come nell’episodio del pentimento di Dombey o in quello del peggioramento di Boffin. Egli mirava a presentare il personaggio sospeso in una sorta di vuoto felice, in una sfera avulsa dal tempo ed essenzialmente indipendente dalle circostanze, anche se tale affermazione potrà forse suonare strana in rapporto con il sovrumano gioco di eventi del Pickwick. Ma tutte le avventure descritte nel libro, per quanto stravaganti, tendono soltanto a sottolineare l’ancora maggiore stravaganza delle anime, o semplicemente, a fare in modo, a volte, che il lettore possa trovare tale stravaganza a portata di mano. Per far arrivare Mr. Pickwick da Mr. Wardle in tempo per la festa di Natale, lo scrittore sarebbe stato capace di cacciarlo nella bocca di un cannone, e sarebbe giunto a scoperchiare il tetto della casa per lasciarlo cascare nel bel mezzo del ricevimento di Bob Sawyer. Ma una volta che Mr. Pickwick si trova in casa Wardle, con davanti il suo buon bicchiere di ponce e attorniato da una brigata di sfolgoranti personaggi, nulla più potrà smuoverlo dalla sua sedia. Una volta giunto al ricevimento di Sawyer, si scorda del modo in cui vi è capitato, dimentica Mrs. Bardell e tutta la sua storia. Perché quella storia altro non era che un incantesimo per evocare un dio, e quel dio (Jack Hopkins) ora è presente in tutta la sua divina potenza. Una volta che i grandi personaggi si trovano faccia a faccia, la scala che hanno salito per essere nel luogo dell’incontro viene dimenticata e crolla, l’impalcatura del racconto se ne vola via in pezzi, l’intreccio è trascurato, gli altri personaggi piantati in asso nel bel mezzo delle situazioni più critiche: tutta l’affollata piazza del racconto si blocca per due o tre chiacchieroni che se la pigliano sovranamente comoda, come se si trovassero in Paradiso. Perché non sono loro a esistere per la storia, bensì la storia a esistere per loro; e lo sanno molto bene.

    A ogni essere umano dev’essere accaduto - o almeno è auspicabile che sia così - di trovarsi una volta o l’altra a discorrere intorno a una tavola con gli amici più cari e simpatici, una di quelle sere in cui le varie personalità si manifestano al meglio, quasi schiudendosi come grandi fiori tropicali: ognuno sostiene il suo ruolo come in una deliziosa commedia dell’arte; ognuno è se stesso più di quanto lo sia mai stato in questa nostra valle di lacrime; ognuno sembra la stupenda caricatura di se stesso. L’uomo che ha conosciuto serate del genere comprenderà le esagerazioni contenute nel Circolo Pickwick; ma chi non le ha conosciute non apprezzerà il Pickwick, temo, neppure all’Altro Mondo. Perché Dickens, come ho già detto, è vicinissimo alla religione popolare, che poi è la sola definitiva e degna di fiducia: sa concepire la gioia che non ha fine; sa concepire creature imperiture come Puck o Pan, creature la cui voglia di vivere non può soddisfarsi di secoli né di millenni. Egli non si è fatto scrittore affinché le sue creature copino la vita e ne riproducano le angustie: è scrittore perché esse abbiano una loro vita, e sia una vita esuberante. È infatti assurdo chiamare i cristiani nemici della vita perché desiderano che la vita non abbia fine; e ancora più assurdo è definire noiosi gli scrittori di un tempo perché desideravano che i loro immutabili personaggi potessero durare per sempre. Sia la religione popolare con le sue gioie senza fine, sia le vecchie storie comiche con i loro scherzi interminabili oggi vanno scomparendo di pari passo. Siamo troppo deboli per desiderare quell’immortale vigore. Crediamo sia possibile stancarsi di una cosa buona, idea blasfema che in un sol colpo manda in malora tutti i paradisi in cui gli uomini hanno riposto le loro speranze. Gli antichi grandi sfidanti di Dio non ebbero paura di una eternità di tormenti, ma noi siamo al punto di avere paura di una eternità di gioia. Ora, non tocca a me scegliere fra quelli che amano la vita e i romanzi lunghi e quelli che amano la morte e le storie brevi: qui intendo solo ribadire che chiunque veda negli immutabili personaggi e nelle frasi ricorrenti di Dickens soltanto un difetto di monotonia e di mancanza di movimento vitale, non afferra il fine e la natura della sua opera. La sua è una tradizione del tutto differente, così come il suo scopo è del tutto differente da quello dei moderni romanzieri che studiano l’alchimia delle psicologie e le sfumature più sottili dei caratteri. Egli, al contrario, come tutta la gente semplice di ogni epoca, si occupa di creare delle divinità; si occupa, come dicevo, di esagerare la vita nel senso della vita stessa. Alla fin fine, lo spirito che Dickens esalta è quello di due buoni amici che passano tutta la notte insieme chiacchierando e bevendo vino; solo che per lui sono due amici immortali, capaci di conversare lungo una notte senza fine versandosi da bere da una bottiglia inesauribile.

