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I delitti della Sardegna
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E-book441 pagine5 ore

I delitti della Sardegna

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Congiure di palazzo, spietati banditi, faide e omicidi: storie criminali dell’isola dal Medioevo a oggi

Tutti, almeno una volta nella vita, hanno sentito parlare dell’Anonima sequestri, organizzazione criminale le cui gesta, spesso, sono finite in tragedia, con l’uccisione di ostaggi innocenti. Ma la storia della Sardegna è densa di episodi sanguinari, più o meno noti, che vanno oltre il fenomeno endemico dei rapimenti. Questo libro traccia in 100 tappe una mappa dei principali delitti commessi sull’isola: quelli maturati negli ambienti di corte, tra intrighi di palazzo e lotte fratricide; quelli dettati da ragioni d’onore, dando vita a vere proprie faide decennali; o ancora, quelli consumati durante il fascismo, spesso mescolando politica e regolamenti di conti personali, o nel mondo della malavita, a opera di personaggi come il Muto di Gallura, Samuele Stochino, Graziano Mesina. Infine, i casi della cronaca più recente, dal giallo di Borore all’omicidio di Dina Dore, passando per la morte della figlia di Matteo Boe e numerosi altri episodi che hanno riempito le pagine dei quotidiani nazionali.

Il lato oscuro dell’isola ha il colore della cronaca nera

Tra i casi contenuti nel libro:

• Con un piede nell’Inferno. Morte del barattiere Michele Zanche
• Accordo con l’assassino. La spia di Brancaleone Doria nel castello di Longone
• Breve vita al viceré. Intrighi e vendette nella Cagliari spagnola
• Il prete killer. Indulto per un sacerdote assassino
• Il bandito trasformista. L’omicidio in maschera di Antonio “Ammazzacavalli”
• Genesi e morte di un sicario. La misteriosa fine del diavolo muto di Gallura
• Il mostro di Arbus. Assassino per vendetta e sicario a pagamento
Gianmichele Lisai
Nato a Ozieri, in provincia di Sassari, nel 1981. Editor e autore, ha collaborato con varie case editrici, scritto per antologie e riviste e curato, con Gianluca Morozzi, la raccolta di racconti Suicidi falliti per motivi ridicoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato, 101 misteri della Sardegna (che non saranno mai risolti), Sardegna giallo e nera, Sardegna esoterica e I delitti della Sardegna. Inoltre è autore de La bella decapitata nel bosco, il primo caso del commissario sardo Matteo Calìa, contenuto nella raccolta Giallo Natale, uscita sempre per i tipi di Newton Compton nel 2013.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2015
ISBN9788854183902
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    Anteprima del libro

    I delitti della Sardegna - Gianmichele Lisai

    Introduzione

    Il delitto che apre questa antologia del crimine ambientata in Sardegna risale ai primi del Duecento, quando nell’abbazia di Santa Maria di Tergu furono trucidati, da sicari ignoti, alcuni monaci benedettini. Del massacro, oltre i dati storici, non si conoscono molti dettagli, e andando indietro nel tempo, le fonti risultano sempre più scarse e inattendibili: per tale ragione ho scelto di tralasciare episodi occorsi in epoche precedenti all’ultimo secolo del Medioevo centrale.

    Sebbene esistano documenti su sparute vicende del periodo cartaginese e romano, inserirle avrebbe compromesso, con un salto millenario, la continuità cronologica che ho cercato di dare al testo. È opportuno però citare in questa introduzione qualche episodio di indubbia rilevanza.

    Nel 259 a.C., durante la prima guerra punica, i Romani riportarono una schiacciante vittoria navale lungo le coste meridionali dell’isola, contro la flotta dell’ammiraglio Annibale (omonimo del più celebre Annibale Barca, che trionfò sui Romani nella battaglia di Canne) il quale, ritenuto dai suoi uomini il principale responsabile della disfatta, venne condannato a morte e crocifisso a Sulki¹.

    Stessa sorte toccò ad Annone, giustiziato una ventina d’anni dopo dai mercenari che esigevano invano le dovute provvigioni. Quei mercenari, in rivolta da mesi, avevano già assassinato un altro generale cartaginese al comando della regione.

