Il corpo grande: Biografia non autorizzata di una modella oversize
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Ancora il tema del corpo, declinato da una scrittrice che di questo si è sempre occupata con una cifra narrativa unica e con un accurato montaggio ipercontemporaneo.
Siamo soffocati da stereotipi irreali, canoni di bellezza determinati da giornali patinati e da modelle appena più che adolescenti con la fame tenuta a bada da troppe anfetamine. Abiti sempre più stretti, obblighi sempre più rigidi, puoi indossare questo, mai le righe, mai le braccia nude, questo copre e va bene, questo no, indici di massa corporea più rigidi in un mondo reale fluido, dove tutto è cambiamento. I corpi si dilatano e si allargano nel corso di una vita, si crepano, cambiano, si feriscono, acquistano bellezza obliqua, consapevolezza differente. A volte per caso, per scelta. Per il metabolismo che muta, per una malattia, a volte per la fame. Se non si frena tutto questo, arriva un senso di colpa che soffoca e soverchia, toglie il respiro.
Sempre più persone soffrono di disordini alimentari, i corpi diventano bollicine, fisarmoniche, aumentano, diminuiscono, aumentano di nuovo, fra lacrime e fasulle soddisfazioni nel tentativo affannoso di somigliare a quello che si vede in televisione o sulle lucide pagine patinate che propongono sogni crudeli di donne bioniche, inesistenti femmine OGM. Si tratta di una rincorsa ansiosa per afferrare, fallendo sempre, una bellezza sempregiovane, sempresana, eterna e inscalfibile. Questo è il messaggio che sfregia soprattutto le donne (ma non solo) ne mina con colpevole consapevolezza autostima e considerazione da decenni.
Un messaggio crudele, che non tiene conto di un dato di fatto: tutto cambia, modificando la latitudine, il punto di vista, il cuore e lo sguardo si può vedere la relatività di quello che consideriamo normale e giusto. Adatto e apprezzabile. Tutto cambia col tempo, saremo sempre fuori posto o fuori strada se non comprendiamo e “abitiamo” le nostre imperfezioni. Possiamo farle splendere. Nessuno è sbagliato. Dobbiamo vivere e sentire il nostro corpo, dargli valore.
Liberamente ispirato alla vita di Tess Holliday.
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Anteprima del libro
Il corpo grande - Francesca Mazzucato
Francesca Mazzucato
Il corpo grande
Collana: Riflessi del presente
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
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ISBN 978-88-6155-660-7
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2016
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
Senza fretta. Senza scintille.
Senza dover essere altro che se stessi.
Virginia Woolf
La domanda a cui continuamente ritorno è: Che vi importa se sono grassa?
È il mio corpo... Perché se uno è un normalissimo essere umano mediamente sano, tutti, ma proprio tutti, devono sentirsi investiti dalla missione di farne un magro?
Wendy Shanker
Un corpo è un’immagine offerta ad altri corpi, tutto un corpo di immagini tese di corpo in corpo, colori, ombre locali, frammenti, nei, areole, lunule, unghie, peli, tendini, crani, costole, pelvi, ventri... lacrime, denti, salive, fessure, blocchi, lingue, sudori, liquidi, vene, pene e gioie, e me e te.
J.L. Nancy, Corpus
Alcuni brani di questo libro sono attraversati e ispirati dalle storie delle donne che ho citato, blogger, attiviste e modelle, altri sono ispirati a storie vere e a racconti di vita vissuta.
Introduzione
di Francesca Mazzucato
Gli stilisti preferiscono vestire farfalle e libellule che elefanti. Così mi hanno detto alcune giornaliste che lavorano in magazine patinati.
Si può contestare, ma è e resterà così, hanno aggiunto, sì certo, Tess, le altre, loro sono un’avanguardia, ma non ci scommetterei sopra.
Loro, no. Io, invece, la scommessa la faccio volentieri.
Siamo soffocati da stereotipi irreali. Canoni di bellezza determinati da giornali patinati e da modelle appena più che adolescenti con la fame tenuta a bada da troppe anfetamine. Abiti sempre più stretti, obblighi sempre più rigidi, puoi indossare questo, mai le righe, mai le braccia nude, questo copre e va bene, questo no, indici di massa corporea più rigidi in un mondo reale fluido, dove tutto è cambiamento. I corpi si dilatano e si allargano nel corso di una vita, si crepano, cambiano, si feriscono, acquistano bellezza obliqua, consapevolezza differente.
A volte per caso, per scelta. Per il metabolismo che muta, per una malattia, a volte per la fame.
Se non si frena tutto questo, arriva un senso di colpa che soffoca e soverchia, toglie il respiro.
Ma come.