    È proprio questo, quindi, il fatto concreto da afferrare per primo a proposito del Pickwick più ancora che degli altri romanzi: innanzitutto e soprattutto è una storia soprannaturale. Mr. Pickwick è un folletto. E anche il vecchio Mr. Weller è un folletto. Questo non vuol dire che siano adatti a fare l’altalena appesi a un filo di ragnatela; vuol dire soltanto che se fossero cascati giù a capofitto da una ragnatela del genere non si sarebbero rotti la testa. Ma per essere più esatti, dirò che Mr. Samuel Pickwick non è un folletto, è addirittura il principe delle fiabe, è l’astratto viandante e vagabondo, l’Ulisse della commedia: un essere per metà umano e per metà incantato - abbastanza umano per vagabondare, abbastanza umano per stupirsi, ma sorretto tuttavia da quell’allegro fatalismo tipico degli immortali - da quella favilla di divinità che nell’ora più cupa gli ricorda che è destinato a vivere felice in eterno. Egli si è messo in cammino per giungere in capo al mondo, ma sa che al termine del suo viaggio troverà una locanda dove riposarsi.

    Ho detto che il Circolo Pickwick è un romanzo di avventure e che Samuel Pickwick è il romantico cavaliere di ventura: fin qui, nulla di nuovo. Ma la curiosa, sconcertante scoperta di Dickens fu che, dopo aver scelto un pingue e anzianotto signore borghese come protagonista adatto per fare da bersaglio a una serie di beffe, intuì che un pingue vecchietto borghese offriva la migliore stoffa per creare un romantico cavaliere di ventura. Il Pickwick è un libro sommamente originale, anche perché narra le avventure di un vecchietto: è una fiaba dove il trionfatore non è il più giovane dei tre fratelli, bensì uno dei loro vecchi zii. Da ciò scaturisce un risultato che è al tempo stesso nobile, nuovo e veritiero. Nulla esige altrettanta semplicità di avventure. E nessuno possiede altrettanta semplicità del probo e attempato uomo d’affari. Per la vita romantica tale signore è più adatto di un’intera frotta di giovani trovatori: perché il giovane, nella sua vanità, gusta in anticipo le sue avventure allo stesso modo con cui sperpera in anticipo la sua rendita; con il risultato che sia le avventure che la rendita si sono già volatilizzate prima ancora di poterle sfiorare. Ma l’uomo ormai alla soglia della vecchiaia ha fatto l’abitudine alle necessità elementari, e la sua prima vacanza è per lui un’autentica seconda giovinezza. Thackeray, esprimendo una profonda e assoluta verità, affermava che l’uomo buono diviene più semplice via via che invecchia. Da giovane, Samuel Pickwick doveva essere stato, con ogni probabilità, un insopportabile bellimbusto. A quel tempo sapeva - o meglio, pensava di sapere - ogni cosa a proposito degli espedienti amorosi delle donne astute sul tipo di Mrs. Bardell. Ma gli anni e la vita attiva lo hanno liberato da tali vane e maligne conoscenze. Nel lasciar perdere le follie della giovinezza ha avuto la buona sorte di perdere anche la saggezza della gioventù. E Dickens ha saputo cogliere in maniera insieme stravagante e convincente la bizzarra innocenza che è propria del crepuscolo della vita. La faccia di luna piena e i tondi occhiali di Samuel Pickwick si muovono attraverso tutto il racconto come simboli di una sferica semplicità. Sono come rappresi nella sorpresa gravità che si può notare nei bimbi, quella sorpresa mista a serietà che è la sola felicità possibile per gli uomini. La rotonda faccia di Mr. Pickwick è come un onesto specchio dentro il quale si riflettono tutte le fantasie dell’esistenza terrena, perché a rigor di termini la sorpresa è la sola riflessione possibile. Tutto ciò in Dickens prese forma per gradi. È interessante rammentare il piano originale del libro, ovvero l’intreccio del Circolo Nimrod, dove l’autore si sarebbe dovuto occupare soltanto di giocare vari tiri ai suoi personaggi. Aveva scelto (o avevano scelto per lui) quel vecchietto corpulento e sempliciotto come tipo particolarmente adatto a cascare nelle botole, a scivolare sulle bucce, a dibattersi in letti con le lenzuola ripiegate a sacco, a rotolare giù dai carri e nelle pozzanghere. Ma via via che il lavoro procedeva, Dickens scoprì, come soltanto lui poteva scoprire, quanto quel vecchietto fosse adatto a salvare damigelle, a sfidare despoti, a ballare, a saltare, ad affrontare nuove esperienze di vita, a impersonare il deus ex machina e perfino il cavaliere errante. Dickens scoprì tutto questo. Lo scrittore entrò nel Circolo Pickwick per scherzo e vi rimase a pregare.