    Fuori dal contesto militare, il delitto locale più famoso e interessante di tutta l’antichità si consumò nel 55 a.C., quando l’isola era ormai saldamente sotto il dominio romano.

    Marco Emilio Scauro, appena nominato governatore della provincia di Sardinia et Corsica, si distinse come indegno malversatore, provocando la reazione dei nativi, che lo denunciarono per concussione. Al deprecabile reato pubblico, inoltre, si sommavano due gravissimi crimini di natura privata: gli abusi del pretore ai danni della moglie di un certo Arine, suicidatasi perché preferiva la morte al disonore, e l’omicidio di Bostare, facoltoso cittadino di Nora, avvelenato durante un banchetto.

    Il processo contro Scauro si tenne a Roma nel 54 a.C., con il giovane oratore Publio Valerio Triario a rappresentare l’accusa e ben sei difensori di altissimo livello, tra cui l’illustre Marco Tullio Cicerone.

    Con la celebre orazione Pro M. Scauro, che screditava i sardi «mastrucati latrunculi» e insinuava sospetti sui parenti delle vittime, Cicerone ottenne l’assoluzione del suo assistito, nonostante fosse colpevole.

    Dopo questo episodio, esclusi i presunti martìri cristiani dell’isola e le stragi commesse dai pirati lungo le coste sarde, non si rilevano altri delitti degni di nota – o supportati da adeguata documentazione – avvenuti prima del xiii secolo.

    Il libro parte perciò dal periodo giudicale², quando la Sardegna era ancora divisa nei regni autonomi di Gallura, Torres, Arborea e Cagliari, tra intrighi di corte, congiure e rivolte sanguinarie.

    Fenomeni analoghi, sfociati in barbare uccisioni, li ritroviamo anche nei secoli a venire – sotto i domini aragonese e sabaudo – insieme ovviamente ai numerosi casi di delinquenza comune e resistenza ai nuovi poteri costituiti.

    A partire dal Settecento aumentano invece le grassazioni, gli episodi di brigantaggio e le faide familiari, ma l’epoca d’oro dei banditi è l’Ottocento. E il 1899 chiude idealmente la prima parte del volume: è l’anno del conflitto di Morgogliai, la più grande operazione di polizia della storia criminale sarda, nel corso della quale furono arrestate quasi settecento persone tra latitanti e fiancheggiatori.

    Nel Novecento – fra omicidi politico-militari di matrice fascista, rapine stradali sfociate nel sangue e vendette personali – cresce una nuova generazione di fuorilegge, quella che si specializza nei sequestri di persona a scopo di estorsione, finiti spesso in tragedia con l’eliminazione dell’ostaggio.

    Passati gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del secolo scorso, quelli delle primule rosse dell’Anonima, delle vittime di terrorismo e dei morti ammazzati in carcere, si giunge infine alle vicende della cronaca nera contemporanea. Al di là dei delitti che possiamo inquadrare storicamente e sociologicamente, questo libro è ricco di casi³, risolti e irrisolti, indipendenti dal contesto: esecuzioni commesse da killer a pagamento, uccisioni casuali di obiettivi sbagliati, errori giudiziari, infanticidi, femminicidi, uxoricidi, eccidi, omicidi di ogni genere e altre atrocità, spesso così inspiegabili da non potersi archiviare neanche nel comodo schedario dell’umana follia.

    46

    Frontespizio del libro di Alfredo Niceforo La delinquenza in Sardegna.

    1 Antica città nell’odierna isola di Sant’Antioco.

    2 Così definito perché i regni della Sardegna erano detti giudicati e i sovrani erano chiamati giudici.

    3 Molti altri casi, purtroppo, per vicinanza tematica o temporale con quelli trattati, sono stati esclusi, prediligendo delitti della stessa tipologia che mi sono parsi più rilevanti per peculiarità, efferatezza, notorietà delle persone coinvolte, ecc.

    1. Il sacrilegio di Tergu

    Strage di prelati nell’abbazia di Nostra Signora di Gerico

    La vicenda che segue potrebbe ispirare la trama di un thriller storico, tra lotte intestine della Chiesa, cacciatori di reliquie e monaci assassinati.

