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I 100 delitti di Roma
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E-book693 pagine9 ore

I 100 delitti di Roma

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Info su questo ebook

I casi e i delitti più efferati: la Città Eterna svela il suo lato più macabro e misterioso

La storia della capitale raccontata in 100 delitti, dalle origini ai giorni nostri, attraverso un torbido percorso di crimini efferati e gialli irrisolti che hanno reso Roma una delle città più misteriose d’Italia. Vicende raccontate in ordine cronologico, che accompagnano il lettore dalle cupe atmosfere del passato antico ai secoli di dominio pontificio, dall’Italia unita agli anni di piombo, fino ai casi noti e meno noti della cronaca contemporanea: i grandi omicidi politici dell’Urbe fin dalla sua cruenta fondazione, con il fratricidio di Remo da parte di Romolo; la caccia alle streghe nello Stato della Chiesa e i feroci briganti della campagna laziale; i casi eclatanti tra le due guerre (il macellaio Cesare Servitati, Gino Girolimoni, il mostro di Nerola); i delitti dell’Italia repubblicana e la lunga stagione delle stragi di Stato; la misteriosa sparizione delle giovani Emanuela Orlandi e Mirella Gregori; e ancora, i grandi gialli degli anni più recenti, come i casi di via Poma e di Marta Russo. Roma: una città che – accanto agli antichi splendori e al fasto dei monumenti – non nasconde mai il suo lato più oscuro, nero e maledetto.

Da Roma antica al caso Cucchi
Tutti i delitti della capitale del crimine

• I grandi delitti di Roma antica
• Maria Goretti
• Il macellaio Cesare Servitati
• I misteri del lago di Castel Gandolfo
• Annarella Bracci – Il delitto di Primavalle
• I delitti della Dolce Vita
• Il delitto Casati
• Pier Paolo Pasolini
• Il massacro del Circeo
• Il lupo dell’Agro romano
• Il Canaro della Magliana
• Il caso Marta Russo
• Stefano Cucchi
• Casi di femminicidio

E tanti altri delitti…
Flaminia Savelli
è nata a Roma nel 1980; laureata in Lettere moderne nel 2003, ha scritto come freelance per diversi giornali e riviste. Dal 2008 collabora stabilmente come giornalista di cronaca nera con «la Repubblica». Per la Newton Compton ha pubblicato Misteri, crimini e delitti irrisolti di Roma, Roma giallo e nera e I 100 delitti di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2014
ISBN9788854173743
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    Anteprima del libro

    I 100 delitti di Roma - Flaminia Savelli

    280

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento

    a fatti di cronaca e a varie inchieste

    giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso.

    Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo,

    anche se condannate nei primi gradi di giudizio,

    sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7374-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: Alessandro Tiburtini

    Foto: © Shutterstock

    Flaminia Savelli

    I 100 delitti di Roma

    I casi e i delitti più efferati: la città eterna svela il suo lato più macabro e misterioso

    A Peppe e Piero,

    Ovunque siano.

    Finché sorriderò, tu non sarai perduta

    ma queste son parole

    e non ho mai sentito

    che un cuore affranto si cura,

    l’unico e tutto il mio folle amore

    lo soffia il cielo

    lo soffia il cielo

    così.

    Che cosa sono le nuvole

    DOMENICO MODUGNO, PIER PAOLO PASOLINI

    Introduzione

    Crimini efferati e misteri accompagnano la storia della capitale dalla sua nascita fino ai nostri giorni: un filo rosso che ha tessuto nei secoli una trama oscura e complicata. Questo libro non è un semplice elenco dei 100 delitti che l’hanno resa tanto misteriosa quanto affascinante, ma è un vero e proprio excursus che s’intreccia con il carattere stesso dei romani. E dunque, dal primo delitto raccontato nella storia di Romolo e Remo, ai briganti che hanno segnato indelebilmente la storia criminale di Roma fino alla lotta alla stregoneria che ha spezzato la vita di donne innocenti.

    E ancora, i grandi casi del dopoguerra che hanno attirato l’attenzione di grandi scrittori come Carlo Emilio Gadda e i delitti della Dolce Vita. Una lunga scia criminale, dunque, che passa anche attraverso i rapimenti che hanno sconvolto l’intero Paese, quello di Paul Getty e della banda di Lallo lo zoppo, di Emanuela Orlandi, Mirella Gregori e Ketty Skerl. E poi ancora, lo scandalo Estermann al Vaticano, quello dei coniugi Casati-Stampa, il giallo sulla morte di Pier Paolo Pasolini, la nascita della famigerata Banda della Magliana, fino ad arrivare ai gialli e ai crimini dei nostri giorni.

    Restano le vittime di queste storie, e i moventi che anno dopo anno si ripetono: l’amore, la passione, i soldi, la rabbia.

    L’autrice non ha la pretesa di voler risolvere alcun mistero, ma la volontà di descrivere la città eterna, dal centro alla periferia, attraverso le storie che l’hanno resa misteriosa e inquietante.

    Così viene ridisegnata una città con tinte forti, immersa in una nebbia fitta che non lascia filtrare nulla.

    Le origini del male

    1. Romolo e Remo

    Così come narra la leggenda, Roma affonda le sue radici nella terra e nel male: una lunga scia di sangue la attraversa dalla sua nascita fino ai nostri giorni.

    Il primo delitto raccontato dalla storia è quello che vede coinvolti il fondatore Romolo e suo fratello Remo, figli del dio Marte e di Rea Silvia, a sua volta figlia del re di Alba Longa, Numitore. Gemelli, e dunque la loro primogenitura non può funzionare con criterio elettivo.

    Da qui una lite, una sfida per stabilire il primo re della città che segnerà la Storia e, allo stesso tempo, l’omicidio di Remo: «Possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura», grida Romolo letti gli auspici e aggiudicatosi la vittoria. Ma disegnato il solco sacro, Remo lo attraversa sancendo la propria fine. Romolo si impossessa così della città che sorgerà sul colle Palatino. Il 21 aprile del 753 a.C., Roma nasce sul sangue del fratello del nuovo re. Schiavi, fuggitivi, esiliati e criminali vengono invitati a seguirlo con la promessa del diritto d’asilo. Sono rapite le donne dei Sabini e date loro in spose. Si insediano quindi in cinque dei sette colli diventando il popolo romano, su cui Romolo regnerà per quaranta anni. Poi, secondo la leggenda, durante una violenta tempesta, sarà rapito in cielo mentre la città continuerà a crescere, a conquistare e a essere teatro dei più turpi delitti.

    2. Giulio Cesare

    Oderint, dum metuant.¹

    Mi odino, purché mi temano.

