Araldi del male: L’eredità tragica del massacro alla Scuola Superiore Columbine High vent’anni dopo
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Info su questo ebook
Alla fine si suicidano. Nulla sarà più lo stesso. La paura entra nella normalità della vita di tutti. Sono Araldi del male. Il loro gesto annuncia il millennio delle stragi, del terrorismo, del contagio sociale. Fabrizio Mignacca, psicologo-psicoterapeuta, attraverso la ricostruzione dei fatti e delle cause, prova ad illustrare le radici della paura del terzo millennio, scoprendone totem e tabù alla ricerca di un senso a questi ultimi 20 anni.
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Anteprima del libro
Araldi del male - Fabrizio Mignacca
Araldi del male. L’eredità tragica del massacro alla Scuola Superiore Columbine High vent’anni dopo
di Fabrizio Mignacca
Direttore di Redazione: Jason R. Forbus
Impaginazione di Sara Calmosi
ISBN 978-88-33464-54-1
Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, 2019©
Saggistica – Società
www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com
È severamente vietata la riproduzione, anche parziale del testo, effettuata con qualsiasi mezzo, senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.
FABRIZIO MIGNACCA
ARALDI DEL MALE
L’eredità tragica del massacro alla Scuola Superiore Columbine High vent’anni dopo
Edizioni
Sommario
Prefazione
Introduzione
Forty Seconds
Capitolo 1
La ricostruzione della strage
Capitolo 2
L’analisi Multifattoriale delle cause
Capitolo 3
Le vittime, il trauma e la sua realtà interiore
Capitolo 4
Processi di identificazione in gruppo
Capitolo 5
La paura del nuovo millennio
Capitolo 6
L’annuncio del millennio del terrore
Capitolo 7
Vivere nella paura
Capitolo 8
Cosa fare, come prevenire secondo gli esperti del settore
«Appuntamento alle sei del mattino in punto; 10.30, organizzazione finale; 11.09, prendere le bombe; 11.12 inizio della strage; 11.16, ritorno. Hahaha».
Prefazione
Apparentemente sembra facile stabilire cosa è successo quella mattina alla Columbine High School.
A seconda di quale sia il vostro punto di vista, la realtà offre una bella scelta di risposte. Possiamo parlare di Marylin Manson come se fosse sua la colpa. Della Trench Coat Mafia
come se fosse l’origine della strage e non, come fa notare Mignacca, la fine di un cammino e, anzi, una forma di involontario, tentato contenimento del disagio, un meccanismo omeostatico
, appunto.
E allora? Emulazione, bullismo, ideologia nazista, disagio psichiatrico? Anche. E Poi? Depressione. C’è sempre la depressione: non si nega a nessuno, specie a chi compie un atto suicidario. Bastano le categorie? È da questo punto interrogativo che inizia la ricerca di Fabrizio Mignacca. Ma poi trovare una spiegazione è compito della categoria, delle definizioni, o riguarda invece la persona che ci sta dietro, che ci sta dentro?
Ecco, questo libro ribalta i luoghi comuni come questi. Dopo una puntuale ricostruzione degli avvenimenti di quel giorno, l’autore passa a disegnare le figure di Klebold e Harris, da cui già capiamo che tipo di difficoltà, di quadro psicologico, di personalità potessero aver sviluppato i due assassini. Ma è solo l’inizio del cammino, questo.
Perché Mignacca vuole dimostrarci qualcosa che non vogliamo sentirci dire, e cioè che la spiegazione di un fatto che è criminale e psicologico insieme – come tutti i fatti di cui ci occupiamo per lavoro – richiede soprattutto equilibrio e non stereotipi, che le cose non sono così semplici come sembrano, che il giudizio richiede tante informazioni e connessioni, che sono molteplici i livelli da intrecciare per iniziare a capire – soltanto a capire – cosa può essere successo nelle loro menti, quel giorno ma soprattutto nei mesi precedenti. Mesi in cui nessuno li prende sul serio, neanche quando fanno video inquietanti sulla produzione di tubi esplosivi: affogati nel mare del web, Klebold e Harris sono solo due deliranti come altri. Non c’è tempo per occuparsene. Quello che gira intorno a loro è tutto così veloce.
Cosa c’è dopo? Esiste una risposta finale, definitiva, che confini la responsabilità in un qualche quadro conosciuto?