    L’epoca sarebbe il xiii secolo, il teatro dell’orrore un’abbazia: Nostra Signora di Gerico (detta anche Santa Maria di Tergu), al tempo l’eremo più importante e vasto dell’isola, proprietà dei benedettini cassinesi situata nella curatoria dell’Anglona – dominio del giudicato di Torres (o regno del Logudoro).

    Secondo quanto emerge dalle fonti storiche, fin dal xii secolo questa struttura fu al centro di contrasti e dissapori tra esponenti del clero locale e oscure figure di quello diocesano. I primi erano supportati dai regnanti sardi, che negli anni avevano concesso ai monaci molteplici e cospicui benefici. I secondi godevano dell’appoggio delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, il cui potere sull’isola si stava consolidando a scapito dell’autonomia giudicale.

    In questo clima di tensione, nel 1202, tra le mura del convento furono trucidati l’abate di Tergu, che rivendicava l’esclusivo possesso delle proprietà, e altri prelati benedettini, in un numero a noi sconosciuto. La strage – per quanto ci è dato sapere, rimasta impunita poiché opera di ignoti – potrebbe quindi essere dipesa da becere questioni di potere, ma in merito sono state avanzate anche ipotesi decisamente più suggestive.

    Che l’abbazia di Nostra Signora di Gerico contenesse beni di grande valore non vi sono dubbi: ciò è emerso anche dai recenti cantieri archeologici, e proprio in concomitanza di questi scavi la stampa ha ricordato una leggenda diffusa a Tergu e in altri paesi dell’Anglona, dove si menziona la presenza di un immenso tesoro. Non solo, è stato avanzato anche il sospetto che proprio la ricerca di tale tesoro sarebbe stata alla base di un intervento della Soprintendenza⁴: nel 1986, con il presunto pretesto di rimuovere per motivi sanitari un cimitero di fine Ottocento, le ruspe di Stato avrebbero scandagliato il terreno, distruggendo tra l’altro una parte del complesso, già al tempo ridotto a ruderi sparsi.

    Sebbene vox populi, contrariamente alle proverbiali suggestioni, non sia affatto vox Dei, la tradizione orale preserva sedimenti di verità più spesso di quanto crediamo. Perfino un prete, nell’Ottocento, scrisse una lettera in cui si faceva esplicito riferimento all’esistenza, in questo luogo, di un ricco bottino in monete d’oro.

    Da qui al sostenere, come qualcuno ha fatto, che a Tergu fosse nascosto addirittura il Santo Graal, c’è il rischio di perdersi in una selva di fantasie e congetture, ma non si può neanche escludere a priori che l’abbazia custodisse altre reliquie inestimabili, il cui possesso potrebbe aver istigato alcuni criminali senza scrupoli a compiere il delitto.

    Si stima che intorno a Nostra Signora di Gerico orbitassero altri dieci-quindici fortini religiosi, a formare forse un sistema di controllo del territorio.

    In quel periodo, infatti, era diffuso in tutta Europa il furto di resti sacri e le chiese della Sardegna, tra cercatori di tesori e incursioni di pirati, erano particolarmente esposte al rischio di saccheggio.

    L’elevata incidenza di simili scorribande sarebbe stata addirittura determinante per lo sbarco dei templari sull’isola, giunti nel xii secolo su richiesta del papa o, più probabilmente, per intercessione del giudice di Torres Gonario ii, che aveva aderito alla seconda crociata e conosciuto Bernardo di Chiaravalle, considerato l’ispiratore della Regola dell’ordine dei monaci-guerrieri. Chi scrive riporta tali speculazioni affidandole al giudizio soggettivo del lettore, perché nessuno nel caso specifico può vantare certezze. Di fatto, però, il mistero sul movente della strage di Santa Maria di Tergu resiste da secoli e sembra destinato a restare irrisolto.

    Non riuscì a fare chiarezza nemmeno Biagio, l’arcivescovo di Torres fresco di nomina, uomo di fiducia di Innocenzo iii inviato in Sardegna proprio per dirimere gli spinosi conflitti clericali e arginare le prepotenze degli alti prelati pisani. Fu proprio lui a notificare al pontefice il repentino degrado della situazione. Nel 1203, in rapida successione rispetto al cruento episodio dell’abbazia, si consumarono infatti gli omicidi del vescovo di Ploaghe e del vicario camaldolese. La risposta del papa fu immediata: inviò una lettera ai maggiori esponenti della Chiesa sull’isola, ordinando loro di scomunicare senza indugi, seppure in contumacia, i peccatori che avevano seminato morte tra gli uomini di fede.