    Grande conquistatore, ma anche oratore e scrittore. Tra le sue opere si ricordano il De bello Gallico, Sulla guerra in Gallia, e il De bello civili, Sulla guerra civile, commentari dettagliati e precisi che raccontano una delle epoche più significative della storia romana. Ma soprattutto, è decisivo nel passaggio dalla repubblica all’impero, tanto da essere ritenuto il primo imperatore di Roma: così Giulio Cesare, nato il 13 luglio 101 a.C. o il 12 luglio 100 a.C., scrive la storia della capitale. La sua è un’ascesa repentina, iniziata con il primo triumvirato siglato con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, passata attraverso la sua elezione a dictator nel 47 a.C. e finita nel sangue, con la congiura in cui viene barbaramente ammazzato. In mezzo, campagne militari e guerre che allargano i confini dell’impero. A segnare la sua condanna, la morte di Crasso: da una parte Pompeo rivendica la sua posizione, dall’altra Giulio Cesare non fa che accentrare il potere su di sé fino alla guerra civile che lo incorona imperatore, scatenando le reazioni dei conservatori che vogliono ancora la repubblica. Il clima si fa sempre più teso, fino a quando Marco Giunio Bruto, Gaio Cassio Longino e Decimo Giunio Bruto Albino si mettono a capo di un gruppo di senatori.

    Le Idi di marzo

    La tradizione racconta che la morte del grande Giulio Cesare è preceduta da diversi presagi: un uccello regale viene attaccato da altri esemplari dentro la curia, i cavalli cominciano a piangere e Calpurnia, moglie del condottiero, fa un sogno premonitore in cui stringe tra le braccia il cadavere del marito. Ancora, poco prima del delitto viene trovata una lapide tombale con la scritta: Quando verranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo verrà assassinato per mano dei suoi consanguinei, e subito sarà vendicato con grandi stragi e lutti per l’Italia. Lo stesso Cesare non riesce a portare a termine un sacrificio. Infine, il 15 marzo del 44 a.C., mentre si sta recando in senato, Spurinna, un indovino, lo avvicina e lo avvisa di fare attenzione alle Idi di marzo. Cesare risponde che le Idi sono già arrivate, e Spurinna gli fa notare che non sono comunque ancora terminate. Ma è troppo tardi: la cospirazione è stata organizzata e la mano dei congiurati armata. Entrando nel senato, il grande condottiero trova il suo posto occupato dai cospiratori. Publio Servilio Casca Longo è il primo a pugnalarlo, seguito dagli altri cospiratori. Cesare muore dissanguato dopo ventitré coltellate.

    Così termina, nel sangue, la vita di uno dei personaggi più rappresentativi e importanti della Roma antica.

    3. La strage dei Gracchi

    Roma ha già conquistato la Spagna, l’Africa, la Grecia e l’Asia e il sangue continua a scorrere non solo per le dure battaglie e le faticose guerre che gli eserciti affrontano. I latini e gli italici chiedono il diritto di cittadinanza, i senatori non cedono. Siamo nel

    II

    secolo a.C. e i fratelli Gracchi affrontano il loro triste destino. Sono figli di Cornelia e di Tiberio Sempronio Gracco, nipoti di Scipione l’Africano che a Zama ha sconfitto il grande Annibale. Tiberio, il maggiore, e Gaio sono due degli appena tre sopravvissuti, insieme alla sorella Sempronia, di ben dodici fratelli. La giovane viene data in sposa a Scipione l’Emiliano, i maschi, ricevuta un’istruzione greca, si dedicano alla vita politica. Tiberio dopo aver combattuto la guerra in Africa, nel 133 a.C. viene eletto tribuno, mentre a Roma la questione più scottante riguarda il terreno demaniale, ager publicus, spartito tra i nobili e lavorato dagli schiavi. Tiberio vuole cambiare questa divisione proponendo una legge agraria che stravolge però l’assetto e che prevede, tra le diverse proposte, limiti di occupazione e la distribuzione di terre ai cittadini più poveri. La proposta scatena subito l’ira dei nobili. Tuttavia dopo numerose resistenze entra comunque in vigore. Suggerisce poi di finanziare la nuova legge agraria con i proventi del regno di Pergamo che, alla sua morte, re Attalo

    III

    aveva lasciato in eredità proprio a Roma. Ma nella tradizione romana del tempo, la politica estera è competenza del senato e l’azione di Tiberio non fa che attirare sempre più nemici, anche tra i senatori che in passato lo hanno sostenuto. Ormai, è visto come un tiranno, un sobillatore, un perturbatore dell’ordine pubblico, un nemico della repubblica. Questo pensiero cresce tanto che alcuni nobili, guidati dal pontefice massimo Scipione Nasica (cugino dei Gracchi), decidono di ricorrere alla violenza. Alla scadenza del mandato di tribuno Tiberio si è ricandidato e il giorno delle elezioni è in Campidoglio per una riunione dei suoi seguaci. Si porta una mano alla testa: un gesto simbolico, con cui intende dire ai presenti che la sua vita è in pericolo, ma che viene interpretato – segnando la sua condanna a morte – come una richiesta di ricevere la corona. Scipione Nasica, protetto dalla sua carica religiosa, dà ordine di ucciderlo. Tiberio, appena ventinovenne, viene così accoltellato nel tempio di Giove Capitolino e il suo cadavere gettato nel Tevere. Le fondamenta di Roma sono, ancora una volta, intrise di sangue. La legge agraria, non senza difficoltà, sopravvive al suo promotore. Ma la strage dei Gracchi non è ancora terminata: nel 123 a.C. diventa tribuno pure Gaio che riprende, per certi versi, la politica del fratello. Presenta subito la legge frumentaria che prevede la distribuzione di grano a prezzi ridotti per i ceti meno abbienti. Il popolo è dalla parte di Gaio e la sua carriera politica non si arresta. Propone una riforma giudiziaria, in cui si prospetta che il controllo dei tribunali sia ripartito tra senatori e cavalieri, e una legge per l’assegnazione della cittadinanza romana a coloro che godono del diritto latino, nonché di quella latina agli italici.

    02_cesare.tif

    La morte di Giulio Cesare in un’incisione di B. Pinelli.

    Nel giugno del 122 a.C. Gaio, che ha da poco compiuto trentatré anni, si dirige verso Iunionia Carthago per istituire la nuova colonia. Con lui ci sono seimila famiglie provenienti da tutta Italia. Ma proprio quell’estate, non viene rieletto e conserva solo il titolo di membro della commissione agraria e della commissione per Cartagine. L’anno seguente, non potendo agire nell’ambito politico, organizza una guardia armata personale mentre il senato sopprime la colonia di Cartagine: la sua vita è ormai appesa a un filo, non ha più scampo né alcun potere. Ad aprile viene assediato sull’Aventino e tenta la fuga per il ponte Sublicio. Raggiunto il bosco sacro della ninfa Furrina, alle pendici del Gianicolo, ordina a un suo schiavo di ucciderlo. La strage dei Gracchi è stata compiuta e le loro leggi abolite.