Eppure arriva e se ne vedono gli effetti. Sempre più persone soffrono di disordini alimentari, i corpi diventano bollicine, fisarmoniche, yo yo, aumentano, diminuiscono, aumentano di nuovo, fra lacrime e fasulle soddisfazioni nel tentativo affannoso di somigliare a quello che si vede in televisione o sulle lucide pagine patinate che propongono sogni crudeli di donne bioniche, inesistenti femmine OGM.
Si tratta di una rincorsa ansiosa per afferrare, fallendo sempre, una bellezza sempregiovane, sempresana, eterna e inscalfibile. Questo è il messaggio che sfregia soprattutto le donne (ma non solo), ne mina con colpevole consapevolezza autostima e considerazione da decenni. Un messaggio miope, privo di visione laterale. Un messaggio fasullo, che fa credere di stare in una scia di buongusto, di decenza. Il resto è esagerazione, fobia, teatro, anormalità.
Un messaggio crudele, che non tiene conto di un dato di fatto: tutto cambia, modificando la latitudine, il punto di vista, il cuore e lo sguardo si può vedere la relatività di quello che consideriamo normale e giusto. Adatto e apprezzabile. Tutto cambia col tempo, saremo sempre fuori posto o fuori strada se non comprendiamo e abitiamo
le nostre imperfezioni. Possiamo farle splenderle.
Nessuno è sbagliato. Dobbiamo vivere e sentire il nostro corpo. Dargli valore. Non è facile. La negazione ci ha inseguito a lungo, senza tregua. Provarci, vale la pena.
Accettare sudore, grasso, rughe, segni, fatica. Accettare i giorni no, che ci saranno sempre, i gonfiori, i capricci della tiroide, i segni delle notti insonni, le occhiaie, i mal di schiena. Sapere che non siamo rimandate a settembre. Non siamo in un tempo sospeso in attesa di conformarci al tassello del puzzle che hanno pensato per noi. Solo così si può vedere la sola bellezza che non cambia col tempo.
Da un po’, però, in questa gabbia di conformismo repressivo che assume diverse maschere (fitness, salute, bellezza) si sono aperte delle crepe, ci sono i segni di un cambiamento iniziato in sordina molti anni fa e che sta diventando più vasto, ineludibile, impossibile da ignorare. Se ne parla, infatti, se ne scrive, se ne discute.
Questo romanzo obliquo, fra invenzione, inchiesta e approfondimento, è nato ed è stato ispirato, osservando un fenomeno che sta suscitando sempre maggiore interesse (e scandalo) in questo periodo. Riguarda i corpi delle donne e la loro immagine. Il focus si è spostato: quella che prima era una nicchia semisconosciuta sta diventando un’ondata inarrestabile. I canoni si modificano, incontrano ostacoli, li travolgono.
Mi riferisco alla nuova travolgente emersione di modelle oversize e curvy che hanno occupato
pagine e copertine non solo di settore, addirittura «People» e «Marie-Claire», fra le altre. Modelle che sono anche attiviste e che veicolano in immagini, atti, pagine social, un messaggio di positività e di accettazione, che stimolano a guardare ampio e oltre, a trovare la bellezza in intersezioni, misure e forme dove ci dicono da troppo tempo che non è, non può esserci. Perché la bellezza sta dove dice il sistema che ci lucra sopra. Perché non saperla più vedere, non è solo un fatto di grasso, magro, diverso, omologato, è proprio una perdita dolorosa. E allora, benvenuta la nuova consapevolezza di queste modelle che non rifiutano l’aggettivo fat
. Grasso. Solo un aggettivo. Non lo circumnavigano con sinonimi. Lo masticano, lo declinano, lo dicono, lo reclamano.
Qualcuno dice che esagerano. L’esagerazione, per sovvertire, è sempre necessaria.
Così ho cominciato ad occuparmene. Ho approfondito la vita di queste donne, i legami diretti o indiretti con il movimento denominato Fat Pride, o con altri fra i quali il Fat Acceptance Movement sviluppatosi soprattutto negli Stati Uniti e in Australia. Ho studiato l’attività di blogger, autrici, attiviste, coach, intellettuali femministe che lavorano da tempo intorno ai temi della positività e dell’accettazione del proprio corpo nel suo essere unico, differente da tutti gli altri e non omologabile. Si tratta di un universo complesso, a volte controverso, che merita seria attenzione in un contemporaneo che conferisce all’immagine sempre più potere. Che vive, dell’immagine. Come sembriamo siamo. Come ci autorappresentiamo e ci narriamo, allora qui si trova la nostra vera natura.
Quindi, se si modifica l’autorappresentazione e la narrazione, allora si può trovare una strada di amore, di visione luminosa e non condizionata. Altrimenti si cerca solo una fasulla e plastificata apparenza. Si premia l’essere giovani o giovanili, magri, sani, attraenti. In modo naturale o artificiale ha poca importanza.
Sei magra, vai bene.