    1

    La chiesa di Santa Maria di Tergu, un tempo parte del monastero benedettino in cui avvenne la strage di prelati. Illustrazione tratta da F. Floris, La grande enciclopedia della Sardegna, Newton Compton editori, Roma 2002.

    4 Vincenzo Garofalo, L’isola nascosta nel monastero di Tergu, in «L’Unione sarda», 22 giugno 2006, p. 63.

    2. Il piccolo giudice

    Morire da re senza aver vissuto da principe

    Nel 1232, quando succedette al trono, Barisone iii era solo un bambino di dieci anni. Suo padre, Mariano ii di Torres, gli aveva lasciato in eredità poca gloria e molti problemi, primo fra tutti l’alleanza con i genovesi, non gradita da una parte della nobiltà sassarese che sosteneva i pisani.

    Già in passato i rancori tra le due fazioni erano stati causa di accesi contrasti, ma mai si era arrivato a lavarli con il sangue.

    Nel 1219 Mariano, pur confermando la sua fedeltà a Genova, aveva autorizzato le nozze tra sua figlia Adelasia e Ubaldo Visconti, signore di Pisa e principe del regno di Gallura, proprio per placare gli animi e scongiurare il degenerarsi della situazione. Ma con l’insediamento di Barisone, venuta meno l’autorità del padre che era stato capace di tenere sotto controllo la situazione, il clima si esasperò. L’aristocrazia filogenovese, infatti, spinse per affidare l’amministrazione del regno a un reggente in funzione anti-Visconti poiché il nuovo giudice, in quanto minorenne, non poteva governare direttamente. L’incombenza cadde allora su Orzocco de Serra, il cui primo atto fu rinnovare il patto con Genova. A quel punto i conflitti striscianti si fecero aperti e il giudicato precipitò nel caos più totale.

    Barisone iii, costretto nelle sue stanze del castello di Burgos, si trovò suo malgrado al centro di una contestazione che rischiava di trasformarsi in rivolta, in particolare a Sassari, dove i maggiori esponenti dell’aristocrazia pensarono di approfittare della situazione per provare a prendersi la città.

    Orzocco, nel tentativo di prevenire la sommossa, non esitò a mandare in esilio personaggi di grande influenza, specialmente quelli che si stavano adoperando per infiammare gli animi. La sua controffensiva non tenne neanche conto delle appartenenze politiche: tra gli uomini allontanati dall’isola ci fu, per esempio, il funzionario Michele Zanche, parente acquisito dei genovesi Doria. Ma questa misura drastica, più che arginare il problema, amplificò i malumori. Gli espulsi organizzarono la ribellione, che da Sassari si estese a tutto il regno, e neanche l’intervento diplomatico di Genova fu sufficiente per placarla.

    Orzocco, sempre più isolato, con le sue decisioni scellerate aveva reso l’innocente Barisone il principale obiettivo di una congiura, che si consumò a Sorso, nel 1236, con la barbara uccisione del re bambino e dello stesso tutore.

    Il crimine, per la sua efferatezza, scosse numerose coscienze, tra cui quella di papa Gregorio ix, che incaricò l’arcivescovo di Pisa di trovare i colpevoli e fare presto giustizia, nonostante l’ordinamento del regno legittimasse il tirannicidio sopraggiunto per fondata causa – nello specifico fornita dalla condotta di Orzocco de Serra. L’interesse del santo padre, tuttavia, non fu sufficiente per fare chiarezza sul delitto. È probabile che i congiurati fossero esponenti filogenovesi, tra i quali proprio Michele Zanche e alcuni membri della stessa famiglia Doria.

    Secondo fonti diverse, invece, la vicenda sarebbe ancora più torbida e, ad armare la mano del sicario, sarebbe stato il pisano Ubaldo Visconti di Gallura. Con la morte del cognato, infatti, sua moglie Adelasia era divenuta reggente per espressa volontà di Mariano ii, e Ubaldo aveva così esteso i suoi possedimenti e consolidato il potere della sua famiglia nel Nord della Sardegna.