    4. Caligola

    Gaio Giulio Cesare Germanico, della dinastia giulio-claudia, terzo imperatore di Roma dal 37 al 41 d.C., detto Caligola, cioè piccola caliga (i calzari indossati dagli adolescenti nell’antica Roma). Eletto monarca ad appena venticinque anni, spende l’enorme tesoro accumulato da Tiberio, suo predecessore, in feste, giochi e banchetti per il popolo. Di lui le fonti hanno disegnato il ritratto di un uomo eccentrico, depravato e despota.

    Eccentrico, perché le cronache narrano che beva perle sciolte in aceto e che mangi cibi ricoperti d’oro. Qualcuno giura di averlo visto discutere con la statua di Giove Capitolino, e che nella lunga diatriba lo abbia accusato di mancanza di rispetto. Secondo la leggenda poi nomina senatore un cavallo, per mostrare il suo disprezzo al senato.

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    L’imperatore Caligola, incisione su rame del 1882.

    Depravato, perché non ha alcun rispetto neppure delle sorelle Giulia, Agrippina e Drusilla con cui commette incesti pubblicamente. In particolare con quest’ultima, tanto che, alla sua morte, ordina il lutto cittadino. Ma approfitta anche delle mogli dei senatori: più volte le prende la prima notte di nozze per poi ripudiarle.

    Despota, tanto che costringe molti dei componenti del senato a correre con la toga nei circhi. Altri vengono uccisi in segreto, uno addirittura viene dilaniato e le sue membra gettate tra la folla. Ancora, durante i banchetti vuole assistere alla decapitazione di un prigioniero. È sempre in preda alla collera, soprattutto nei mesi che precedono la sua morte.

    La congiura

    Un uomo tanto pazzo e crudele non poteva che attirare l’odio di tutti. Tre congiure vengono organizzate per ucciderlo. Ma solo l’ultima riesce, quella capeggiata dal tribuno Cassio Cherea insieme ai pretori Cornelio Sabino e Papiniano, con l’appoggio dell’esercito.

    Il 24 gennaio del 41 d.C., in occasione delle feste augustali, Caligola sta attraversando un corridoio per andare ad assistere a uno spettacolo quando Cassio Cherea gli si avvicina. La scusa è la parola d’ordine per attraversare la porta, l’imperatore risponde invece con una parola di scherno segnando la sua condanna a morte: il tribuno estrae la spada e lo colpisce alla testa, mentre Cornelio Sabino lo pugnala al petto.

    Caligola cade a terra ma non ancora morto, e gli altri cospiratori lo finiscono con trenta pugnalate. Nella congiura vengono assassinate senza pietà anche la moglie Cesonia e la figlia Drusilla. La prima, trapassata con una spada. La seconda, sbattuta contro un muro.

    Quando muore, Caligola, ha appena ventinove anni: il suo impero è durato solo tre anni, dieci mesi e otto giorni. Il cadavere viene arso e le ceneri tumulate.

    5. Il cuore inquieto di Messalina

    Figlia di Marco Valerio Messalla Barbato e di Domizia Lepida minore, anche Messalina finisce nei piani del diabolico Caligola.

    Nata nel 25 d.C. da una nobile stirpe, viene promessa in sposa al futuro imperatore Claudio, ad appena quattordici anni. L’uomo, di trent’anni più vecchio di lei, è brutto e zoppo. Lei è invece di una bellezza rara. Dal matrimonio nascono due figli, Claudia Ottavia e Britannico. Alla morte di Caligola, lei e il marito, diventato imperatore, ordinano la cattura e la morte dei pretoriani che hanno preso parte alla congiura.

    La bella romana ha il cuore inquieto e non ama molto la vita di corte anche se, per assicurare il trono al figlio Britannico, ordina la morte di tutti i potenziali eredi.

    È piuttosto trasgressiva e molte storie su di lei cominciano a circolare nei corridoi delle ricche ville romane.

    Addirittura, secondo alcuni, nelle calde notti romane si prostituisce nei bordelli usando il nome di Licisca: con i capezzoli dorati e completamente depilata trascorre per pochi spicci le ore con soldati e marinai. Altri sostengono che abbia sfidato in gara la più celebre prostituta dell’epoca, battendola nell’avere venticinque rapporti in una giornata. Amante dopo amante la bella Messalina si innamora di Gaio Silio, che per lei ripudia la moglie. È sfrontata e decide di vivere il suo amore adultero in pubblico, così nel 48 d.C., mentre l’imperatore Claudio si trova a Ostia, sposa l’amante durante una festa, segnando la loro condanna a morte. Claudio ne ordina subito l’esecuzione: Gaio Silio non oppone alcuna resistenza mentre Messalina tenta la fuga. Si rifugia nel giardino di Lucullo dove viene raggiunta da un tribuno militare. Si racconta che il suo giustiziere, dopo averla afferrata per i capelli, poco prima di ammazzarla abbia detto: «Se la tua morte sarà pianta da tutti i tuoi amanti, piangerà mezza Roma». Per l’onta subita l’imperatore Claudio ordina la damnatio memoriae, la cancellazione del suo nome dai documenti ufficiali. Sposa poi Agrippina e nomina come suo successore Nerone.

    ¹ Cicerone, De officiis (Sui doveri),

    I

    , 28, 97, 44 a.C.