C’è che dobbiamo rassegnarci all’ignoto, a ciò che non conosciamo. In questo mondo tecnologizzato, in cui tutto deve avere una spiegazione chiara, digitale, razionale, resta il fatto che i fatti della vita non ce l’hanno. È il mistero, signori. Non avremo mai una spiegazione per tutto, anche se come esseri umani abbiamo disperatamente bisogno di averne sempre una pronta. Anche se abbiamo, per struttura mentale, il bisogno del controllo. Controllo su entità temporali che non esistono tangibilmente (il passato e il futuro); controllo sulle motivazioni delle azioni altrui e sulle nostre.
Quello che proprio non riusciamo ad accettare è che c’è un nucleo profondo dell’esistenza che non ce l’ha. Non ne abbiamo il controllo e ne ignoriamo le ragioni, le spinte, le pulsioni. È l’ultima matrioska, la più piccola, quella di fronte alla quale dovremmo ricordarci che non siamo affatto onnipotenti, ma che, nonostante tutti i libri e i professori, nonostante le sonde spaziali e i microscopi a scansione elettronica, nonostante i Nobel, per quanto riguarda la psiche umana, siamo solo e ancora degli apprendisti. Ancora e per sempre.
Il mistero di ciò che è successo a Columbine non si spiega con un titolo di giornale o vedendo uno dei video di quel giorno, che sembrano un film e invece sono la realtà. Quel mistero è qualcosa che viene da lontano, da molti anni prima, e che non è stato intuito, visto, affrontato. Non c’è categoria che sappia spiegarci fino in fondo cos’è successo. Dietro ogni spiegazione ce n’è un’altra, e un’altra, e un’altra; e dietro l’ultima il vuoto. Columbine è stata, in qualche modo, l’annuncio del nuovo millennio: in realtà, la ripetizione di una storia vecchia di secoli e di una lezione che forse non impareremo mai. La vita è mistero: e il primo, vero, mistero siamo proprio noi.
Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani
Introduzione
Forty Seconds
1999, l’annuncio dell’apocalisse.
Un’azione non è solo la totalità delle diverse parti che la compongono.
Puoi smembrare ogni centimetro di spazio e ogni secondo di tempo, ma non avrai mai il quadro completo. La vita e le azioni umane non sono lineari, ma formano una tela, la cornice, il colore della cornice, la parete su cui è attaccata e ogni singolo spettatore, l’ombra della luce e l’oscurità della sala e poi qualcosa di inspiegabile. Perché a un certo punto le cose accadono.
Per raccontare i fatti del 1999 alla Columbine High scomporremo tutti i pezzi, proveremo a toccare tutto ciò che c’è, ma è chiaro che non avremo mai davanti quello che è.
C’è un momento esatto in cui avvengono le cose. Uno spartiacque tra ciò che c’è e ciò che sarà. In quel framezzo solo un clima irreale, un film, una sorta di fantasia in cui l’irreale diventa reale e la verità spacca in due la vita delle persone. In psicologia spesso ci riferiamo a quel momento come un Insight, l’intuizione che fa svoltare, l’attimo in cui si pone un punto e tutto ha un senso.
In alcuni casi è un’azione psicologica, una rivelazione di un disegno che era intorno a noi e che andava solo intuito; in altri casi invece è una rivelazione violenta, creata da eventi o persone che non conosciamo, lontane, periferiche alla nostra vita, utili comparse che ci girano intorno e si perdono nel vuoto della nostra esistenza. Poi un giorno ritornano, si fanno presenti nella loro inquietudine e tutto ha senso, drammatico, istantaneo, dividente.
Le immagini sbiadite prendono contorni certi, netti, e una sequenza di eventi segna il futuro. Non ci sono supereroi che salvano i buoni e castigano i cattivi, non c’è salvezza dopo la redenzione, non c’è peccato che possa giustificare il momento in cui due ragazzi decidono di fare una strage. È una triste sorta di ingiusta giustizia
che colpirà a caso. Non c’è una regola da seguire, c’è solo la normalità squassata e la anormalità che diventa costume del futuro.
L’assurdo è pensare ai 40 secondi che precedono il primo sparo, come in una sequenza di un film horror che si propaga all’infinito, una timeline che si allunga con lo strumento lente di ingrandimento
, un audio che rallenta proponendo suoni distorti che sono semplicemente il risultato di un mondo analogico ridotto al suono digitale di un Uno
ed uno Zero
. Zero e Uno: come nel computer, un’infinita sequenza standardizzata, usuale, ripetitiva, noiosa. Zero, uno, uno, zero, zero, uno, uno, uno, uno, zero, Due.