    2

    Un ritratto della principessa Adelasia che dopo l’uccisione di suo fratello Barisone III divenne giudicessa di Torres.

    3. Con un piede nell’Inferno

    Morte del barattiere Michele Zanche

    Nel raccontare questo delitto ci avvarremo del contributo di un cronista d’eccezione: Dante Alighieri. Alcuni studiosi sostengono che il poeta abbia visitato la Sardegna nel periodo in cui vi risiedeva il suo amico Nino Visconti, giudice di Gallura dal 1271 al 1298, ma non ci sono evidenze documentali a conferma dell’ipotesi, per quanto verosimile. Sappiamo tuttavia con certezza che Dante non era completamente digiuno di questioni isolane, poiché nella sua opera fa esplicito riferimento a tre personaggi rilevanti per la politica locale del xiii secolo.

    Il primo in ordine di apparizione è frate Comita⁵, che «barattier fu non picciol, ma sovrano»⁶.

    Nonostante la sua fama di frodatore, il religioso era riuscito a conquistare la fiducia di Nino Visconti, divenendo un alto funzionario del giudicato di Gallura⁷ durante il dominio pisano (1207-1296).

    Le sue malversazioni furono tollerate fino a quando, corrotto da alcuni nemici del padrone, fece evadere dei prigionieri politici coprendone la fuga⁸; Nino Visconti scoprì il tradimento e lo mandò a morte per impiccagione. Gli storici non forniscono ulteriori elementi sull’esecuzione, ma in questa sede è un problema relativo, essendo un altro il crimine di nostro interesse. Comita infatti, negl’inferi letterari, sconta i suoi peccati in compagnia di un secondo sardo:

    Usa con esso donno Michel Zanche

    di Logodoro; e a dir di Sardigna

    le lingue lor non si sentono stanche.

    L’uomo che condivide con il frate nostalgici ricordi dell’isola è appunto Michele Zanche, politico sassarese di cui si è già accennato, dato il suo coinvolgimento nelle vicende che portarono al duplice omicidio di Barisone iii e Orzocco de Serra¹⁰.

    Individuo compromesso, implicato in giochi di potere, intrighi di palazzo e pubblico malaffare, viene anche lui collocato da Dante tra i barattieri e il suo nome compare nella Divina commedia una seconda volta, insieme a quello del terzo personaggio invischiato nelle questioni criminali della Sardegna:

    «[…] Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:

    elli è ser Branca d’Oria, e son più anni

    poscia passati ch’el fu sì racchiuso».

    «Io credo», diss’ io lui, «che tu m’inganni;

    chè Branca d’Oria non morì unquanche,

    e mangia e bee e dorme e veste panni».

    «Nel fosso su» diss’el «de’ Malebranche,

    là dove bolle la tenace pece,

    non era ancor giunto Michel Zanche,

    che questi lasciò il diavolo in sua vece

    nel corpo suo, ed un suo prossimano

    che ’l tradimento insieme con lui fece».¹¹

    La figura di Branca Doria è introdotta da frate Alberigo, suo compagno di pena nella Tolomea, sezione del nono cerchio dedicata ai traditori degli ospiti. Echi biblici rimandano chiaramente a Tolomeo di Gerico, che invitò a un pranzo sfarzoso Simone Maccabeo, di cui era genero, e lo uccise insieme a due eredi, con l’intenzione di prenderne il posto al governo della città.

    Branca Doria si comportò allo stesso modo e per analoghi motivi con suo suocero Michele Zanche, «donno di Logudoro», come ci ricorda Dante: lo attirò con l’inganno di un banchetto e lo fece ammazzare insieme alla scorta. La famiglia Doria, grazie anche a una serie di matrimoni d’interesse, vantava già numerosi possedimenti nel Nord della Sardegna e con la morte di Zanche puntava a estendere i suoi domini sull’isola.

    Un’altra ricostruzione del delitto, tuttavia, aggiunge un dettaglio cruento che metterebbe in discussione questo movente. Branca Doria avrebbe infierito sul cadavere della vittima riducendolo a brandelli, con una violenza tale che non può essere giustificata dai soli fini politici.