    Intrighi di corte

    6. Lucrezia Borgia e Alfonso D’Aragona

    Si uccide e si ucciderà ancora nella città eterna. Gli anni che seguono sono segnati da uno scenario di guerre, lotte e omicidi di eccellenza in una Roma che sta crescendo e si sta imponendo come forza politica e non solo. Tante, tantissime sono ancora le morti eccellenti anche se, seguendo il filo di una città violenta e assetata di potere, c’è un delitto in particolare che segna un’epo­ca, quella che vede come protagoniste le nobili famiglie dei Borgia e degli Orsini. Tra tutti, c’è una donna che si trascina dietro ancora oggi una scia di mistero, paura e fascino: Lucrezia Borgia, figlia di Rodrigo e Vannozza Catanei. Viene promessa in sposa prima allo spagnolo don Cesare conte di Aversa e poi a Giovanni Sforza. Suo padre, diventato papa Alessandro

    VI,

    vuole infatti suggellare l’alleanza con la potente famiglia. Ma la bella e giovane Lucrezia, dopo un breve periodo coniugale, dichiarato nullo il matrimonio per volontà del papa, torna a Roma: il padre ha altri piani per lei e la concede in sposa al figlio del re di Napoli, Alfonso d’Aragona, duca di Risceglie. Ma lotte intestine e mancate alleanze conducono il novello sposo verso la morte. Lucrezia intanto viene nominata governatrice di Foligno e di Nepi mentre alle sue spalle si organizza l’attentato al marito. Sfuggito a un primo agguato, Alfonso d’Aragona il 18 agosto del 1500 viene strangolato da alcuni uomini. La politica filofrancese del papa segna il destino del duca: nel 1503 per il delitto viene arrestato e processato Micheletto Corella, uno scherano di Cesare Borgia, detto il Valentino e fratello di Lucrezia. La bella Borgia viene data ancora in sposa, questa volta ad Alfonso d’Este. Ma è la fine: stanca di essere usata come strumento per le alleanze del padre, comincia a disinteressarsi della politica e promuove invece una vivace vita di corte fino al 1512. Poi condurrà un’esistenza sempre più raccolta. La misteriosa Lucrezia muore a trentanove anni di aborto.

    06_lucreziaborgia.tif

    Incisione tratta dal supposto ritratto di Lucrezia Borgia del Pinturicchio.

    7. Beatrice Cenci

    Nasce il 16 febbraio del 1577 da Ersilia Santacroce e dal conte Francesco Cenci, un nobile e ricco signore della Roma papalina discendente dalla gens Cencia, del ramo di Lucio Cincio Alimento, storico del

    III

    a.C. Bellissima e di animo nobile, Beatrice ha cinque fratelli: Antonina, Giacomo, Cristoforo, Rocco e Bernardo. E la vita di tutti loro sarà segnata da un epilogo drammatico. Francesco Cenci è un uomo violento che vive al di sopra delle regole e proprio per questo, quando Sisto

    V

    viene eletto papa, decide di lasciare Roma. Il nuovo pontefice è infatti assai severo e la famiglia si trasferisce nella rocca di Petrella Salto, in provincia di Rieti. Qui, lontano dalla capitale, il conte Cenci comincia a manifestare anche in famiglia il suo animo crudele: priva i figli dello stretto necessario per vivere dignitosamente e poi si innamora di Annetta Ridarella, ne ordina il rapimento e al rifiuto della donna la fa uccidere. Dopo alcuni mesi, e in seguito alla morte del papa, rientra a Roma dove si innamora della bella Lucrezia Petroni. Intanto, ordina ai figli maschi di proseguire gli studi all’università di Salamanca, e poche settimane dopo il trasferimento la moglie muore in circostanze misteriose. Il piano del conte è chiaro e nel 1593 sposa Lucrezia. I figli, abbandonati e lasciati in miseria, si rivolgono al nuovo papa, Clemente

    VIII

    , che ordina al conte di provvedere al sostentamento della prole. Antonietta viene così data in moglie a un ricco signore di Gubbio con una cospicua dote e viene stabilita una cifra importante anche per i tre figli maschi. Tuttavia, Rocco e Cristoforo moriranno poco dopo in circostanze tragiche. Beatrice, la più piccola e la più bella, è ancora a palazzo con il padre e la matrigna. La ragazzina è tanto bella che il conte decide di nasconderla per evitare che qualche pretendente si faccia avanti. Le attenzioni di Beatrice devono essere solo per lui che comincia ad abusare della figlia. Nonostante le accortezze, è la matrigna Lucrezia ad accorgersi delle morbose attenzioni nei confronti della ragazza. Ma è troppo tardi: il conte decide il trasferimento alla rocca di Petrella, dove matrigna e figlia vengono rinchiuse.

    La condanna

    Beatrice, rinchiusa nella rocca, scrive una lettera accorata ai fratelli Giacomo e Bernardo e a un monsignore. Chiede aiuto, è disperata, e i suoi salvatori sanno che l’unica speranza è quella di uccidere il conte. Vengono incaricati dell’omicidio il suo servitore, Olimpio, e il brigante Marzio, uomo vicino al conte. L’ordine arriva da Giacomo e il 9 settembre del 1598 Francesco Cenci viene ammazzato con due chiodi. Uno gli viene conficcato dentro un occhio, l’altro nella gola. L’uomo era solito indossare anche nel sonno l’armatura, i due non hanno dunque scelta. E per nascondere il delitto lo gettano dal torrione del castello affinché sembri un incidente. Beatrice e Lucrezia sono salve, ma il loro triste destino sta per compiersi.

    Giacomo ordina infatti che vengano eliminati i servi incaricati dell’uccisione, ma Marzio riesce a scappare e, arrestato a Napoli per un altro delitto, confessa anche il delitto del conte. Alla Corte Savella, Lucrezia, Beatrice, Giacomo, Bernardo e Marzio devono rispondere del crimine. Vengono sottoposti a durissime torture.

    07_cenci.jpg

    Il ritratto di Beatrice Cenci dipinto da Guido Reni, in un’incisione ottocentesca.

    Olimpio, nonostante il dolore inferto per estorcergli la confessione, non parla e muore in seguito alla torture. Anche Beatrice non cede al supplizio, mentre Giacomo, Bernardo e Lucrezia, stremati dalle percosse, accusano proprio Beatrice di essere la responsabile. Il giudice Cesare Luciani non avrà pietà, nonostante l’avvocato difensore, Prospero Farinacci, racconti pubblicamente degli stupri subiti dalla bella ragazza. Il giudice decide il destino della poveretta e la sottopone ancora alle torture. Lei, per pietà verso i fratelli e la matrigna, decide di confessare. Il papa, intanto, priva del titolo la famiglia, e ne confisca i beni che vende ai Borghese. I Cenci vengono tutti giudicati colpevoli e condannati a morte. Bernardo viene graziato, per via della sua giovane età, ma costretto ad assistere alle decapitazioni.

    L’11 settembre del 1599 la prima a essere decapitata a Castel Sant’Angelo è Lucrezia. Poi è il turno di Beatrice che, in punto di morte, avrebbe detto al boia: «Lega questo corpo ma spicciati a sciogliere quest’anima che deve giungere all’immortalità e all’eterna gloria». Il corpo della giovane viene poi preso in custodia dai sacerdoti della compagnia della Misericordia e portato alla chiesa di San Pietro in Montorio dove la testa viene conservata in una teca. Ma solo fino al 1789, quando i soldati francesi, durante la prima repubblica romana, fanno razzia anche dei suoi resti. Eppure, la storia della bella e disgraziata Beatrice non è ancora finita: la leggenda racconta infatti che il suo fantasma compaia, l’11 settembre di ogni anno, sugli spalti della rocca di Petrella e a Castel Sant’Angelo.