    Mr. Pickwick avanza nella vita armato di quella divina facondia che è la chiave di tutte le avventure. Il semplice è dovunque vittorioso, ed è lui che più si gode la vita. Per inseguire Jingle, Mr.

    Pickwick arriva alla locanda del Cervo Bianco, e lì trova l’impagabile Sam Weller intento a lustrare scarpe nel cortile. Per essere stato raggirato da Dodson e Fogg vorrà entrare in prigione come un paladino antico, realizzandovi la salvezza dell’uomo e della donna che un tempo lo avevano gravemente offeso. A chi è abbastanza savio da poter essere beffato non mancheranno mai le occasioni di correre avventure e di ricavarne grandi gioie: cadrà felice nelle trappole che gli altri gli avranno teso, dormirà comodamente nelle reti degli inganni. Tutte le porte dovranno spalancarsi davanti a colui che possiede una dolcezza più disarmante del coraggio. E tutto questo è detto inequivocabilmente in una breve e felice frase: cascarci sempre. Cadere in tutte le trappole significa vedere l’interno di ogni cosa. Significa godere della cordialità delle circostanze. Come un ospite d’onore, con solenne accompagnamento di fiaccole e fanfare, il semplice viene colto in trappola dalla vita. Lo scettico, invece, resta fuori.

    GILBERT KEITH CHESTERTON

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. Charles Dickens nasce a Portsmouth il 7 febbraio.

    1815. John Dickens, padre di Charles, impiegato all’ufficio paghe della Marina, viene trasferito a Londra.

    1817. John Dickens è trasferito a Chatham, dove il piccolo Charles trascorre il periodo più felice della propria infanzia.

    1821. Scolaro alla William Giles’s School, Charles scrive, alla matura età di 8-10 anni, la tragedia Misnar, the Sultan of India.

    1822. John Dickens è di nuovo trasferito a Londra, e va ad abitare al 16 di Bayham Street, Camden Town.

    1824. Mentre la sorella Fanny è iscritta alla Royal Academy of Music, il piccolo Charles, anche su pressioni della madre, viene abbandonato al lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe, Warren, sulle sponde del Tamigi. Questo gli dà il senso di una contaminazione col mondo basso e criminale. Il padre è rinchiuso nella prigione per debitori di Marshalsea. Charles alloggia presso una famiglia di amici, prima a Camden Town e poi a Lant Street, più vicino alla prigione del padre. Dopo pochi mesi, uscito John Dickens di prigione, la famiglia si trasferisce a Somers Town.

    1825. Charles Dickens si iscrive alla Wellington House Academy.

    1826. John Dickens ottiene un impiego giornalistico.

    1827. Charles si impiega presso lo studio legale Ellis e Blackmore. Per evadere dalla routine degli impieghi legali, studia stenografia da autodidatta.

    1830. Si invaghisce di Maria Beadnell, la cui famiglia tratta snobisticamente il giovane e lo induce ad interrompere il rapporto, nel 1833. Ottiene l’impiego di reporter parlamentare grazie anche allo zio.

    1832. Tenta il mestiere dell’attore.

    1833. «The Monthly Magazine» pubblica il suo primo racconto: A Dinner at Poplar Walk.

