La saggezza della vita
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Traduzione di Leonardo Casini e Irmela Evangelisti
Edizione integrale
Gli aforismi su La saggezza della vita di Arthur Schopenhauer costituiscono un classico della letteratura sapienziale, che ha fatto annoverare il filosofo tedesco tra i grandi moralisti di tutti i tempi. Dopo aver dipinto il grande affresco della sua concezione del mondo e dell’uomo nelle opere più rigorosamente filosofiche, qui Schopenhauer dà ad essa nuova vita, facendola diventare carne e sangue, sapienza pratica e concreta conoscenza degli uomini, della società, della cultura, come anche della natura più intima della nostra esistenza. E traccia così una via che dovrebbe consentirci di vivere, se non proprio felicemente, il meno infelicemente possibile.
«Bastare a se stessi, essere se stessi in tutto e per tutto è certamente il requisito più utile per la nostra felicità».
«Il primo sguardo d’insieme, il più generale, ci mostra subito i due nemici della felicità umana, il dolore e la noia. Si aggiunge a ciò, andando un po’ più a fondo, il fatto che quando abbiamo la fortuna di allontanarci da uno dei due ci avviciniamo all’altro e viceversa…»
Arthur Schopenhauer
nacque il 22 febbraio 1788 a Danzica. Quando la città passò sotto il controllo prussiano, il padre, ricco banchiere, si trasferì con la famiglia ad Amburgo. Studiò in Francia e Inghilterra, e alla morte del padre, suicida, andò a vivere con la madre a Weimar. Nel 1813 si ritirò a vita appartata a Jena, per preparare la tesi per l’abilitazione Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, tuttavia non ottenne mai la cattedra a Berlino alla quale ambiva. Nel 1831 si ritirò definitivamente a Francoforte, dove compose tra le altre opere anche la sua ultima, Parerga e paralipomena (1851), e dove morì il 21 settembre 1860. Di Schopenhauer la Newton Compton ha pubblicato La saggezza della vita. Aforismi, Saggio sulla visione degli spiriti e Il mondo come volontà e rappresentazione.
Arthur Schopenhauer
Nació en Danzig en 1788. Hijo de un próspero comerciante, la muerte prematura de su padre le liberó de dedicarse a los negocios y le procuró un patrimonio que le permitió vivir de las rentas, pudiéndose consagrar de lleno a la filosofía. Fue un hombre solitario y metódico, de carácter irascible y de una acentuada misoginia. Enemigo personal y filosófico de Hegel, despreció siempre el Idealismo alemán y se consideró a sí mismo como el verdadero continuador de Kant, en cuyo criticismo encontró la clave para su metafísica de la voluntad. Su pensamiento no conoció la fama hasta pocos años después de su muerte, acaecida en Fráncfort en 1860. Schopenhauer ha pasado a la historia como el filósofo pesimista por excelencia. Admirador de Calderón y Gracián, tradujo al alemán el «Oráculo manual» del segundo. Hoy es uno de los clásicos de la filosofía más apreciados y leídos debido a la claridad de su pensamiento. Sus escritos marcaron hitos culturales y continúan influyendo en la actualidad. En esta misma Editorial han sido publicadas sus obras «Metafísica de las costumbres» (2001), «Diarios de viaje. Los Diarios de viaje de los años 1800 y 1803-1804» (2012), «Sobre la visión y los colores seguido de la correspondencia con Johann Wolfgang Goethe» (2013), «Parerga y paralipómena» I (2.ª ed., 2020) y II (2020), «El mundo como voluntad y representación» I (2.ª ed., 2022) y II (3.ª ed., 2022) y «Dialéctica erística o Arte de tener razón en 38 artimañas» (2023).
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La saggezza della vita - Arthur Schopenhauer
CAPITOLO PRIMO
Partizione generale
Aristotele ha diviso i beni della vita umana in tre classi: i beni esteriori, i beni dell’anima e i beni del corpo (Etica Nicomachea, 1,8). Conservando di ciò solo la tripartizione io dico che tutto quello che differenzia le sorti dei mortali si può ricondurre a tre determinazioni fondamentali. Esse sono:
1. Ciò che uno è: la sua personalità, nel senso più ampio del termine. In questa classe sono quindi compresi salute, forza, bellezza, temperamento, carattere morale, intelligenza e la sua coltivazione, la cultura.
