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194 - diciannove modi per dirlo
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194 - diciannove modi per dirlo
E-book119 pagine1 ora

194 - diciannove modi per dirlo

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Info su questo ebook

Cosa si nasconde dietro la scelta di non diventare madri? Quali parole possono arricchire di sfumature e dare nuovi significati all’esperienza dell’aborto? Nella consapevolezza che intorno a questo tema ci sia ancora un grosso tabù, alimentato anche da un sistema sanitario che spesso colpevolizza la scelta di autodeterminazione della donna, l’autrice ha deciso di andare a raccogliere le voci di chi decide di interrompere volontariamente una gravidanza. Perché, come diceva Karen Blixen, “tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi”.
Diciannove storie, diciannove testimonianze, per cercare di comprendere la complessità di una scelta che non è mai senza ambivalenza; per dare voce finalmente alle donne, astenendosi dal giudizio ma con il semplice obiettivo di lasciare che le loro parole si alzino dal silenzio.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2018
ISBN9788861557734
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    194 - diciannove modi per dirlo - Camilla Endrici

    Camilla Endrici

    194

    diciannove modi per dirlo

    Collana: Riflessi del presente

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

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    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-773-4

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A mia madre, che ha detto sì.

    Non ti voltare finché le parole

    non siano assolute come ossa

    Laura Liberale

    CATERINA

    Lei ha trentaquattro anni, trentacinque quest’anno. Lo sa, vero, che è biologicamente vecchia? La fertilità dopo i trentacinque anni precipita. Non sa quante coppie ho visto venire a chiedere un’interruzione di gravidanza e poi tornare, un anno dopo, perché non riuscivano ad avere un figlio, a supplicarmi perché le aiutassi.

    La dottoressa alza gli occhi dalla cartella clinica di Caterina e la guarda in faccia. Forse, ora che la vede, i precoci capelli bianchi sulle tempie e il viso sfatto di notti insonni, sarà ancora più convinta di quello che ha appena detto.

    È la prima volta che Caterina la incontra, è appena entrata nel suo studio nel consultorio della città in cui vive. Vede, Caterina, ma non si sente vista: prima ancora di guardarla negli occhi, di chiederle qualsiasi cosa, prima ancora di un sorriso, la dottoressa ha letto la sua data di nascita sui documenti che ha in mano; questo il suo benvenuto.

    Il cellulare squilla e lei risponde, è il tecnico della caldaia che si è rotta a casa sua. Lei gli dice: Vada pure a casa, c’è mia figlia. Dunque, la dottoressa è madre, pensa Caterina in un sussulto. È donna, è madre. Nonostante questo, o forse proprio per questo, tutto il loro dialogo, che sembra più un monologo sul silenzio dello sgomento, verte intorno alla sua età. E al rimpianto.

    Rimpianto è la prima parola che entra a far parte del piccolo vocabolario sull’aborto che ho deciso di costruire, dopo che questa storia mi è stata raccontata da lei, la mia più cara amica. Ci siamo accorte, insieme, che le parole per dire l’aborto sono ancora troppo poche, o troppo riduttive, o troppo usurate dalla disattenzione. È lì, nella scarsità delle parole, nelle semplificazioni povere di sfumature, che si insinua un grande, duplice pericolo: che si perda un occhio vigile e attento su un argomento che riguarda (dati statistici alla mano) il 25% delle donne almeno una volta nella vita; e che il silenzio, la mancanza delle parole per dirlo, generi ancora più sofferenza in chi fa questa scelta.

    Si spogli e si metta sul lettino.

    Ha la vescica piena, la svuoti.

    È alla sesta settimana.

    Con lo stesso identico tono, la ginecologa ordina a Caterina cosa fare e le dà informazioni sul suo stato. Interessante, lo chiamano.

    Sconvolgente, vorrebbe chiamarlo lei.

    La dottoressa traffica con il suo corpo, ogni tanto interagisce col suo cervello, ma il suo sentire (ammesso che abbia un luogo, il cuore?) non è invitato a questo inatteso appuntamento.

    Caterina in quel momento si sente cattiva; ha la sensazione che il maneggiare freddo della dottoressa sia figlio di un pregiudizio che lei sente ogni giorno appiccicarsi sulla pelle come una tela umida: se sei così senza cuore da scegliere di abortire, sei certo una che non ha sentimenti da accogliere o da confortare.

    E la cosa tristemente buffa, pensa lei, è che questo pregiudizio non riguarda solo i medici obiettori: la donna che la sta visitando, biologicamente vecchissima a questo punto, si dichiara non obiettrice.

    Forse obiettare non significa solo rifiutarsi di fare. Si può obiettare con le parole, con i silenzi, costringendo chi ti sta di fronte alla solitudine e alla paura, dico a Caterina quando giorni dopo mi racconta di quel primo incontro.

    La visita ginecologica si conclude con una descrizione dettagliata di tutte le possibili complicanze operatorie, un appuntamento a tre settimane di distanza per l’intervento e un’acida battuta finale: Beh, comunque io una figlia ce l’ho già. Voi fate quello che volete, certo un figlio non ve lo cresco io.