    Forse si trattò di una vendetta privata, figlia di insanabili dissidi interni alla famiglia. Nel passo della Divina commedia in cui si ricorda l’episodio, infatti, viene citato un complice anonimo, «prossimano», cioè parente dell’assassino: cugino, nipote o, unica ipotesi in cui compare un nome, il cognato Giacomo Spinola, anche lui genero di Zanche. Inoltre permangono dubbi pure sulla data dell’omicidio. Quella più accreditata è il 1275, ma alcuni studiosi propendono per il 1294¹².

    In ogni caso, nel 1300, anno di remissione dei peccati in cui Dante ambienta il suo viaggio all’Inferno, Branca Doria era ancora in vita.

    Il poeta si giustifica spiegandoci, per bocca di frate Alberigo, che nella Tolomea l’anima cade appena commesso il peccato, mentre il corpo, rimasto nel mondo terreno, viene occupato da un diavolo che lo amministra fino alla morte biologica. La tradizione popolare dell’epoca riporta che Branca Doria, dopo aver scoperto di essere stato inserito tra i dannati dell’opera, avrebbe fatto malmenare Dante da alcuni suoi scagnozzi genovesi. Ma la sua vera rivincita fu vivere più a lungo dello stesso Alighieri. Sarebbe morto, infatti, nel 1325, a oltre novant’anni, presumibilmente a Sassari, anche lui assassinato durante una congiura ordita dall’aristocrazia locale che sosteneva la Corona d’Aragona, già da un paio d’anni avviata alla conquista dell’isola.

    3

    L’isola di Tavolara, che secondo alcuni studiosi ispirò a Dante la descrizione della montagna del Purgatorio. Illustrazione tratta da F. Floris, op. cit.

    5 «Gomita», nella Divina commedia, ma qui, trattandosi di un libro sulla Sardegna, si è ritenuta più opportuna la forma con la c utilizzata al tempo sull’isola, piuttosto che la toscanizzazione dantesca operata sul nome originale. Il frate gallurese compare nell’Inferno, canto xxii, v bolgia del cerchio viii, tra i barattieri, ovvero i funzionari pubblici corrotti che si sono arricchiti sfruttando la loro posizione di potere.

    6 "Non fu un frodatore di poco conto, ma re (della malversazione, n.d.a.)", in Dante, Inferno, canto xxii, v. 87. Le parafrasi dei passi della Divina commedia citati in questo capitolo sono dell’autore.

    7 Secondo alcune fonti era il vicario di Nino Visconti.

    8 «[…] quel di Gallura (frate Comita, n.d.a.), vasel d’ogne froda, / ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, / e fè sì lor, che ciascun se ne loda. / Danar si tolse, e lasciolli di piano, […]». Ivi, vv. 82-85.

    9 "Con lui (frate Comita, n.d.a.) è solito intrattenersi il nobile logudorese Michele Zanche, e le loro lingue non si stancano mai di parlare della Sardegna". Ivi, vv. 88-90.

    10 Cfr. capitolo precedente.

    11 "«[…] Tu lo devi sapere, se sei appena arrivato: lui è Branca Doria, e sono passati molti anni da quando fu qui rinchiuso» (l’interlocutore di Dante è frate Alberigo, che il poeta condanna per aver fatto uccidere due suoi ospiti durante un banchetto, n.d.a.). «Io credo», gli dissi, «che tu mi stia ingannando, perché Branca Doria non è ancora morto e mangia, beve, dorme e indossa abiti». «Su, nella bolgia dei Malebranche (diavoli che sorvegliano i barattieri, n.d.a.)», disse lui, «laddove bolle la vischiosa pece, Michele Zanche non era ancora arrivato quando questi lasciò il suo corpo al diavolo, come anche un suo parente complice nel tradimento»", in Dante, Inferno, canto xxxiii, vv. 136-147.

    12 Tommaso Casini, Ricordi danteschi di Sardegna, in «Nuova Antologia», 15 luglio 1895, pp. 259-279. Già Benvenuto Rambaldi da Imola, nel xiv secolo, aveva proposto quest’ipotesi di data nel suo Comentum super Dantis Aldigherij Comœdiam (rist. a cura di Jacobus Philippus Lacaita, tip. Barbera, Firenze 1887).