2. Ciò che uno ha: proprietà e possessi in ogni senso della parola.
3. Ciò che uno rappresenta: con questa espressione si intende, come ben si comprende, ciò che uno è nella rappresentazione degli altri, quindi propriamente come da essi viene rappresentato; ciò consiste nell’opinione che gli altri hanno di lui e si può distinguere in onore, rango e fama.
Nel primo gruppo devono essere considerate le differenze che la natura stessa ha posto tra gli uomini. Dal che già si ricava che sarà molto più importante e radicale l’influsso di queste differenze sulla felicità e l’infelicità umana che non di quelle caratteristiche degli uomini che scaturiscono dalle diversità che possono essere semplicemente ricondotte agli altri due gruppi. Per i grandi spiriti o per i grandi cuori tutti i vantaggi derivanti dal rango, dalla nascita, perfino da quella regale, dalla ricchezza, e simili, possono essere paragonati ai re delle commedie rispetto a quelli reali. Già Metrodoro, il primo discepolo di Epicuro ha intitolato un capitolo così: Περί τοΰ μείζονα εϊναι τήν παρ'ήμάς αίτίαν πρός εύδαιμονίαν τής έχ τών πραγμάζων («Majoretti esse causam ad felicitatem eam, quae est ex nobis, ea quae ex rebus oritur»¹; cfr. Clemens Alex., Strom., II, 21, p. 362 dell’edizione di Würzburg delle Opp. polem.).
E d’altronde la cosa fondamentale per il benessere dell’uomo, anzi per il suo modo di vivere visto sotto tutti gli aspetti è chiaramente ciò che risiede in lui stesso o da lui proviene. È proprio qui che sta l’origine immediata del suo benessere o malessere che costituisce il primo frutto del suo sentire, volere e pensare, mentre tutto il resto che sta al di fuori di lui ha un’influenza solo mediata. Gli stessi avvenimenti o rapporti esterni producono perciò sulle persone effetti diversi, e ognuno vive le stesse circostanze all’interno di un proprio mondo. Si ha a che fare infatti immediatamente solo con le proprie rappresentazioni, con i propri sentimenti e moti della volontà: le cose esterne influenzano gli uomini solo in quanto ne sono l’occasione. Il mondo in cui ognuno vive dipende anzitutto da come esso viene compreso e assimilato da ognuno, e si conforma ai diversi cervelli: a seconda di questi risulta povero, vuoto e piatto oppure ricco, interessante e pieno di significato. Mentre, ad esempio, qualcuno invidia un altro per gli avvenimenti che gli sono accaduti nella vita, dovrebbe invece invidiare piuttosto il dono di viverli in quel modo, che fornisce a quegli eventi il significato che acquistano nella loro descrizione: lo stesso avvenimento o circostanza, che si presenta tanto interessante in una mente ricca di doti spirituali, apparirebbe a una superficiale mente comune solo una vuota scena tratta dalla vita di tutti i giorni. La cosa trova la sua più alta espressione in alcune poesie di Goethe e di Byron, occasionate chiaramente da avvenimenti reali: un lettore sciocco è in grado solo di invidiare in esse quell’evento tanto piacevole, non la possente fantasia che è stata capace di rendere così grande e bello un avvenimento pressoché quotidiano. Per questo il malinconico vede una tragedia ove il sanguigno scorge solo un interessante conflitto e il flemmatico ha di fronte qualcosa di indifferente e insignificante. Il fondamento di tutto questo sta che ogni realtà, cioè il presente inteso nel suo insieme globale, consta di due metà, il soggetto e l’oggetto, sia pure uniti in modo così necessario e stretto come l’ossigeno e l’idrogeno sono una cosa sola nell’acqua. Queste due metà unite si possono paragonare a un bel paesaggio durante un forte temporale o nel riflesso di una camera obscura. O, per esprimerci in modo più semplice: ognuno si nasconde nella sua coscienza come nella propria pelle e vive in modo immediato solo in essa. Per questo ciò che proviene dall’esterno non può essergli di grande aiuto. Sul palcoscenico uno recita la parte del principe, un altro dell’alto consigliere, un terzo svolge il ruolo del servo, del soldato o