    1834. Giornalista al «The Morning Chronicle». Conosce la futura moglie, Catherine Hogarth. Pubblica altri bozzetti su «The Monthly Magazine».

    1836. Escono Sketches by Boz, First Series, e Sketches by Boz, Second Series, i suoi primi volumi. Si sposa e conosce John Forster che rimarrà forse il suo più fedele amico e primo, importantissimo biografo. Inizia a pubblicare Pickwick Papers in parti mensili, metodo a cui rimarrà sostanzialmente fedele per il resto della sua opera.

    1837. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Oliver Twist.

    1838. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Nicholas Nickleby.

    1840. Assunta la direzione di una nuova rivista, «Master Humphrey’s Clock», su di essa inizia la pubblicazione, in 40 puntate, settimanali, di The Old Curiosity Shop.

    1841. Su «Master Humphrey’s Clock», inizia la pubblicazione, in 40 puntate, di Barnaby Rudge.

    1842. Esce American Notes, risultato del suo primo viaggio negli Stati Uniti, e inizia la pubblicazione di Martin Chuzzlewit.

    1843. Scrive il racconto natalizio, archetipo di un genere, A Christmas Carol (a cui seguono, fino al 1848: The Chimes, The Cricket on the Hearth, The Battle of Life, e The Haunted Man).

    1844-5. Visita l’Italia.

    1846. Esce Pictures from Italy. Prende avvio Dombey and Son, in 20 puntate, che dà inizio alla sua fase matura dopo la crisi produttiva degli anni precedenti.

    1849. Inizia la pubblicazione di David Copperfield (in 20 puntate).

    1850. È direttore di una nuova rivista, «Household Words», che attraverserà tutti gli anni Cinquanta.

    1852. Inizia la pubblicazione di Bleak House (in 20 puntate).

    1854. Esce Hard Times, in numeri settimanali.

    1855. Inizia la pubblicazione di Little Dorrit (in 20 puntate).

    1855. Acquista la casa di Gads Hill, nei pressi di Chatham, ammirata nelle passeggiate dell’infanzia assieme al padre. I giri di letture delle proprie opere, iniziati per beneficenza e poi trasformati in vere e proprie iniziative commerciali, acquistano ritmi più intensi.

    1859. Assume la direzione della nuova rivista «All The Year Round», dove pubblica A Tale of two Cities.

    1860. Su «All The Year Round» inizia la pubblicazione di Great Expectations.

    1864. Inizia la pubblicazione di Our Mutual Friend (in 20 puntate), ultimo suo romanzo concluso.

    1865. Coinvolto in un incidente ferroviario, rischia che sia scoperta la sua relazione extraconiugale con l’attrice Ellen Ternan.

    1868. Pubblica su «The Atlantic Monthly» il racconto George Silverman’s Explanation.

    1870. Inizia la pubblicazione di The Mistery of Edwin Drood, del quale solamente sei numeri sono pubblicati, dei dodici previsti. Provato da una serie di stressanti letture pubbliche, muore a Gad’s Hill, il 9 giugno.

    BIBLIOGRAFIA

    Segnaliamo alcune fondamentali opere bibliografiche. Sulle opere di Charles Dickens, cfr. PHILIP COLLINS, New Cambridge Bibliography; e John Fenstermaker, Charles Dickens, 1940-1975: An Analytical Subject Index to Periodical Criticism of the Novels and Christmas Books, London, Prior, 1979.

    Per una rassegna della critica si veda, in italiano, a cura di C. PAGETTI e M. T. CHIALANT, Dickens e la critica, in iid., La città e il teatro. Dickens e l’immaginario vittoriano, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 13-39. Si vedano inoltre in Victorian Fiction: A Guide to Research, 1964 (a cura di LIONEL STEVENSON) la rassegna di ADA NISBET; e in Victorian Fiction: A Guide to Research, 1978 (a cura di GEORGE FORD), la rassegna di PHILIP COLLINS.

    La biografia oggi più accreditata è quella di EDGAR JOHNSON, Charles Dickens: His Tragedy and Triumph, London, Allen, 1977 (1952¹). Imprescindibile però quella dell’amico di Dickens, JOHN FORSTER, Life of Dickens, London, Chapman, 1872-4, 3 voll. Si vedano anche Letters of Charles Dickens, volumi 1-, Pilgrim Edition, a cura di MADLEINE HOUSE, GRAHAM STOREY, KATHLEEN TILLOTSON, K.J. FIELDING, Oxford, Oxford U.P., 1965.

