A due passi dalla meta: Come uscire dalla sedentarietà, mantenersi in forma e nutrire la propria creatività
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E se il vero obiettivo di una vita fosse non sentirsi mai arrivati alla meta per continuare a praticare la necessaria curiosità, che ci apre al mondo e alla creatività, e ci porta a raggiungere piccoli traguardi che determinano il nostro benessere?
Francesca ha perso 40 chili ed è uscita dall’obesità grazie a una rivoluzione personale che l’ha condotta a quella che lei stessa definisce una “muta”, ma proprio quando è iniziata la fase di mantenimento del suo risultato, ha capito che l’unica chiave per potere gestire la propria quotidianità era quella di mettere in pratica tutto quello che aveva imparato grazie al suo percorso e abbandonare la logica dell’obiettivo, per sostituirla a quella del benessere.
Ha scoperto così che il corpo e la mente devono lavorare insieme e che l’efficacia dipende in larga parte dalla nostra volontà di uscire dalla sedentarietà fisica e mentale cui ci costringiamo. L’unica strada possibile per lei era quella di continuare ad ascoltare i propri muscoli, con un allenamento moderato ma costante al movimento e lavorare, anche grazie alla scrittura autobiografica, sulle parole con cui ci si racconta.
Il libro narra la storia autobiografica della sua autrice ma coglie spunti importanti dalla bioenergetica e dagli studi sulla narrazione, è una riflessione sul valore della ricerca di una dimensione che ci assomigli e ci porti a sfidare i nostri limiti senza dovere sempre raggiungere risultati eclatanti. Il movimento del corpo e movimento della mente sono i protagonisti di questa storia.
Un libro sul significato di “mantenimento” inteso non come sfida ma come approccio sinergico all’esistenza, qualcosa cui possiamo tendere tutti anche senza diventare campioni sportivi, scrittori o imprenditori di successo ma che ci aiuta a stimolare la giusta dose di creatività per realizzarci come persone.
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Anteprima del libro
A due passi dalla meta - Francesca Sanzo
Francesca Sanzo
A due passi
dalla meta
Come uscire dalla sedentarietà,
mantenersi in forma e nutrire la propria creatività
Collana: Riflessi del presente n.15
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
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ISBN 978-88-6155-423-8
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2016
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
A mia figlia Silvia,
perché rimanga sempre
a due passi dalla meta
e di questo sia felice.
Le storie personali hanno un senso per gli altri quando diventano paradigmi e parabole. L’intensità di una storia si libera in uno spazio più grande di quello che occupava in quel tempo e in quel luogo. La storia varca la soglia che collega il mio mondo al vostro. Ci incontriamo sui gradini della storia.
Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale?
(…) e poi nel grande viaggio si fanno dei viaggi, sono i nostri piccoli percorsi insignificanti sulla crosta di questo pianeta che a sua volta viaggia, ma verso dove? È tutto un rebus, le sembrerò maniaco.
Antonio Tabucchi, Rebus
, Piccoli equivoci senza importanza
Introduzione
Ero una persona sedentaria nel corpo che negli anni aveva accumulato peso e a causa della sua obesità aveva smesso di muoversi, peggiorando ulteriormente la situazione.
Ero una persona sedentaria nella mente, che per le sue paure aveva deciso di ancorarsi alla propria zona di comfort. Non mi mettevo alla prova e mi raccontavo come fallita
, non capace
, non adatta
e fuori tempo massimo per cambiare.
Un giorno ho capito che potevo scegliere e ho scelto di sopravvivere: sono dimagrita 40 kg, ho ritrovato il movimento e ho usato la scrittura per cambiare la narrazione che facevo di me. Le cose straordinarie che ho imparato da quella che ho chiamato muta
le ho messe in pratica anche nella fase di mantenimento del peso e per vivere nell’equilibrismo costante della vita quotidiana. Ecco come ho scoperto che uscire dalla sedentarietà e ritrovare il mio corpo è stato l’interruttore per attivare creatività, rendermi più efficace, energica e assertiva, sia nella vita privata che sul lavoro.
Ecco come ho scoperto che la sedentarietà può uccidere le idee, mentre una moderata attività fisica regolare può attivare pensieri generativi e cambiare la prospettiva con cui ci riveliamo a noi stessi e al mondo.
Ecco come ho scoperto che dopo un grande cambiamento bisogna consolidare le fondamenta per dare significato a quello che si è fatto e non vanificarlo.
Oggi io cerco di gestire la mia tossicità, le paure e il senso di inadeguatezza grazie allo sport, alla scrittura e a una ritrovata armonia tra il corpo e la mente: so che non esiste l’equilibrio ma solo la speranza di rimanere in bilico su un filo teso, senza schiantarsi a terra.