    Martiri ed eretici

    8. Bellezza Orsini

    Unguento unguento

    mandame alla noce de Benevento

    supra acqua et supra vento

    et supra omne maltempo.²

    Ha solo quarant’anni Bellezza, così la chiamano tutti a Fiano, anche se il suo vero nome è Isabella. È stesa a terra con un chiodo conficcato in gola: non è ancora morta, appena un alito di vita addosso quando uno dei carcerieri apre la porta della sua cella. Vogliono controllarla perché qualche ora prima ha tentato di impiccarsi. In carcere l’hanno già torturata fino alla sfinimento per ottenere una confessione, per tre giorni e per tre notti l’hanno sottoposta alla strappata, una delle più comuni e terribili tecniche di tortura: legata a una fune e fissata a una carrucola, le gambe e le braccia sono state tirate fino allo stremo slogandole le articolazioni.

    E lei alla fine ha confessato. «Sono una strega», ha detto davanti al giudice, sancendo così la sua condanna a morte. Ma Bellezza ha deciso di morire per mano sua: è riuscita a sfilare un vecchio chiodo conficcato nell’antico muro della cella, poi per quattro volte se l’è conficcato in gola. Il sangue è ovunque quando viene aperta la porta in ferro e catene. «Voglio solo lasciare questo mondo da così ho disgusto», riesce a dire prima di morire.

    È il 1528 e si è appena concluso uno degli ultimi processi per stregoneria dopo che nel 1487 era stato reso pubblico il Malleus Maleficarum³, dai frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, allo scopo di soddisfare l’urgenza di reprimere l’eresia, il paganesimo e la stregoneria in Germania. Il Malleus viene pubblicato nel periodo in cui la stregoneria comincia a essere vista come una forma di satanismo e rimane, fino alla metà del

    XVII

    secolo, il più consultato manuale della caccia alle streghe sia da parte degli inquisitori cattolici sia dei giudici protestanti, poiché spiega come comportarsi in ogni singola occasione. Viene creato pure un tribunale apposito e sono nominati dei giudici particolari: la santa Inquisizione; il suo simbolo è la croce e i suoi giudici fanatici. Farà in Europa milioni di vittime, tra cui Bellezza Orsini, il cui caso ha lasciato una traccia indelebile nella buia e sanguinaria storia di quegli anni, tanto che nel 2003, nel programma La storia in giallo, su Radio3, viene trasmesso Bellezza Orsini, la strega, una ricostruzione radiofonica basata su documenti originali interpretata da Sara di Nepi con le musiche originali di Alessandro Molinari.

    Le accuse

    Bellezza è nata a Collevecchio, a pochi chilometri da Fiano romano e Rieti alla fine del Quattrocento, ma della nobile famiglia – Orsini – porta solo il cognome. Del padre Angelo si sa poco mentre del marito che l’abbandona con un figlio piccolo, niente. Moglie e madre bambina, vedova adolescente, lascia il paese natio per andare a servizio nella Rocca degli Orsini a Monterotondo. Incaricata di cucinare, pulire e badare alle bestie, tra i suoi doveri c’è anche quello di portare da mangiare a una vecchia cuoca, sospettata di essere una strega, Lucia di Ponzano. Le due donne presto stringono una solida amicizia tanto che la vecchia cuoca le insegnerà tutti i segreti sulle erbe mediche e sulla magia. Lucia dunque istruisce Bellezza sulla medicina dei semplici, a base di sostanze vegetali, e le regala un talismano fatato. Da quel momento in paese si sparge la voce sulle doti guaritrici della donna e sono tantissimi i malati che si rivolgono a lei. Fino a quando però proprio uno dei suoi pazienti, nonostante le cure, muore. I familiari del defunto inviano una segnalazione in cui accusano Bellezza di stregoneria: sarà la sua fine. Subito viene aperto un fascicolo e partono le indagini. Il giudice di Fiano, Marco Callisto da Todi, raccoglie le denunce. La prima a puntare il dito contro di lei è Elisabetta e la accusa di aver ucciso suo figlio: Camillo da Filacciano. Il giovane è disteso e malato, la madre assiste impotente: «Bellezza mi ha ucciso, mi ha stregato con qualche maleficio. Dite a Bellezza che solo lei mi può guarire»⁴. Bellezza, da esperta guaritrice, prima si rifiuta di intervenire poi va al capezzale. Ha capito che non potrà fare nulla per l’uomo, ormai in fin di vita. Impietosita, decide di fare comunque un ultimo tentativo: «[…] non farò niente, mi limiterò a fare quel che conosco»⁵, precisa alla famiglia disperata. Prepara quindi un infuso che allevierà i dolori del malato, ma non lo salverà. L’uomo, infatti, dopo aver avuto un po’ di sollievo muore, ma ha il tempo di pronunciare, come ultime parole: «Bellezza mi ha voluto uccidere»⁶. Il corpo del defunto, in seguito, si gonfia così tanto che la madre non riesce neanche a piegargli le braccia sul corpo. Una strana reazione che la famiglia attribuisce a un maleficio di Bellezza.

    Tra gli accusatori c’è anche Cecco da Filacciano, a cui la donna aveva chiesto in prestito dei denari e, avendoglieli questi rifiutati, lei lo aveva, a suo dire, maledetto toccandolo su una spalla, cosicché si era ammalato per ben quattro mesi e aveva speso tutti i suoi denari in medici e medicine inutili. Poi aveva fatto chiamare la stessa Bellezza, che gli aveva tolto il malocchio e lui, seguito il rituale suggerito dalla donna, era subito guarito.

    Bellezza, interrogata, nega da principio di aver fatto qualcosa contro Cecco e racconta anzi di averlo aspramente ammonito a non molestare più la giovane e sventata moglie del proprio figlio. Di nuovo la testimonianza viene messa agli atti. Dice Cecco al giudice: «Io cognosco Bellezza, e hola per una mala femina e strea, e ognuno ha pagiura de facti sui. […] è una strea, e de quelle che sanno e guastare e acconciare. E tucti se dice adesso pubblicamente che è una strea e mastra».

    Infine, testimonia anche un prete di Morlupo, don Egidio, che la ritiene responsabile di una malattia quasi mortale che lo ha afflitto per diversi mesi. Secondo il prete la malattia sarebbe stata provocata da un filtro datogli da Bellezza. Inoltre, afferma di essersi ammalato e, non trovando un rimedio alla malattia, di essersi rivolto a uno stregone, addirittura un prete di Civita Ducata, il quale dopo averlo visto gli avrebbe detto: «T’è stato dato ad mangiare el beverone da una donna che te vò male e fece star cusì. E se non havesso remediato, fra poco tempo serriste morto»⁸.

