Lo strano mestiere
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Claudio Di Loreto, racconta e si racconta, non omettendo le emozioni, i dubbi e le paure di quello strano mestiere che è la ricerca della verità.
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Anteprima del libro
Lo strano mestiere - Claudio Di Loreto
Rita
Prologo
Mi chiamo Claudio Di Loreto, ho cinquantanove anni, maresciallo maggiore aiutante, sostituto ufficiale di pubblica sicurezza a riposo per una sgradita – seppure provvidenziale – cardiopatia ischemica ereditata dal de cuius.
Vengo da un paese dell’Umbria, figlio di gente semplice che viveva di un unico stipendio statale. Ricordo bene il desiderio di avere mille lire. Anche per questo mi sono arruolato volontariamente come carabiniere ausiliario ed ebbi l’emozione del mio primo stipendio: 250 mila lire. Credevo che mi sarebbero bastate per tutta la vita.
Erano gli inizi del 1978. Dopo poche settimane nel cofano di una Renault rossa, parcheggiata a Roma in via Caetani, tra Piazza del Gesù e Via delle Botteghe oscure, si consumava il dramma umano di Aldo Moro e il processo allo Stato.
Ero fresco di ideali, mi piacevano i Pink Floyd, le ragazze e avere i capelli lunghi era, per me e per tanti ragazzi, un tangibile segno di rivoluzione e libertà.
La mia libertà – per dirla meglio – procedeva a singhiozzo e pendolava tra quella country di Jack Kerouac, in via di archiviazione e quella meno patinata, provocatoria e scandalistica di Jerry Rubin, descritta in un suo libro dal titolo: Do it!. Tuttavia, nell’equilibrio dei naturali controsensi oggettivi, non nascondevo le umane debolezze per il misero ghiacciolo all’amarena e il fantastico motorino da cross. Già il motorino, il famoso Fantic Motor Caballero, che era l’elemento necessario per rimorchiare le ragazze in quegli anni.
Il sogno dei grandi spazi immensi, di partire per... l’India, la Turchia o l’America si consumava su di un biglietto ferroviario di seconda classe per Chieti. La chiamata alle armi.
L’obbligo del servizio militare e la pena allora incombente a carico degli obiettori di coscienza mi convinsero ad entrare nei carabinieri, quantomeno meno peggio dell’esercito.
Dopo la scuola di formazione, sono stato destinato al Battaglione Lazio che si occupava di ordine pubblico. La piazza e il disordine pubblico, mi svelarono le prime contraddizioni sociali, mentre la rabbia cresceva senza un determinato movente e tutti erano nemici di tutti. Forse per fortuna o per rabbia, mi spedirono al Reparto Operativo, alla VI^ Sezione Antirapina e rilievi tecnici. Anni di omicidi, di sangue e coscienza.
Così tra i colleghi si stabiliva – come necessità di ordine pratico – un feeling particolare, un mutuo soccorso per attraversare, perfetti e indenni, la scena del crimine. Robotizzati, freddi, cinici secondo le norme.
Qualcuno diceva:
-Ma come fate!
Non lo so, in questo ci aiutavamo, anche se in realtà ci sentivamo noi stessi vittime e, per certi versi, lo eravamo davvero. Poveracci in una società impazzita. In questo bisogno c’era il socio che era il collega più vicino, quello con cui condividere il casino del quotidiano e provare a crescere. Ci capivamo al volo, sapevamo cosa e come fare senza nemmeno guardarci. Eravamo in sintonia, una squadra. Eravamo forti.
Eppure il filo era fragile, non sosteneva appieno e non ce ne siamo accorti in tempo.
Ieri il socio ha aspettato sua moglie fuori dalla scuola dove insegnava, le ha sparato un colpo in testa con la pistola d’ordinanza e poi si è suicidato rivolgendosi l’arma al petto. Tutto davanti a tanta gente, ai genitori, ai bambini, al vigile e a quello in doppia fila. Freddo, deciso come tante scene vissute e commentate insieme invece di andare a casa.
Spesso, la notte, guardavamo il risultato delle nostre indagini: foto di persone uccise fracassate, distrutte, annientate erano sparse sul tavolo, tra tazzine di caffè e pacchetti di Marlboro.
Luigi, il socio, di tanto in tanto soffiava delicatamente, con cura, su quelle immagini per spazzare via la cenere delle sigarette, quasi un atto di dignità verso quel sangue e diceva:
-Socio, attento: non far cadere il caffè sulle foto, mi rovini l’opera.
Le mie risposte erano del genere:
-Ma cosa vuoi rovinare... Non sono mica le foto di un matrimonio, sono il capolavoro della follia. Questo sangue, questi occhi... Il caffè non rovina... e per quello che mi riguarda, non vedo l’ora che spunti il giorno!
Gigi, davanti a quelle foto, sembrava non temere il sangue e la morte. Ma il colpo alla nuca... sì, quello lo infastidiva.
Il turbamento era evidente e si leggeva chiaro nel suo sguardo che si faceva sempre più insopportabile, come l’aria nella stanza, piena di fumo e nicotina.
-Il colpo alla testa scassa l’identità. Cancella tutto.
Diceva serio.
Ma erano le tre del mattino di un giorno qualsiasi, di una stagione uguale alle altre e non avrei mai immaginato l’epilogo di quel pensiero. Come potevo