del generale, e così via. Ma queste differenze sono dotate solo di un’esistenza esteriore e apparente; all’interno di tutti si cela la stessa cosa, che è il nocciolo di tali manifestazioni: un povero commediante con i suoi tormenti e i suoi bisogni. Così è anche nella vita: le differenze di rango e di ricchezza assegnano a ciascuno un ruolo da svolgere, tuttavia a tale ruolo non corrisponde affatto una differenza interiore di felicità e benessere: anche qui si cela in ciascuno un povero diavolo con i suoi bisogni e i suoi tormenti, materialmente diversi per ciascuno, ma formalmente, cioè nella loro essenza, più o meno gli stessi per tutti, seppur in grado diverso, che non dipende tuttavia dalla posizione sociale o dalla ricchezza, cioè dal tipo di vita che ognuno conduce. Infatti tutto ciò che veramente esiste nell’uomo e a lui accade, esiste sempre e solo immediatamente nella sua coscienza e accade per essa; ciò che quindi è essenziale, prima d’ogni altra cosa, è la conformazione della coscienza stessa, e nella maggior parte dei casi essa è molto più importante delle immagini che si presentano in essa. Tutto lo sfarzo e i piaceri possibili riflessi nella ottusa coscienza di uno stupido sono assai poveri rispetto alla coscienza di un Cervantes, quando scriveva in una scomoda prigione il Don Chisciotte. La metà oggettiva della realtà presente è in mano al destino ed è perciò mutevole; l’altra metà, quella soggettiva siamo noi stessi ed è perciò, almeno nella sua essenza, immutabile². Per questo la vita di ogni uomo, nonostante tutte le variazioni che provengono dall’esterno, è interamente attraversata dallo stesso carattere che egli possiede e si può paragonare a una serie di variazioni sullo stesso unico tema. Nessuno può uscire dalla propria individualità. Come l’animale, per quanto lo si metta in rapporto con qualsiasi realtà esterna, rimane limitato nella cerchia ristretta delle possibilità entro cui la natura ha irrevocabilmente rinserrato il suo essere - che è poi la ragione per cui, ad esempio, qualsiasi nostro sforzo per render felice un animale a cui siamo affezionati, proprio in virtù di quei limiti del suo essere e della sua coscienza, debbono essere contenuti entro quei limiti ristretti - così è anche per l’uomo: con la sua individualità è già prefissata, sin dall’inizio, la misura della sua possibile felicità. In particolare i limiti delle sue forze spirituali hanno stabilito, una volta per tutte, la sua capacità di un elevato godimento (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, II)³. Se i suoi limiti sono ristretti, tutti i tentativi operati dall’esterno, tutto ciò che gli uomini e la fortuna faranno per lui non saranno in grado di portarlo al di fuori della misura comune e semianimalesca della felicità e dei piaceri della maggior parte degli uomini: sarà destinato a rimanere all’interno dei piaceri dei sensi, di una triste o serena vita familiare, di una cerchia di amici di bassa lega e di passatempi volgari. Perfino la cultura nel complesso non può far molto per allargare quella cerchia, ammesso anche che possa qualcosa. Infatti i piaceri più alti, più variegati e durevoli - per quanto ci si possa in gioventù ingannare su di essi - sono quelli spirituali; ma questi dipendono fondamentalmente da una forza innata in noi. Da tutto ciò risulta quindi chiaro quanto la nostra felicità dipenda da ciò che noi siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si chiama in causa il nostro destino, ciò che noi abbiamo o ciò che noi rappresentiamo. Ma il destino può migliorare, e inoltre non si chiederà a esso più di tanto, se si possiede già una ricchezza interiore; un povero sciocco rimarrà sempre un povero sciocco e un ottuso imbecille rimarrà un ottuso imbecille fino alla fine dei suoi giorni, fosse anche in Paradiso o circondato dalle Urì. Perciò Goethe dice:
i popoli, schiavi e vincitori,
confessano in ogni tempo
essere soltanto la personalità
la felicità suprema dei figli della Terra.