    4. Buon sangue non mente

    I dannati conti della Gherardesca tra Pisa e la Sardegna

    Ugolino della Gherardesca, nell’immaginario collettivo di derivazione dantesca, è un simbolo di crudeltà. La sua fama scellerata deriva in gran parte dal noto passo letterario¹³ in cui azzanna il cranio dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, colpevole di averlo fatto rinchiudere nella torre della Muda, a Pisa, senza acqua né cibo, insieme ai figli Gaddo e Uguccione e ai nipoti Nino e Anselmo. Inoltre, una frase oscura¹⁴ insinua l’atroce sospetto che il conte, vinto dalla fame, avesse divorato i cadaveri dei suoi congiunti.

    Escluse le leggende sul presunto atto di cannibalismo, i cinque nobili pisani morirono in prigionia a causa del violento digiuno, tant’è che il luogo della loro detenzione fu ribattezzato torre della Fame. Ma per comprendere le ragioni di una condanna tanto disumana – ammesso che sia possibile – e come questa sia strettamente correlata alle questioni criminali dell’isola, occorre aprire una parentesi storica.

    Ugolino e la sua famiglia, illustri esponenti del partito ghibellino, erano signori di numerosi territori sia in Toscana che in Sardegna, dove nel xiii secolo possedevano Iglesias e il castello di Salvaterra, Siliqua e il castello di Acquafredda, Villamassargia e il castello di Gioiosa Guardia.

    Nel 1275, tradendo la propria fazione, appoggiarono i Guelfi nei dissidi pisani e guadagnarono l’ostilità di numerosi potenti locali, tra cui i Gualandi, i Lanfranchi e i Sismondi.

    Nonostante tali conflitti e un breve periodo in cui fu bandito dalla repubblica marinara, nel 1284 il conte divenne podestà di Pisa e due anni dopo fu nominato capitano del popolo, ma non fece nulla per stemperare il malumore diffuso. Anzi, nel 1288, violando l’espressa volontà della sua gente, rifiutò l’alleanza con Ruggieri, capo dei Ghibellini, e poco dopo ne uccise un parente per futili motivi. In quegli anni la città era afflitta da una terribile carestia e Anselmo della Gherardesca, sofferente per le misere condizioni della plebe, avrebbe suggerito al nonno di sospendere le imposte su alcuni generi alimentari e beni di prima necessità. Tuttavia Ugolino, furioso per l’ingerenza, si sarebbe scagliato col coltello contro suo nipote, ferendolo a un braccio, poi con una ronca avrebbe fracassato il cranio di un giovane familiare dell’arcivescovo, colpevole di aver difeso quella proposta.

    Mosso quindi da doppio rancore tra oltraggi pubblici e privati, Ruggieri, al comando dell’aristocrazia antagonista, guidò la rappresaglia ghibellina. Il conte e i suoi parenti furono così catturati, incarcerati nella torre di proprietà dei Gualandi e la chiave della prigione venne gettata nell’Arno.

    Lasciati senza viveri – in una sorta di contrappasso, affinché patissero la stessa fame inflitta al popolo dal loro malgoverno – morirono in un giorno imprecisato tra febbraio e aprile del 1289. Ma Guelfo e Lotto della Gherardesca, trovandosi in Sardegna mentre a Pisa i congiunti cadevano nelle mani dei nemici, sfuggirono a questa sorte crudele; e ovviamente gridavano vendetta, avendo perso in un modo tanto barbaro un genitore, due fratelli e due figli¹⁵. In particolare Guelfo – primogenito fedele alla linea politica del padre – si prodigò in feroci ritorsioni contro coloro che riteneva, in varia misura, responsabili della strage della sua famiglia. Alcuni di questi erano sardi, come Vanni Gambetta, uomo di riferimento dell’arcivescovo Ruggieri nell’isola e prima vittima di Guelfo.

    Dopo essere stato catturato, Gambetta fu prima torturato con le tenaglie roventi, poi legato per ogni arto a quattro cavalli aizzati con le fruste e, infine, lasciato morire dentro una gabbia appesa alle mura del castello di Acquafredda.

    4

    Il castello di Acquafredda,

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