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    Una interessante interpretazione tra testo e figura - che rinnova il peculiare rapporto tra la narrativa dickensiana e l’illustrazione attraverso quelle storiche di Phiz e altri - è offerta oggi dall’opera dell’incisore mirando haz (Cfr., ad esempio, Un albero di Natale, Milano, All’insegna del pesce d’oro, mcmlxxxi; e anche L’opera incisa, Milano, Nuages, 1999).

    Principali traduzioni in italiano di Il Circolo Pickwick:

    Il Circolo Pickwick ha conosciuto una buonissima fortuna in Italia. Fra le numerose traduzioni vanno almeno ricordate: F. Verdinois (Milano 1904); U. Dèttore (Milano 1943, poi, riveduta, Milano 1966 e Milano 1973); S. Spaventa Filippi (Roma 1954); L. Terzi (Milano 1965); G. Lonza (Milano 1990); F. Ballini (Milano 1997).

    Il Circolo Pickwick

    I. I Pickwickiani

    Il primo raggio di luce che rischiara le tenebre e muta in fulgido giorno l’ombra da cui sembra avvolto l’esordio nella vita pubblica dell’immortale Pickwick, scaturisce dall’attenta lettura dei seguenti estratti degli Atti del Circolo Pickwick, che l’editore di tali pagine presenta con gran piacere ai suoi lettori quale prova della diligente attenzione, dell’instancabile attività e dello squisito acume che hanno accompagnato la sua ricerca entro il gran cumulo di documenti a lui affidati.

    12 maggio 1827. Presidente Mr. Joseph Smiggers, VPPMCP * . Venne approvato all’unanimità quanto segue:

    La presente Associazione ha ascoltato, con sentimenti di sincera soddisfazione e con illimitata approvazione, la comunicazione di Mr. Samuel Pickwick, PMGCP**, intitolata Studi sulle sorgenti degli stagni di Hampstead, con alcune osservazioni sulla teoria dei girini; e questa Associazione porge i suoi più sentiti ringraziamenti al sullodato Mr. Samuel Pickwick pgmcp per quanto sopra.

    La presente Associazione, mentre è profondamente convinta dei vantaggi che possono derivare alla causa della scienza dalla suddetta comunicazione nonché dalle inesauste ricerche di Mr. Samuel Pickwick pgmcp a Hornsey, Highgate, Brixton e Camberwell, non può esimersi dal pensare agli inestimabili benefici che inevitabilmente riceverebbero il progresso, l’istruzione e la diffusione del sapere dall’estendersi degli studi di questa dotta mente in un più vasto campo, dall’ampliarsi dei suoi viaggi e dal conseguente allargarsi della sua sfera di osservazione.

    Da tale punto di vista, lai presente Associazione ha preso in seria considerazione la proposta del suddetto Samuel Pickwick pgmcp e di tre altri Pickwickiani qui appresso indicati, per la formazione di una nuova sezione di Pickwickiani Uniti sotto la denominazione di Società Corrispondente del Circolo Pickwick.

    La detta proposta è stata approvata e ratificata dalla presente Associazione.

    La Società Corrispondente del Circolo Pickwick con questo atto è dunque costituita; i signori Samuel Pickwick, pgmcp, Tracy Tupman, mcp, Augustus Snodgrass, mcp, e Nathaniel Winkle, mcp, sono con tale atto nominati e indicati membri della medesima; ed essi sono incaricati di inviare di tanto in tanto al Circolo Pickwick di Londra dei rendiconti autentici dei loro viaggi e delle loro ricerche, delle loro osservazioni sulle persone e sui costumi, del complesso delle loro avventure unitamente alle narrazioni e agli studi ai quali possano dare origine le usanze del luogo o tutto ciò che con esse abbia una qualche relazione.

    La presente Associazione abbraccia di buon grado il principio che ogni membro della Società Corrispondente provveda in proprio alle spese di viaggio, e non ha nulla da obiettare a che i membri della suddetta Società prolunghino le loro ricerche per tutto il tempo che riterranno necessario, sempre alle medesime condizioni.

