Luna Nuova: Gothic Horror Story
Di Maikel Maryn
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Info su questo ebook
Una giovane attende alla finestra l'arrivo di un ospite misterioso. Un ricco mercante alla ricerca di piaceri più che proibiti. Una coppia di amanti si incontra per consumare il proprio amore clandestino.
Tra ponti e canali queste figure si muovono in una notte senza luna per scoprire che per avere ciò che si desidera c'è sempre un prezzo da pagare...
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Anteprima del libro
Luna Nuova - Maikel Maryn
Prologo
notturno veneziano
La notte si riversava attraverso la finestra spalancata, come il mare nella laguna.
La città giaceva immobile, un cadavere di fredde pietre spogliato delle vesti nuziali e avvolto in un viscido sudario. Funebri paramenti di nubi drappeggiavano il cielo nascondendo le stelle. La luna celava il volto in un lutto d’ombra.
Buio.
Una gondola solitaria beccheggiava sul Canal Grande. Volute di nebbia serpeggiavano tra i denti del dolfin avvitandosi sulla sua sommità come piume sul cappello del Doge. In piedi, rivolto verso la prua, Giovanni Barbon manovrava il remo poggiato sulla forcola con la pigra precisione dei chirurghi e dei torturatori. Nella sua mente l’eco della voce di suo padre mentre gli insegnava la voga. Premi. Il remo infieriva di piatto, spingendo avanti l’imbarcazione. Staissi. Poi di taglio, incidendo le acque, scure come olio di lampada. Ara che i gransi te magna el remo! Per ricordargli di tenersi poco sotto il pelo dell’acqua.
Avvolto in un pesante tabarro per difendersi dall’umidità Cleonte Visentin se ne stava stravaccato sui divanetti imbottiti. Commerciante di bestiame e spezie nella terra ferma, era tutt’altro che un patrizio veneziano ma aveva la pingue consapevolezza di essersi guadagnato l’unica vera nobiltà che contasse nella Serenissima, come in tutto il resto del mondo: quella che tintinnava nella sua scarsella gonfia. Oro che era ansioso di spendere una volta raggiunto San Cassiano e i suoi bordelli, per riempirsi di vino forte e svuotare i propri lombi.
Fin dall’imbrunire il Ghetto Novo era immerso nella rituale quiete dettata dallo Shabat. Passi nervosi ne turbavano il silenzio. Una figura incappucciata raggiunse uno dei due cancelli che univano l’isola al resto della città. Come ogni notte erano sbarrati e sorvegliati, perché ai giudei era concesso di uscire solo di giorno, con l’unica eccezione dei medici a cui era consentito recarsi dai pazienti più gravi anche nelle ore notturne. Poche monete bastarono a sancire una deroga più rapidamente di quanto la penna di qualunque magistrato avrebbe potuto. L’inferriata si schiuse e Avraham si precipitò lungo le calli del sestiere di Cannaregio. Tutti i cani da guardia servono due padroni, pensò, il dovere e il profitto, ma sono sordi al primo quanto lesti ad obbedire al secondo. Se il noto prestatore ashkenazita, Menachem Ottolenghi, avesse saputo come e perché il suo secondogenito sperperava i suoi denari l’avrebbe preso a cinghiate fino all’arrivo del messia del popolo eletto, ma Avraham era cane d’altro tipo, mosso da un solo impulso: la passione.
Nonostante la nebbia, riconobbe la sagoma di Miranda e accelerò il passo raggiungendola, specchiando il proprio sorriso trepidante in quello di lei. Le cinse i fianchi e la condusse lungo calli minori, sussurrandole all’orecchio dolcezze e oscenità mentre la giovane locandiera cercava di reprimere delle timide risatine. Arrivati ad una corte interna si appartarono in un androne e gli abbracci si fecero carezze frenetiche, i sussurri divennero baci sempre più esigenti fino a che i due amanti non si unirono in un amplesso consumato tra le ombre. Al piacere seguirono promesse di una amore inviso a Cristo e a Mosè.
Oltre la finestra il solo rumore era lo sciabordio dell’acqua che si incuneava tra Spinalonga e San Giorgio. Le botteghe dei conciatori avevano chiuso da tempo, le pelli appese al sicuro al loro interno su lunghe aste di legno, gli scarti sversati a intorbidire le acque circostanti impregnando l’aria dell’odore di cuoio lavorato. Un barchino si spingeva nel buio. L’uomo che lo guidava era arrivato a Venezia su una nave ottomana per essere venduto come una bestia; aveva perso il nome della sua famiglia quando era stato comprato e aveva ceduto quello da uomo quando era fuggito. Normalmente Lo Sçiavo, come l’aveva ribattezzato un vecchio marinaio triestino mezzo matto, non avrebbe mai condotto la sua barca così vicino alla città: contrabbandare sale e spezie sotto il naso della Serenissima era un affare rischioso. I veneziani erano gente strana, non pagargli un dazio era molto peggio che chiavargli la moglie e tutte le figlie, ma in una notte come quella era preferibile il rischio della galera a quello di incagliarsi in qualche secca e ritrovarsi a testa di sotto nell’acqua gelida.
Poco più a sud, a metà tra La Grazia e San Sèrvolo, affiorava dall’acqua l’isolotto detto Il Sasso. A dominarlo un solo imponente edificio. Come ogni notte oltre settecento candelabri accendevano le sfumature dei vetri colorati delle alte finestre e dei balconi. I piani della grande casa patrizia sembravano bruciare dall’interno, tutti tranne l’ultimo.
Pur celato dall’oscurità e dalla foschia quel bagliore era una consapevolezza per ogni veneziano. Anche nelle tenebre Ca’