    Sarcasmo: non la mettiamo, questa parola, nel nostro inventario. Non serve, non è necessaria, punge senza guarire.

    La luce tagliente dell’inverno che si scioglie in primavera accoglie Caterina e Filippo appena escono dal consultorio. Piange lei, zitto lui, camminano lenti sotto gli alberi nudi che affiancano il fiume, indifesi come loro. Cosa pensa Caterina in quei momenti? Avrei solo voluto sedermi su una panchina e lasciare che il tempo scivolasse via, come l’acqua. Passasse. Ma questa volta non era possibile; il tempo incalzava, e bisogna fare.

    Finalmente a casa, è Nino a venirle incontro col suo scodinzolare festoso; Caterina si siede a terra e lascia che sia lui, anche oggi, ad asciugarle le lacrime.

    Cosa c’è dentro quelle lacrime? Rabbia, delusione, solitudine. Lacrime che ci sarebbero comunque, per la brutalità di una scelta che non sarà mai senza ambivalenza, ma che si moltiplicano con il senso di vergogna e di inadeguatezza che le parole della ginecologa hanno alimentato. Rabbia, delusione, solitudine, vergogna, inadeguatezza: abbiamo appena iniziato ed eccolo qui, un altro piccolo gruzzolo di parole.

    Ma se la dottoressa si fosse rivolta a te in un altro modo, sarebbe cambiato qualcosa?, chiedo a bruciapelo a Caterina. La conosco, so che le domande senza troppi preamboli sono pane per i suoi denti.

    Non lo so, perché non è successo. Una parte di queste emozioni credo che sia normale, ed è anche giusto che ciascuna se le viva, come può e sa. Ma ho l’impressione che ci sia un surplus di colpa creato dalle parole sbagliate.

    O dalle parole non dette, aggiungo io, che intravedo la mia idea prendere forma: dare parola alle protagoniste. Smettere di lasciare che una cosa così intima sia raccontata da altri. Io voglio ascoltare le donne, permettere loro di raccontarsi.

    Rannicchiata sul divano, Caterina piange, mentre lui la guarda svuotato e inerme.

    In quel momento lei si accorge che oltre al silenzio che le è seduto accanto c’è anche una cultura che propone un modello di donna e madre rispetto al quale si sente del tutto inadeguata. È un’idea di femminile che suggerisce che la donna si realizzi al meglio nel suo essere madre. Madre, ma anche donna in carriera, moglie premurosa, e possibilmente felice.

    E poi non solo madre, anche madre figa!, sbotta Caterina quando mi racconta di quel momento, sul suo divano rosso, mentre in un attimo trasforma il pianto in rabbia e la rabbia in pianto, come solo lei sa fare. Sì, perché adesso devi fare il corso per portare il bebè in fascia, il corso per massaggiare tuo figlio, e poi magari appena cammina farci yoga insieme che chissà come cresce equilibrato… Ma?! Ma se io non mi sento nemmeno in grado di svolgere le funzioni base dell’essere madre, come cazzo posso confrontarmi con ’sta roba qui?

    E mentre le paure si gonfiano come spugne, lui si assottiglia. Che poi questo assottigliarsi, appena intuito, poi sempre più palpabile, è anche una delle ragioni della scelta di Caterina. Ma alla fine, interessano o servono davvero a qualcuno le ragioni di una scelta? Certo se la ginecologa le avesse chiesto qualcosa di questo, lei ne sarebbe stata felice. Si sarebbe sentita persona, al di là di un corpo sulla via dell’invecchiamento; una persona che ha paura.

    Paura, paura, paura. Lo scrivo tre volte quando Caterina me lo dice; non bisogna avere paura, sembra essere il sottotesto di questo imperativo alla maternità.

    8 marzo.

    Le hanno dato appuntamento l’8 marzo, per l’IVG. Una data simbolica per tutte le donne, ma con un significato ancora più forte per Caterina, che quando se lo sente comunicare dalla dottoressa scoppia a piangere.

    Perché piange, adesso?, sbuffa la ginecologa.

    Caterina è stata concepita l’8 marzo. Le sembra una coincidenza crudele interrompere quella che potrebbe diventare una vita nel giorno stesso in cui a lei è stata data l’opportunità di esistere, semplicemente.

    Ecco pensa Caterina, se io non sono felice, se io ho paura, se io sento questo uomo sgretolarsi; se tutte queste cose, forse portare avanti la gravidanza non è la scelta giusta.

    Il dolore rimbomba. Il senso di inadeguatezza cresce mentre si confronta con il coraggio che sua madre e le donne prima di lei hanno avuto, altrimenti ora non sarebbe qui a struggersi tra quello che le sembra allo stesso tempo un privilegio e una condanna.

    Discorsi, parole, pensieri, tutto dentro; perché fuori non puoi dirlo. Non ai medici, evidentemente. Non a tutti gli amici, perché c’è sempre un senso di pudore, di vergogna nel farlo. Come reagirà? Cosa dirà? Di fronte

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