    I membri della suddetta Società Corrispondente siano, e sono, con questo atto, informati che la loro proposta di pagare le spese postali delle loro lettere e di qualsiasi altra spedizione è stata seriamente ponderata dalla presente Associazione. L’Associazione stessa giudica tale proposta degna dei grandi spiriti dai quali viene emanata, e ne dichiara, con questo atto, il completo accoglimento.

    Un osservatore superficiale - aggiunge il segretario delle cui note ci serviamo per il rendiconto che segue - un osservatore superficiale non avrebbe forse notato nulla di straordinario in quella testa calva, in quegli occhiali rotondi puntati dritti verso di lui durante la lettura delle deliberazioni di cui sopra, ma per quelli che sapevano che il gigantesco cervello di Pickwick era al lavoro dietro quella fronte e che gli scintillanti occhi di Pickwick lampeggiavano dietro quelle lenti, lo spettacolo doveva essere sommamente interessante. Là sedeva l’uomo che aveva risalito fino alle sorgenti i capaci stagni di Hampstead e messo a soqquadro il mondo scientifico con la sua teoria sui girini, e appariva calmo e imperturbabile come le profonde acque dei primi in un giorno di gelo o come un solitario esemplare dei secondi nei più intimi recessi di una brocca di coccio. E quanto più interessante si fece lo spettacolo quando, animandosi improvvisamente al grido simultaneo di «Pickwick» che erompeva dai petti dei suoi seguaci, quell’illustre personaggio montò pian piano sulla sedia Windsor dove prima sedeva e si rivolse al Circolo da lui stesso fondato! Quale soggetto per un artista avrebbe offerto quella magnifica scena! L’eloquente Pickwick, con una mano elegantemente celata tra le falde dell’abito, agitava l’altra in aria per dare forza al suo magnifico parlare. Da quella elevata posizione facevano bella mostra di sé quelle ghette e quei pantaloni che se avessero rivestito un uomo qualunque sarebbero passati del tutto inosservati, ma che, indossati da Pickwick - se ci è lecito usare una tale espressione - incutevano involontari sentimenti di riverenza e rispetto. Intorno a lui erano gli uomini che avevano spontaneamente scelto di partecipare ai rischi dei suoi viaggi, destinati a condividere la gloria delle sue scoperte! Alla sua destra sedeva Mr. Tracy Tupman, l’ipersensibile Tupman che alla saggezza e all’esperienza degli anni maturi univa l’entusiasmo e l’ardore dell’adolescenza nella più attraente e scusabile delle debolezze umane: l’amore. Il tempo e una copiosa nutrizione avevano alquanto ingrossato quelle forme in altri tempi romantiche; il panciotto di seta nera si era andato a mano a mano sempre più allargando; la catena d’oro che ne pendeva era a poco a poco scomparsa dal suo raggio visuale; e gradatamente il mento ricolmo era andato traboccando sull’orlo della candida cravatta; ma l’anima di Tupman non aveva conosciuto mutamenti: l’ammirazione per il bel sesso era ancora la sua passione dominante. Alla sinistra dell’illustre condottiero sedeva invece il poetico Snodgrass, e accanto a lui lo sportivo Winkle: l’uno poeticamente avvolto in un misterioso soprabito blu scuro con il bavero di pelo di cane, l’altro intento a impreziosire ulteriormente con la sua persona un vestito verde da caccia nuovo fiammante, una sciarpa scozzese e un paio di pantaloni grigi attillatissimi.

    Il discorso tenuto da Pickwick in quell’occasione, assieme al dibattito che ne seguì, è registrato nei verbali del Circolo. Entrambi somigliano parecchio alle discussioni di altre celebri assemblee; e siccome è sempre interessante tracciare un parallelo tra le azioni dei grandi, trascriviamo l’inserto in queste pagine.