In tanti hanno pensato che perdere 40 kg, scrivere libri e ritrovare il proprio benessere sia stato il mio lieto fine ma io preferisco essere sempre a due passi dalla meta perché credo nel movimento, non nei punti d’arrivo, anche se lieti. Per questo riesco ad affrontare le sfide quotidiane con una giusta dose di energia, coraggio e incoscienza. Quello che ho imparato correndo lo metto in pratica ogni giorno e quello che mi ha insegnato fare la muta e affrontare il cambiamento è la mappa con cui leggo il territorio.
Ho scritto questo libro per chi si è costretto alla sedentarietà del corpo e della mente come avevo fatto io, per testimoniare la possibilità di cambiare il proprio stile di vita e trovare la fonte creativa per realizzarsi.
Ho scritto questo libro per quelli che pensano sia troppo tardi per prendere in mano il proprio destino, considerandolo già segnato: ho imparato che non esiste nulla di segnato, se non da noi.
Ho scritto questo libro perché penso che ci sia bisogno di tante piccole storie comuni, com’è la mia, per credere nella capacità di potere cambiare.
Ho scritto questo libro perché nell’immobilità non può esserci la vita e quello che ti offre il tuo divano è infinitamente meno interessante di quello che potrai trovare infilando un paio di scarpe e uscendo nel mondo, credimi!
Non sono una psicologa né una terapista, non mi occupo di alimentazione: questo libro non ha la pretesa di essere un manuale ma ci assomiglia un po’ perché è frutto dell’esperienza che ho fatto su di me, ecco perché ho voluto mettere nero su bianco oltre che le scoperte anche le strategie e gli esercizi che ho fatto per agevolare il mio cambiamento.
In questo libro, molto semplicemente, racconto come uscire dalla sedentarietà a quarant’anni anni sia stato il più bel regalo che mi sia mai fatta: per il corpo, per la mente e per l’anima.
I
MENTE, CORPO,
CAMBIAMENTO
Se voi siete il vostro corpo e il vostro corpo è voi, allora il corpo esprime chi voi siete.
È il vostro modo di essere nel mondo. Più il vostro corpo è vivo, più siete nel mondo.
Bioenergetica, Alexander Lowen
1
Quando una dieta diventa occasione
di cambiamento e muta
Nel 2013 ho iniziato un percorso per uscire dall’obesità e nel 2014 ho raggiunto il peso adeguato al mio corpo, passando da 102 a 60 kg per 1 m e 68 cm.
Quando ho deciso che era giunto il momento di cambiare e ho iniziato a farlo, non mi sono subito resa conto di quello che mi stava capitando: pensavo di fare una dieta, come le tante che avevo sperimentato durante la mia vita a yo-yo, in continua oscillazione tra sovrappeso e obesità. Mi è bastato poco invece per accorgermi che avevo messo in moto un meccanismo radicale di trasformazione e che da quel progetto di muta ne sarebbero usciti cambiati sia il corpo che la mente.
Fin da subito mi è parso chiaro di avere un nuovo approccio al cambiamento: innanzitutto mi ero convinta a rivolgermi a un nutrizionista nel momento preciso in cui avevo accettato, profondamente, di essere obesa.
Per anni – durante la mia vita di donna oversize – mi ero condannata ad abiti informi e a un look dimesso per evitare, il più possibile, di essere notata fisicamente. Mi sentivo sempre a disagio, sicura che gli altri avrebbero vissuto con fastidio le mie forme. Se partecipavo a un convegno o a un corso, cercavo sempre di arrivare prima per avere l’opportunità di allargare lo spazio tra una sedia e l’altra e non sentirmi un impaccio.
Non facevo sport da moltissimo tempo e non solo per la fatica che mi avrebbe procurato il movimento, ma anche perché mi vergognavo a mostrarmi in pubblico. Un paio di anni prima della muta, incoraggiata da una vicina di casa, mi ero iscritta in palestra e per un po’ avevo frequentato qualche corso ma non avevo mai avuto la forza di entrare in sala attrezzi. Sceglievo corsi soft
, in orari tattici, durante i quali avrei potuto evitare di incontrare coetanei e potenziali conoscenti. Mi mimetizzavo tra le altre persone e ogni volta che l’istruttore concentrava l’attenzione su di me e sentivo gli occhi di tutti puntati addosso, il mio cuore cominciava a battere all’impazzata, le guance avvampavano e giuravo a me stessa che non avrei mai più messo piede in un posto dove la maggior parte delle donne indossava leggins che io avrei potuto usare come manicotti.
Fingevo di vivere il mio peso e le situazioni che mi facevano sentire a disagio con ironia, ma in realtà quando varcavo la soglia della palestra mi sembrava di andare verso il patibolo.
Puoi immaginare quanta ansia mi mettesse fare shopping: se avevo bisogno di un abito, consideravo la cosa come un male necessario, uscivo da sola, cercavo di risolvere il tutto il prima possibile e sceglievo grandi magazzini molto affollati per il terrore che una commessa si accorgesse di me e pungolasse il mio senso di inadeguatezza fisica. Odiavo le commesse, lo raccontavo sempre a tutti, odiavo i loro sorrisi e il modo sarcastico con cui mi dicevano che quella marca non prevedeva taglie forti.