    Il prete/stregone sostiene che Bellezza gli fa bere un filtro composto da sperma e sangue che lo costringe a vomitare, e don Egidio guarisce.

    Raccolte tutte le testimonianze, la donna viene immediatamente convocata a rispondere delle accuse: «Io curo e medico ogni male e ogni infermità, so guarire doglie francese, ossa rotte, chi fosse adombrato da qualche ombra cattiva e molte altre infermità»⁹, risponde, certa in un primo momento di salvarsi. Tuttavia, sa di essere ritenuta capace di nuocere. «Strea, matre della strearia», l’aveva definita il prete di Morlupo, don Egidio, puntando il dito contro di lei. Si sente in pericolo e cerca anche di fuggire. Arrestata nuovamente prova a ingraziarsi il giudice, molto più giovane di lei, gridando: «Io non so strea! Teste cose non le dicete, Dio vi perdoni!»¹⁰. Minacciata di torture, tenta una prima volta il suicidio: è allora che interviene pure il figlio Giovanni, suo procuratore, che ottiene una pausa del processo.

    La supplica

    «Agnelo Urini de Collevecio faccio mano propria questa carta, che me ll’à fatta fa lu procuratore, e dirrove tutte le mee culpe, che so’stata e so’fatuciera; e la farraio perperdonanza deligranni mali che aio fatto, che me moro de dolore. Emo non guardate alla mala giurantidelo scrivere»¹¹. Durante la pausa del processo, Bellezza prova a impietosire la giuria e scrive di suo pugno una supplica in cui si difende in cerca della salvezza. Rivela alcuni riti e come sia arrivata alla magia e alle erbe. Consegna poi tutto agli inquisitori nella speranza di sfuggire alle torture. Il testo verrà successivamente messo agli atti ma utilizzato contro di lei. Un’ulteriore prova, per i giudici, della sua colpevolezza. Così, dopo tre giorni di pausa, il processo nel castello di Fiano riprende. Alla sbarra, Bellezza, ha già capito che non riuscirà a salvarsi.

    Gli studiosi che successivamente ebbero modo di approfondire gli atti del processo, dal modo in cui la confessione fu scritta, riuscirono a stabilire che quasi certamente la donna fu sottoposta non solo alla tortura della corda, ma anche al le turcas, un mezzo usato per lacerare e strappare le unghie e, dopo lo strappo, venivano inseriti degli aghi nelle estremità delle falangi. La grafia risulta infatti per tutto il trattato irregolare.

    Le streghe di Benevento

    L’inquisita Bellezza scrive della congrega delle streghe di Benevento. All’epoca la zona era nota proprio per la presenza di spiriti e pratiche magiche. La storia della città delle streghe parte da molto lontano: gli antichi Romani la chiamavano Maleventum e che fosse un luogo sfortunato ne ebbero una prima prova durante le guerre sannitiche, quando persero a Caudium, l’odierna Montesarchio, nel 304 a.C. poi, poco dopo, tornarono e vinsero contro Pirro e ne cambiarono il nome in Beneventum, buon evento, nella speranza di esorcizzare i malefici. Caduto l’impero romano, quando i Longobardi invasero l’Italia e crearono il ducato di Benevento, secondo la leggenda la città fu invasa dalle streghe: gli spiriti locali, pronipoti di Iside, e le streghe tedesche, venute al seguito dei Longobardi, si allearono.

    Le streghe proliferarono infestando per secoli le campagne attorno alla città e seminando il terrore. Si racconta di macabri rituali: dopo aver succhiato il sangue ai bambini, li uccidevano e ne estraevano il grasso necessario per un unguento magico di cui si ricoprivano e che consentiva loro di volare sopra scope di saggina o rivoltate in groppa a cavalli rubati dalle stalle. Le streghe tedesche portarono l’usanza di riunirsi tutte sotto un noce, carico di serpenti, cui appendevano una pelle di caprone da addentare a morsi. Al noce di Benevento le streghe arrivavano in volo da tutto il mondo all’epoca conosciuto, recitando la filastrocca: «Unguento unguento mandame alla noce de Benevento supra acqua et supra viento et supra omne maletiempo».

    Caduti i Longobardi, Benevento si affida al papato per essere autonoma dal Regno di Napoli fino a quando Federico

    II

    di Svevia, arrivato da Napoli, assedia la città e la rade al suolo. Il papato la tiene poi sotto il suo potere fino al periodo della spedizione guidata da Garibaldi: le streghe continuano a imperversare sotto il dominio pontificio tanto che la soluzione della questione viene affidata ai tribunali della santa Inquisizione che scoprono che molte di loro si sono formate nella scuola delle streghe di Baselice: solo nella città di Benevento si sono svolti duecento processi.

    La confessione

    Il processo a Bellezza Orsini inizia nel 1545, proprio alla vigilia del Concilio di Trento che vara politiche d’estirpazione delle pratiche magiche diffusissime e in gran parte ritenute innocue, anche se non attinenti alla stregoneria. Roma conosce, tra gli altri processi per stregoneria, quello del 1524 contro la fattucchiera Lucrezia, catturata di ritorno da Benevento – racconta la leggenda – per un’inopinata caduta dalla scopa all’alba. E, nel 1552, è la levatrice ottantenne Faustina Orsi che finisce sul rogo.

    Ancora, quello delle due anziane Caterina la Siciliana del 1557 e, un anno prima, quello di Porzia la Perugina.

    Tornando alla strega di Monterotondo, pure il figlio prova a salvarla: va dal conte di Pitigliano chiedendo di intervenire in favore della madre. Ma è tutto inutile, il conte ascolta il giovane poi declina ogni richiesta lasciando la donna al suo destino.

    «Parla! Rivelati!»¹², grida il giudice in aula, ma Bellezza ripete per ore la sua versione:

    Io ho fatto solo del bene! Io non so perché me ce stia iqui. Penso che vogliate che io medichi qualcuno e che faci qualche experientia. Vo medicando qua e la, e quanto bene fò io alli cristiani. Sempre ho facto bene, non feci mai male. Non feci mai se non bene, e per far meglio me so vestita de questo ordine de santo Francesco Benedecto. E de questo medicar me sò confessata de li frati, e non voglion chel faccia più perché è peccato. A chi me ha facto male ad me, io li ho facto male e pegio a lui. Chi me ha levato casa e toltime danari, ne ha patite le pene.¹³

    Infine, sottoposta alla tortura, si arrende. Racconta di aver ammazzato un numero incalcolabile di persone, non ricorda assolutamente quante, a volte semplicemente perché invaghita di un uomo sposato. Dice di aver perpetrato malefici a pagamento, di aver dissotterrato cadaveri di neonati che lei stessa aveva fatto morire per preparare l’unguento che le permetteva di affatturare, di aver imparato tutte le sue arti da un’altra donna quando badava ai prigionieri nel castello del suo paese. Sembra un fiume in piena mentre parla: «Sono strega e ho fatto del male e ho insegnato la stregoneria a molte persone. Le streghe sono talmente tante»¹⁴.