    Mr. Pickwick osservò (è il segretario a scrivere) che la fama è cara a ogni cuore umano: cara al cuore del suo amico Snodgrass era la fama poetica, così come la fama di conquistatore era ugualmente cara al suo amico Tupman e come il desiderio di acquistarne negli sport dell’acqua e dell’aria riempiva il cuore del suo amico Winkle. Egli (Mr. Pickwick) non negava di certo di agire sotto l’impeto delle passioni umane, degli umani sentimenti (applausi)... e forse delle debolezze umane (alte grida di «No»); ma questo poteva affermare: che se mai la fiamma dell’amor proprio gli si accendeva in petto, subito veniva spenta dal desiderio di giovare soprattutto al bene dell’umanità. La lode del genere umano era il suo puntello; la filantropia il suo ufficio di assicurazione (fragorosi applausi). Egli aveva provato un certo orgoglio - lo riconosceva francamente, i suoi nemici se ne approfittassero pure - aveva provato un certo orgoglio, dunque, nel presentare al mondo la sua teoria sui girini, famosa o no che potesse essere (un grido: «Lo è», e grandi applausi). Egli accettava l’affermazione di quell’onorevole Pickwickiano del quale aveva per l’appunto udito la voce; ma se anche la fama di quel suo studio avesse dovuto estendersi fino ai più remoti confini del mondo conosciuto, l’orgoglio che avrebbe provato come autore di quell’opera sarebbe stato men che nulla al confronto dell’orgoglio con cui si guardava intorno in quel momento, di certo il più bello della sua esistenza (applausi). Egli era solo una modesta persona («No! No!»), tuttavia non poteva non sentire di essere stato eletto per un’onorevolissima impresa, non esente da qualche pericolo. Viaggiare, attualmente, non era una cosa molto consolante, e un certo disordine agitava le menti dei postiglioni. Bastava dare un’occhiata fuori e guardare le scene che si svolgevano in giro. Dappertutto diligenze ribaltate, cavalli imbizzarriti, battelli colati a picco, caldaie che scoppiavano ... (applausi; una voce: «No!»). No? (applausi). L’onorevole Pickwickiano che aveva gridato con tanta forza «No» si facesse avanti a confutarlo, se poteva (applausi). Chi dunque aveva gridato «No»? (applausi frenetici). Forse qualche vanitoso o qualche deluso - non voleva dire qualche mercantucolo (applausi entusiastici) - il quale, ingelosito dalle lodi che - forse immeritatamente - gli si attribuivano (a Mr. Pickwick) per le sue ricerche, rodendosi sotto il fardello delle critiche ammucchiate sulla propria incapace rivalità, ora si appigliava a quella vile e calunniosa maniera di...

    Mr. Blotton (di Aldgate) si alza e prende la parola. L’onorevolo Pickwickiano intendeva forse alludere a lui? (grida di: «Ordine!», «Silenzio!», «Sì!», «No!», «Avanti!» ecc.).

    Mr. Pickwick non si lascia intimorire da quei clamori. Egli aveva proprio voluto alludere all’onorevole avversario (grande agitazione).

    Mr. Blotton afferma allora di limitarsi a respingere con profondo disprezzo le accuse false e volgari dell’avversario. L’onorevole avversario non era che un cialtrone (immensa confusione; grida di: «Silenzio!», «Ordine!»)

    Mr. Snodgrass si alza e prende a sua volta la parola. Balza sulla sedia («Udite!»), appellandosi al Presidente. Desidera sapere se si sarebbe lasciata continuare quella disgraziata diatriba tra due membri del Circolo («Udite!»).

    Il Presidente dichiara di essere assolutamente sicuro che l’onorevole Pickwickiano avrebbe ritirato l’espressione che aveva appena usato.

    Mr. Blotton, con tutto il rispetto per la Presidenza, era assolutamente sicuro del contrario.

    Il Presidente considerava suo preciso dovere domandare all’onorevole membro se aveva inteso usare l’espressione sfuggitagli nell’usuale accezione del termine.

    Mr. Blotton non ha alcuna esitazione a rispondere di no: egli aveva usato la parola nel suo senso Pickwickiano («Udite! Udite!»). E riconosceva che, personalmente, nutriva il massimo rispetto e la massima stima per l’onorevole avversario: lo aveva considerato un cialtrone in senso puramente Pickwickiano («Udite!»).

    Mr. Pickwick si dichiara dunque pienamente soddisfatto dalla chiara, leale ed esauriente spiegazione dell’onorevole amico. Egli pure desidera a sua volta chiarire che anche le sue proprie osservazioni intendevano avere una portata puramente pickwickiana (applausi).

    A questo punto termina il verbale, e senza dubbio anche la discussione terminò, dopo essere giunta a tali vertici di soddisfazione e di chiarezza. Non abbiamo alcun documento ufficiale sui fatti che il lettore troverà esposti nel prossimo capitolo, ma essi sono stati accuratamente raccolti da lettere e altri manoscritti così inconfutabilmente autentici, da giustificare la loro narrazione in forma diretta.