Quaranta secondi.
Solo 40 secondi di vita rimangono a Rachel Scott, che è seduta nel giardino antistante la scuola Columbine High, Home of the Rebels, la squadra di football. È lì con il suo amico Richard Castaldo. Parlano, come fanno milioni di adolescenti; sono seduti a poca distanza l’una dall’altro, si scambiano sorrisi, si scambiano confidenze, si scambiano parole. Tutto normale o forse straordinario, come quell’attività puramente umana del comunicare: una coesione pura e perfetta e come tale normale. Nessuno farebbe caso a loro.
Belli, a un passo dallo sbocciare definitivamente. Chi passa vicino a loro non nota quello che stanno facendo. È normale, è la vita, è ciò che accade, e per gli altri Scott e Castaldo sono due comparse sbiadite che si perdono tra due sospiri, tra una parola detta e il passo inesorabile di ciò che è realtà, di ciò che può esistere e che è prevedibile.
Esistono regole non scritte, condivise, implicite, che permettono alle persone di vivere. È un ecosistema sociale, una sfera entro la quale ci si muove e che perde la sua eterogeneità con la consuetudine, con l’abitudine.
Quaranta secondi.
È frequente l’assurdo. È frequente l’inconsueto, ma improbabile. Circa duemilacinquecento persone stanno lavorando, visitando e ammirando il World Trade Center la mattina dell’11 Settembre 2001, alle ore 8:45:50. Quaranta secondi prima del primo schianto. Quaranta secondi prima l’inconsueto è improbabile.
Quanti 40 secondi ci sono nella vita? Quante righe avete letto in 40 secondi? Quanti ne servono per rendersi conto che le cose non saranno più le stesse?
Quaranta secondi dopo restano carte e lacrime, le recriminazioni e la caccia ai colpevoli, ma quaranta secondi prima: rispondere a una chiamata, un libro che cade, il suono di un’auto che evitiamo per un soffio, tutta una strana casualità che si sincronizza in quaranta secondi. È il tempo della nostalgia e dei sensi di colpa: quaranta secondi prima.
Columbine High School, Home of the Rebels. In un luogo preciso del globo che si trova seguendo le coordinate 39°36’12 N; 105°04’29
W. Tarda mattinata. Esterno. Sole. 40 secondi prima. 11:18, Richard vede due figure umane in trench nero che si avvicinano. Sente che scarrellano delle armi. È improbabile. È assolutamente improbabile. 30 secondi. I due percorrono il tratto che separa il parcheggio dalla scuola, puntano all’entrata della mensa. 20 secondi. Un attimo ancora per Richard, che mette a fuoco. È ancora tutto molto improbabile. È improbabile. 10 secondi. Richard li vede, le armi in pugno. 10 secondi.
Immaginatevi i sorrisi, le parole e i gesti. Immaginatevi il momento in cui si viene al mondo. Immaginatevi un padre e una madre. Immaginatevi un vagito. Il primo passo. La prima corsa. Il primo calcio a un pallone. La prima corda su cui saltare. Immaginatevi crescere. Immaginatevi il primo giorno di scuola, i primi rossori delle gote, i primi pianti d’amore e i litigi familiari.
Immaginatevi anche i lutti delle persone care, i matrimoni e i funerali. Immaginatevi una ragazza che era questa, e un ragazzo che era questo. Immaginateli a 5 secondi da un proiettile. Ora immaginate la traiettoria del proiettile, il botto che lo precede, la polvere da sparo che si sparge, il rinculo dell’arma, gli occhi di Richard Castaldo e di Rachel Scott che è di spalle, ma che a 5 secondi vede qualcosa. Immaginatevi che finisca qui.
Che finisca quando il massacro della Columbine High è appena iniziato.
Capitolo 1
La ricostruzione della strage
La Columbine High School è una scuola costruita seguendo una serie di criteri standard per rendere facile l’accesso a studenti e docenti. È un enorme complesso ampiamente visibile e riconoscibile, costeggiato da una delle vie principali della cittadina, ed è definito da un’enorme serie di parallelepipedi di cemento e ferro che si accostano l’uno all’altro e