Sei giovane, vinci.
Non sei giovane, diventa giovanile.
Fatti fare innesti, iniezioni, operazioni.
Manda giù dolori, magoni, affanni.
Ma diventalo, vuoi invecchiare così? Cammina, corri, suda, digiuna, scompari. Questa è la nuova prigione femminile, scomparire, diventare donne irreali annullandosi carnalmente, fallire, soffrire. Se no hai perso il giro, non passerai mai da viale dei Giardini, che sia danaro finto non importa, che non ci sia un premio in palio è lo stesso, devi essere all’altezza, magra, composta, adatta, accettare i no come risposta, adattarti, assentire. Altrimenti avrai uno stigma di vergogna da portare. Non devi sporcare, pretendere, lasciare segni, suscitare disagio, dare fastidio, farti interferenza.
Non è difficile, viene detto, mentendo. Basta essere perfette. Senza incrinature. Tutte Barbie. Donne per scherzo. La società ce lo chiede. Inseguire un ideale, certe di non essere mai abbastanza. Ci trasformiamo, man mano. Insicure, friabili, manipolabili, depresse, in balia. Se siamo manipolabili e in balia, qualcuno ci guadagnerà.
Lo pensavo da tempo, siamo in gabbia, così è la schiavitù del fitness ad ogni costo, del dimagrimento magico, del colpo di scena sciogli grassi del farò la magia, fidati di me
come promessa per chi ci fa sentire sbagliate e fuori fuoco. E l’aspettiamo la magia, perché è questo che ci obbligano a desiderare. Soggiogare senza farlo davvero è il senso di tutto.
L’inizio del movimento denominato Fat Pride può essere datato al 1967 quando 500 persone si radunarono a Central Park, a New York, per protestare contro la demonizzazione della grassezza e la fobia dell’obesità.
La sociologa Charlotte Cooper ha più volte affermato che la storia di questo movimento è meglio compresa se lo si considera valutandolo a periodi definiti. Esattamente come il movimento femminista, al quale, secondo lei e non solo lei, il movimento del Fat Pride è strettamente collegato. Io concordo, ci sono stati periodi di grande vitalità e periodi di vuoto, quando la cultura mainstream ha enfatizzato al massimo i messaggi salutisti ed evocatori della magrezza come sacra e necessaria per essere accettata.
Fat Pride, grasso è bello, diventava una battuta. Un sarcasmo crudele, che non considerava la complessità del significato, il valore dell’accettazione. Poi il movimento ha ripreso vita, sono accaduti cambiamenti bruschi, divergenze, disconoscimenti e riconoscimenti di vicinanze (col movimento Queer, ad esempio). Si può affermare che oggi viviamo un periodo in cui questo movimento e tutto il mondo curvy nella moda, nella società, nel costume, sta vivendo un nuovo interessante protagonismo.
Negli scritti e nelle analisi di molte attiviste del Fat Pride, si cerca di smitizzare tutti i luoghi comuni riguardo al peso, portando valore su tutti i corpi difformi che la società spesso blandisce e considera con sufficienza, scarsa attenzione, quando non fastidio o intolleranza, nonostante i passi in avanti che sono stati fatti.
Si parte sempre dal grasso, però. Rimane il punto focale.
Non si è mai abbastanza magri o abbastanza ricchi
disse forse Coco Chanel. Mai abbastanza magri
. Ma è vero? Era vero ai suoi tempi? E prima? In altre latitudini? Questa frase circola ancora. Questa frase ha fatto danni. Il buon gusto e l’alta moda hanno troppo spesso considerato le donne come manichini su cui sperimentare i modelli e non come donne, e consumatrici. Vere. Fatte di carne.
Adesso, grazie a tante attiviste del Fat Pride, anche le donne curvy spiegano quanto spendono e cosa vogliono trovare. Non solo abiti neri, non camicioni informi ma outfit sfiziosi. Vestiti rossi, con la cintura, gli unicorni, le righe, le stelle, le braccia nude, le gambe in vista. Impensabile no? No. Cose belle, di tutte le taglie. Lingerie sexy, colori, persino shorts e minigonne. Perché "You can wear the fuck you want dicono in un servizio sul bel sito
I heart my body", punto di riferimento fondamentale per cambiare il proprio punto di vista. Puoi indossare quello che ti pare. Sembra rivoluzionario. Sembra inconcepibile. Eppure è così vero. Semplice, perfino. Definitivo.
Ma sulle donne il tabù del grasso e lo stigma conseguente è quello che scava più profondamente nei meandri interiori che reclamano la necessità di essere desiderabili. E grasso, in Europa, in Nord America e in parte dell’Occidente (non tutto) è sinonimo di non desiderabilità. Non reale, ma sociale. Non ammissibilità. Eccesso.
Cosa poi seduce e si cerca, è altra cosa.