    * Vice Presidente Perpetuo - Membro del Circolo Pickwick.

    ** Presidente Generale - Membro del Circolo Pickwick.

    II. Primo giorno di viaggio e avventure della prima sera; con le loro conseguenze

    Quella specie di servitore esattissimo e universale che è il sole era appena sorto e aveva iniziato a diffondere i suoi raggi sul mattino del tredici maggio milleottocentoventisette, quando Mr. Samuel Pickwick, come un secondo sole, si riscosse dal sonno, spalancò la finestra della sua camera e guardò il mondo sottostante. Goswell Street giaceva ai suoi piedi: Goswell Street si stendeva alla sua destra, a perdita d’occhio, Goswell Street continuava altrettanto a sinistra; e di fronte a lui si ergeva l’opposto lato di Goswell Street. «Allo stesso modo», pensò Mr. Pickwick, «sono fatte le anguste vedute di quei filosofi che, paghi dell’apparenza esterna delle cose, non indagano le verità che vi si celano. Allo stesso modo, io potrei accontentarmi di restarmene qui a contemplare Goswell Street tutta la vita, senza compiere il minimo sforzo per esplorare le recondite contrade che da ogni lato la circondano». E, avendo formulata tale bella riflessione, Mr. Pickwick prese a vestirsi e a infilare abiti e biancheria nella valigia. È raro che i grandi dedichino un tempo eccessivo alla cura della persona: le operazioni di radersi, di abbigliarsi e fare colazione furono sbrigate rapidamente. Un’ora dopo Mr. Pickwick, con la valigia in mano, il cannocchiale nella tasca del soprabito e nel taschino del panciotto il taccuino degli appunti pronto ad accogliere tutte quelle scoperte che apparissero degne di nota, era giunto al posteggio delle vetture in St. Martin’s-le-Grand.

    «Vettura!», chiamò Mr. Pickwick.

    «Arrivo, signore», urlò uno strano campione della razza umana in giacca e grembiale di tela grezza che, con una lastrina di ottone numerata al collo, aveva l’aria di un soggetto catalogato in qualche collezione da museo. Era il fattorino di piazza. «Eccoci, signore. Ehi! Prima vettura!». E appena il primo cocchiere fu stanato dalla bettola dove era occupato a fumare la prima pipa della giornata, Mr. Pickwick e la sua valigia vennero scaraventati sul veicolo.

    «Golden Cross», disse Mr. Pickwick.

    «Ingrassati con una corsa da uno scellino, Tommy», gridò di cattivo umore il cocchiere rivolgendosi al fattorino di piazza, mentre la vettura si muoveva.

    «Quanti anni ha questo suo cavallo, amico?», domandò Mr. Pickwick grattandosi il naso con lo scellino che teneva pronto per pagare la corsa.

    «Quarantadue», rispose il cocchiere sbirciandolo di traverso.

    «Come, come?!», esclamò Mr. Pickwick mettendo subito mano al suo taccuino.

    Il cocchiere ripetè la sua affermazione. Mr. Pickwick lo guardò fisso in faccia, ma vedendo che non muoveva un muscolo, si affrettò ad annotare il fatto.

    «E quante ore al giorno lo tenete attaccato?», domandò ancora Mr. Pickwick in cerca di ulteriori informazioni.

    «Due o tre settimane di fila», rispose l’altro.

    «Settimane!», esclamò strabiliato Mr. Pickwick, dando di nuovo mano al suo taccuino.

    «Quando è a casa, a Pentonwil», chiarì il cocchiere in tono serio, «ma è così debole che ce lo portiamo di rado, molto di rado».

    «Molto di rado...», ripetè perplesso Mr. Pickwick.

    «È che quando lo stacchiamo dalla vettura, casca giù in terra, non c’è niente da fare!», continuò il vetturino. «Invece quando è tra le stanghe, lo tengo bello stretto, corto di briglia, in modo che non gli riesce di cadere. E poi ho un paio di ruote che quasi vanno da sole, un vero portento: quando il cavallo si muove, le ruote gli corrono dietro e lui deve andare avanti, gli piaccia o non gli piaccia».

    Mr. Pickwick trascrisse ogni parola di questa dichiarazione nel suo taccuino, con lo scopo di comunicarla al Circolo quale esempio della singolare longevità della razza equina in condizioni tanto disperate. L’annotazione

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