Ci sarebbe voluta una dose di coraggio che in quel momento non avevo per ammettere che in realtà odiavo me stessa e quello che mi ero lasciata diventare. Provavo rabbia e un diffuso senso di ingiustizia, ero convinta che nessuna delle persone che avevo intorno, la maggior parte normopeso, potesse comprendere come mi sentivo. Dato che non volevo provare rabbia – un sentimento che conosco molto bene ma che mi metteva profondamente a disagio –, evitavo situazioni di stress e imparavo a convivere con il fatto che odiavo il mio corpo: mascheravo quella sensazione che si faceva largo, la dipingevo con parole diverse e mi ero allenata a ridere per le battute di chi, con superficialità, scherzava sul mio stato. Essere la donna tanta
piena di vita e allegria era una maschera comoda, mi consentiva di tenere alto il muro e di non dovermi mettere in discussione. Eppure il mio corpo lo consideravo un inutile fardello da trascinarmi dietro e mi chiedevo insistentemente perché tutti gli dessero tanta importanza: in fondo io ero molto più di quello che era evidente, non potevo permettere agli altri di giudicarmi per il mio aspetto fisico e per il mio peso, se a qualcuno importava del fatto che io fossi obesa, il problema era unicamente suo.
Invece tutto succedeva dentro di me, i vincoli più pesanti erano qualcosa che avevo costruito da sola e non dipendevano dal mio peso o dallo sguardo degli altri, ma dal modo in cui io trasformavo in un limite tutto questo. Me ne sono resa conto nel corso dei primi mesi in cui – senza saperlo – avevo iniziato una muta che mi avrebbe condotto a diventare la persona che sono oggi, in un rapporto di armonia ed equilibrio tra corpo, mente e anima.
Ero io che sentivo gli occhi puntati addosso in palestra.
Ero io che evitavo di salire su un treno per non dare fastidio al mio vicino, allargandomi troppo sul sedile.
Ero ancora io che sentivo il mio corpo così distante da me da trattarlo con noncuranza.
Ero io che mi raccontavo di essere una fallita e che una cicciona
rimarrà per sempre una cicciona
. Non mi piaceva quando altri mi chiamavano così né avrei mai chiamato nessuno in quel modo, eppure con quella parola, connotata, dispregiativa, carica di tutti gli stereotipi intorno all’obesità, io rappresentavo me stessa e anche se facevo finta di usarla ironicamente, ero la prima a scagliarla come un sasso contro il mio disagio.
Mi nascondevo dietro al Non me ne importa
e al Non sono queste le cose che contano, nella vita
. Mi sforzavo di credere di potere essere tutto quello che volevo malgrado il peso, ma mi sabotavo continuamente e non agivo mai per realizzare quello che volevo, mettendo sempre qualche paletto tra me e i miei progetti. Il peso era la più grande giustificazione a rimanere immobile e – poiché ero governata dalla paura e dalla rabbia – l’immobilità mi sembrava probabilmente la situazione più confortevole cui ambire. Non sono ingrassata consapevole di usare il mio status come scusa per non agire, ma quando la muta è arrivata e ho cominciato a sentire che tutti quei chili non mi servivano più, sono venuti a galla i motivi per cui avevo lasciato che la fame disfunzionale prendesse il sopravvento.
Avevo fame di coraggio per superare la paura di non essere all’altezza della vita. Avevo fame di normalità, ma non mi sentivo adeguata e avevo fame di amore, ma credevo di non meritarne. Avevo fame di conoscenza, ma mi sentivo troppo stupida, avevo fame di perdono, ma ero troppo arrabbiata. La fame mi spingeva a mangiare qualsiasi cosa perché volevo ingoiare la bontà del mondo e farla mia, perché sentivo di non avere abbastanza bontà da distribuire nel mondo. Volevo ingoiare tutto ciò che mi aveva fatto soffrire, per digerirlo, cacarlo via, espellerlo da me per sempre, ma anche se mangiavo una teglia di lasagne a pranzo e gli spaghetti alla carbonara a cena, la sofferenza non si placava. Mai. La sofferenza e la rabbia rimanevano attaccate ai miei fianchi, facevano crescere la cellulite alla mia mente e ingolfavano la mia anima: eppure quel senso di appagata spossatezza dopo una mangiata colossale mi addormentava un po’, mi faceva sentire larga, sicura e protetta e mi confortava fino al pranzo successivo.
Più mangiavo, più cresceva il mio peso, più mi sentivo intorpidita nel corpo e nella sofferenza.
Più ingrassavo, più mi sentivo a disagio con me stessa e vincolata da una situazione oggettiva che non mi permetteva di fare moltissime cose.
Più cose non riuscivo a fare, più mi sembrava di essere prematuramente invecchiata, con i problemi alla vescica degli anziani causati dal mio addome troppo pesante, con lo scarso desiderio sessuale, con l’affanno nel fare le scale.
Più mi sentivo una vecchia nel corpo di una