    «È così che hai ucciso? Chi sono le altre streghe?», incalza l’inquisitore.

    Slegatemi, mettetemi giù e vi dirò di come si fanno le unture e di tutto quello che son. Ma lasciate che mi riposi un poco. Sono stata strega e non ho mai voluto dirlo. Non sono la sola, Vi sono maestre più grandi di me. Al noce di Benevento¹⁵ ci ungiamo con un unguento preparato dalle membra dei morti senza battesimo. Ci tocchiamo e ci baciamo e poi facciamo quella cosa, fino a otto volte per notte.¹⁶

    Così parla, ma il giudice vuole sapere delle altre donne a cui Bellezza accenna. Sotto tortura fa diciassette nomi: una a una elenca le streghe che con lei si sono unite nei riti magici e rivela anche la formula magica per volare: «Unguento unguento mandame alla noce de Benevento supra acqua et supra vento et supra omne maltempo». Appena un’ora di camera di consiglio e il tribunale la condanna a essere arsa viva nella pubblica piazza di Fiano.

    «La data è da decidere», dice il giudice Marco Callisto da Todi, «tornerai in cella dove curerai l’anima»¹⁷.

    Il suicidio

    Dopo la confessione la strega capisce: nessuno potrà salvarla dal rogo, il tribunale ha già stabilito la condanna a morte. Così, una seconda volta, tenta di ammazzarsi per mano sua. Trova un chiodo conficcato nel muro della cella e vi conficca la gola per quattro volte, poi si accascia a terra in un lago di sangue. Quando i carcerieri entrano, la trovano ormai esanime. Ha solo la forza di sussurrare le ragioni del suo gesto. La strega di Monterotondo lascia però una confessione scritta che sarà tramandata nei secoli dei secoli fino a noi.

    9. Giordano Bruno

    È un naturalista rinascimentale influenzato dal materialismo antico, dal neoplatonismo e della filosofia ermetica. Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548 è stato una delle figure più complesse e significative non solo del suo tempo, ma di tutta la storia del pensiero filosofico. A quattordici anni entra nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli, che aveva una delle librerie più ricche e complete del tempo, e qui comincia a elaborare la sua visione della fede. Il suo Dio è trascendente, perché ordinatore della natura, e immanente, perché creatore del mondo. Secondo Bruno, Dio è un’unica entità con la natura e nella sua totalità è da amare. Comincia così a esporre i suoi dubbi sulla Trinità perché, per l’uomo di pensiero, il Figlio rappresenterebbe l’intelletto, mentre lo Spirito Santo l’amore e quindi l’anima del mondo. Sarebbero manifestazioni, non sostanze. Intorno al 1570, mentre Roma è attraversata da diversi disordini decide di lasciare l’abito domenicano e comincia le sue peregrinazioni fino in Germania e in Francia non smettendo mai di scrivere e insegnare. Ma soprattutto, affinando il suo pensiero rivoluzionario su cui il tribunale della santa Inquisizione decide di indagare e di processarlo. Nel novembre del 1592 torna in Italia, a Venezia. Il 23 maggio di quello stesso anno, viene denunciato alla santa Inquisizione e accusato di blasfemia, di non credere alla Trinità, di praticare arti magiche e di negare la verginità di Maria e le punizioni divine. Arrestato, viene rinchiuso a San Domenico a Castello, le carceri della santa Inquisizione di Venezia.

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    Il monumento a Giordano Bruno in piazza Campo de’ Fiori (incisione ot­to­centesca).

    Il processo

    Nega, tace e mente anche. Bruno è un abile oratore e il suo scopo è convincere i suoi giudici. Il processo si apre a Venezia, ma presto viene deciso che sia dibattuto a Roma, alla presenza del papa, nel febbraio del 1593. Il filosofo viene quindi trasferito nel palazzo del Sant’Uffizio dove, oltre alla denuncia per blasfemia, in sede processuale contro di lui vengono portati anche diversi libri di cui è accusato di essere l’autore. Grazie ai verbali del processo, ai memoriali e agli scritti storici è stato possibile ricostruire il castello accusatorio. Otto sono i capi di accusa di cui deve rispondere: è contro la fede cattolica, la trinità, Gesù, la transustanziazione. Crede invece nei mondi infiniti, nell’anima del mondo e degli animali, nelle arti divinatorie, nella non punibilità dei peccati e nel peccato carnale. Il 12 gennaio del 1599, dopo sei anni di carcere e di processo, viene invitato ad abiurare le sue posizioni eretiche. Il 10 settembre sembra che stia per ritrattare ma, il 21 dicembre, rifiuta dichiarando che non c’è nulla di cui debba pentirsi.

    La condanna a morte

    L’8 febbraio del 1600, i cardinali e inquisitori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Villini, gli leggono la sentenza di condanna al rogo. Bruno è in ginocchio davanti a loro, una volta terminato si alza e dice: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam»¹⁸. Rifiuta il crocefisso e l’estrema unzione. Il 17 febbraio, con la lingua serrata in una morsa affinché non parli, viene spogliato e legato a un palo al centro della piazza a Campo de’ Fiori, dove muore arso vivo e le sue ceneri vengono gettate nel fiume Tevere. Ma con la sua morte la santa Inquisizione non può impedire al pensiero rivoluzionario di Bruno di allargarsi e affermarsi nei secoli successivi. Nel 1603 i suoi libri vengono messi all’indice, ma nelle biblioteche continuano a essere presenti e con l’illuminismo la fama del filosofo aumenta ancora e raggiunge Cartesio, mentre Diderot lo considera precursore di Leibniz. In Italia invece, nella seconda metà del 1800 diventa la bandiera della Massoneria e un comitato, tra i cui membri figurano anche Victor Hugo e Herbert Spencer, propone di erigere un monumento in sua memoria. Nel 1888 il consiglio comunale, dopo accese polemiche, acconsente: il 9 giugno del 1889 lo scultore Ettore Ferrari inaugura il monumento di Bruno. Si racconta infine, che papa Leone

    XIII

    abbia prima minacciato di lasciare Roma, e che poi, per tutta la giornata sia rimasto in ginocchio a pregare davanti alla statua di san Pietro.