Divano occidentale-orientale
Che la componente soggettiva sia di gran lunga più essenziale della componente oggettiva viene confermato da tutto, a cominciare dal fatto che la fame è il miglior cuoco e che al vecchio appare indifferente colei che per il giovanotto è una dea, fino a giungere alla vita del genio e del santo. La salute, in particolar modo, supera talmente tutti beni esteriori che veramente un mendicante sano è più felice di un re ammalato. Un temperamento calmo e sereno che scaturisca da una salute perfetta e da un organismo felice, un’intelligenza chiara, vivace, penetrante e in grado di afferrare bene la realtà, una volontà moderata e mite, e di conseguenza una buona coscienza, questi sono i beni preferibili a tutti, che nessun rango sociale e nessuna ricchezza possono sostituire. Infatti ciò che uno è per se stesso, ciò che lo accompagna nella solitudine e nessuno può dargli o prendergli è con tutta evidenza per lui più importante di tutto ciò che può possedere o essere agli occhi degli altri. Un uomo di grandi doti spirituali nella più completa solitudine si intrattiene in modo eccellente con i suoi pensieri e le sue fantasie, laddove un povero di spirito non riesce a fugare la noia che lo affligge neanche con un continuo variare di compagnie, spettacoli, gite e divertimenti. Un buon carattere, misurato e mite, può essere contento anche in condizioni misere, mentre un cattivo carattere avido e invidioso non lo è neanche con tutte le ricchezze del mondo. Ma per colui che può fruire durevolmente di un’individualità straordinaria, spiritualmente superiore, la maggior parte dei piaceri che in genere tutti ricercano sono del tutto superflui, anzi risultano perfino pesanti e disturbanti. Per questo Orazio, parlando di se stesso, dice:
Gemmas, marmor, ebur, Tyrrhena sigilla, tabellas
Argentum, vestes Gaetulo murice tinctas,
Sunt qui non habeant, est qui non curai habere⁴.
e Socrate esclamò, vedendo articoli di lusso esposti per la vendita: «Quante cose vi sono di cui non ho bisogno!».
È quindi di gran lunga la prima cosa e la più essenziale per la felicità della nostra vita ciò che noi siamo, la nostra personalità, in primo luogo perché è costantemente presente e attiva in qualsiasi condizione ci troviamo, e poi perché non è sottoposta ai mutamenti della sorte, come i beni che appartengono agli altri due gruppi, e non può esserci strappata dalle mani. Perciò il suo valore può dirsi assoluto, in contrapposizione di quello puramente relativo degli altri due gruppi. Ne consegue che all’uomo può aggiungersi dall’esterno assai meno di quanto in genere non si sia convinti che avvenga. Solo la forza onnipotente del tempo esercita anche qui i suoi diritti: a essa soggiacciono in modo inesorabile e progressivo i vantaggi corporei e spirituali. Solo il carattere morale è esente anche dagli attacchi di tale forza. È pur vero che, in questa prospettiva, quei beni degli altri due gruppi, che di fatto non siano immediatamente portati via dal tempo, avrebbero un primato rispetto a quelli del primo. Si potrebbe anche trovare un altro vantaggio nel fatto che di essi, proprio perché oggettivi, ci si può per la loro natura stessa impadronire e che ognuno ha almeno la possibilità di entrarne in possesso, mentre, al contrario, quanto è soggettivo non è in nostro potere: entrato nel mondo jure divino, resta immutabile per tutta la vita. Per questo la sentenza è inesorabile:
Come il giorno che ti mise al mondo
i pianeti salutavano il Sole
e tu sei tosto e sempre più cresciuto
secondo la legge con cui sei