    ² Antonio Bertolotti, Streghe, sortiere, maliardi nel secolo

    XVI

    in Roma, Forni editore, Bologna 1979, p. 154.

    ³ Dal latino: il martello delle streghe.

    La Storia in giallo, Bellezza Orsini, puntata del 19 gennaio 2003, Radio3.

    Ibidem.

    Ibidem.

    ⁷ Tullia Bartolini, Bellezza Orsini strea, Guida Editori, Napoli 2000, p. 54.

    Ibidem, p. 65.

    Ibidem, p. 19.

    ¹⁰ Marcello Craveri, Sante e streghe. Biografie e documenti dal XIV

    al

    XVII secolo, Feltrinelli, Milano 1980, p. 175.

    ¹¹ Marina Montesano, Streghe, Giunti, Firenze 1996, p. 377.

    ¹² La storia in giallo, cit.

    ¹³ Ibidem.

    ¹⁴ Ibidem.

    ¹⁵ Secondo le testimonianze delle presunte streghe, il noce doveva essere un albero alto, sempreverde e dalle qualità nocive.

    ¹⁶ La storia in giallo, cit.

    ¹⁷ Ibidem.

    ¹⁸ Forse tremate più voi nel pronunciare contro me questa sentenza che io nell’ascoltarla. Caspar Schoppe, lettera a Konrad Rittershausen, 17 febbraio 1600.

    La Roma dei briganti

    Invece, benché morto confortato

    dai santi sacramenti della chiesa

    il nome suo dai posteri è esecrato,

    né c’è chi di lui prenda la difesa;

    ché di troppi delitti fu infamato

    e troppo ardita fu la sua pretesa

    di imporre la giustizia del più forte

    e, a piacimento suo, dare la morte¹⁹.

    10. Giuseppe Mastrilli

    «Peppe Mastrilli, cu ’na palla di metallo accise quattro sbirri e nu cavallo»²⁰.

    (Vestivano) un cappello stretto di falde, alto e appuntito, con una gala di fettucce di diverso colore, giacca, gilet e calzoni tutti di colore turchino (che) arrivavano fino alla caviglia. La pettinatura ricordava un po’ quella dei bravi seicenteschi con la differenza che al posto del ciuffo […] si lasciavano crescere una treccia che chiamavano coda. I capelli venivano divisi in due bande e fatti ricadere da una parte e l’altra del volto, tutti abboccolati (da sembrare) donne travestite. Moda diffusa fra tutti era quella degli orecchini e degli anelli d’oro che venivano ordinati agli orefici […] le ciocie era l’unica calzatura; (portavano) fucile di canna corta pugnale lungo e pesante le cartucce per il fucile trovavano posto nella patroncina di cuoio che girava tutt’intorno alla vita molto pesante per via dei proiettili di piombo e per due sacchette di cuoio che si portavano appese ai fianchi contenenti altre palle pure di piombo, l’acciarino per la pietra focaia e le monete d’argento. In più vi si appendeva pugnale.²¹

    Così descrive i briganti Carmine Crocco, capo indiscusso delle bande del Vulture, dell’Irpinia e della Capitanata. Tra il 1500 e il 1864, infatti, in Italia ci sono oltre trecentocinquanta bande: il brigantaggio è una piaga, una forma di protesta, di ribellione e soprattutto di sopravvivenza. Raggiunta l’unità, nel Paese scoppia una vera e propria rivolta popolare: alcuni capibanda appoggiano l’impresa dei Mille e combattono contro i piemontesi con l’idea di restaurare il regime borbonico. Gruppi di contadini delusi e affamati prendono la via delle montagne – perché impervie e difficili da raggiungere per i militari – tra l’Abruzzo meridionale e la Basilicata. Poi si organizzano in bande e alcuni si trascinano fino alle porte di Roma. Ma non sono soli: hanno l’appoggio degli sconfitti Borbone e, talvolta, anche dello Stato della Chiesa. A un certo punto però, lo Stato, per ricostituire l’ordine pubblico decide di sopprimere il brigantaggio con la forza e invia centomila soldati, metà dell’esercito nazionale, occupando militarmente le regioni meridionali. È una carneficina: cinquemila persone vengono uccise durante le incursioni militari, altri settemila briganti vengono arrestati e condannati a morte o al carcere a vita. Nel 1864 il brigantaggio è una piaga debellata, tuttavia alcuni capibanda sono riusciti a scappare e a sopravvivere. Tra loro, Giuseppe Mastrilli.

    Si hanno poche notizie, e incerte, sulla vita di questo brigante, uno dei più famosi, tanto da essere diventato una leggenda. Quel che è certo è che Giuseppe Mastrilli è nato a Terracina, a pochi chilometri da Roma. L’intera zona nella prima metà del

    XVII

    secolo attraversa anni bui e dolorosi a causa di una violenta epidemia del castrone²², che decima la popolazione. I pochi sopravvissuti decidono di fuggire lasciando le terre incolte e abbandonando quella che fino a poco prima è una ridente e florida cittadina di mare. E proprio per la sua importanza strategica, autorità civili e religiose decidono che per restituire l’antico vanto al luogo verranno offerte terre ai nuovi contadini. Un’occasione che tanti abitanti dalla Ciociaria e dal Regno di Napoli non vogliono farsi sfuggire: la costa e le campagne riprendono vita, tanto che nel primo censimento dello Stato Pontificio, nel 1656, gli abitanti registrati sono più di milletrecento. Tra questi c’è anche Cesare, il padre di quello che presto diventerà un famoso bandito. La famiglia è ricca, Mastrilli viene mandato a Roma per studiare e qui si innamora di una giovane, Ada. La vede mentre lei è affacciata alla finestra e dice al padre che la vuole sposare. La ragazza però si innamora di un altro, figlio di un ricco mercante. Peppe per averla non esita un istante e quando incontra il suo rivale tira fuori il coltello e lo ammazza. Diventato assassino per amore e bandito scappa da Roma. Il padre del giovane assassinato lo denuncia e su di lui c’è una taglia di trecento scudi. Inutili i primi tentativi di arrestarlo: uccide il comandante e dieci dei soldati che erano sulle sue tracce. Passa il confine e arriva a Napoli, qui chiede asilo a un pescatore che però lo tradisce. Secondo la leggenda, il brigante viene arrestato, condannato a morte e dopo quattro anni di carcere a Napoli viene deciso il suo trasferimento a Roma. Durante la traversata via mare si scatena una tempesta nei pressi di Gaeta e il bandito riesce a fuggire e a raggiungere Terracina. Una volta a terra, nuovamente libero, comincia

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