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A un passo dalla fine
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E-book292 pagine4 ore

A un passo dalla fine

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Info su questo ebook

“Carlin concentra la sua narrazione sui momenti più violenti e drammatici della storia dell’umanità, arricchendoli di quegli affascinanti aneddoti che sono sempre stati esclusi dalle lezioni di storia scolastiche.”
Time

Tempi difficili rendono la gente più coriacea? Siamo in grado di gestire la potenza delle nostre armi senza annientarci a vicenda? Le capacità dell’uomo, le conoscenze, la tecnologia, possono regredire? Ma soprattutto, perché dall’alba dei tempi sembra che morte e distruzione siano perennemente in agguato dietro l’angolo?

Nessuno conosce la risposta a queste domande, ma di certo nessuno le pone in modo più affascinante di Dan Carlin. L’ideatore del popolarissimo e pluripremiato podcast Hardcore History guarda ai momenti apocalittici del passato come a un modo per inquadrare le sfide del futuro.
Coniugando aneddoti, fatti storici e curiosità con uno stile appassionante degno di un thriller e un approccio insolito e originale, l’autore analizza i momenti critici in cui l’umanità ha rischiato di essere spazzata via dal pianeta, dalle grandi pandemie alla guerra nucleare, e ci stimola a riflettere sul futuro partendo da una semplice domanda: possiamo imparare dagli errori dei nostri progenitori, o il mondo che conosciamo oggi è destinato a diventare materia di studio e di scavi per gli archeologi del futuro? Una domanda che è filosofica, ma al tempo stesso sembra uscita da un film di fantascienza.
Stravagante ma erudito, anticonformista e tuttavia profondo, A un passo dalla fine esplora tematiche che raramente vengono presentate al grande pubblico e sottolinea come il passato sia la chiave di lettura per comprendere il nostro turbolento presente. E ci costringe a riflettere su un tema importante che, dal collasso dell’Età del Bronzo fino alle moderne sfide dell’era nucleare, è sospeso sull’umanità come un’eterna spada di Damocle: la sopravvivenza del genere umano.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9788830519824
A un passo dalla fine
Autore

Dan Carlin

Dan Carlin è un pioniere dei podcast e il re dei contenuti audio in forma estesa. Nelle puntate del suo Hardcore History, che a volte durano anche più di sei ore, Carlin umanizza il passato e costringe il pubblico a “camminare per un miglio, storicamente parlando, con le scarpe di un altro”. Hardcore History è stato scaricato più di cento milioni di volte.

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    Anteprima del libro

    A un passo dalla fine - Dan Carlin

    FINE

    1

    TEMPI DIFFICILI RENDONO

    LA GENTE PIÙ CORIACEA?

    Da quando si è cominciato a scrivere la storia, alcuni autori hanno suggerito l’idea che tempi difficili rendono in qualche modo la gente migliore e più coriacea. Superare gli ostacoli – la guerra, le privazioni e altri generi di sofferenze – forgia, a loro giudizio, un’umanità più forte, più resiliente, forse addirittura più virtuosa.

    La storia è piena del rumore di pantofole di seta che scendono le scale e di zoccoli di legno che le salgono pare che abbia detto Voltaire. Si riferiva al fatto che le società, le nazioni, le civiltà, si affermano e crollano in base al carattere della popolazione, e questo carattere è in larga misura influenzato dalle sue condizioni materiali e morali. È una teoria che ha dominato la storiografia dai tempi dell’antica Grecia e che ha iniziato a perdere popolarità solo dopo la metà del XX secolo.¹

    La contrapposizione zoccoli di legno/pantofole di seta è stata in gran parte rigettata dagli storici contemporanei, e per molte buone ragioni, prima fra tutte la mancanza di dati. È difficile dimostrare o quantificare una qualità astratta come la resilienza² e giustificare la sua presenza in un libro di storia, tutto concentrato sui fatti e destinato a essere giudicato da altri storici. Ma questo non significa che non abbia avuto alcun impatto.

    Proviamo a fare un piccolo esercizio mentale: immaginiamo due pugili che salgono insieme sul ring. Hanno la stessa altezza, lo stesso peso e le stesse doti. Hanno la stessa preparazione e lo stesso allenatore. Eppure uno dei due vince. Qual è il fattore che, con maggiori probabilità, ha determinato il vincitore? È forse quella cosa così difficile da quantificare che definiamo resilienza? È arduo dire che un pugile ha vinto solo perché era più resiliente. Tanto per cominciare, perché tendiamo a dare per scontato che la resilienza sia una qualità? Quello di resilienza è un concetto vago in cui crediamo tutti – e resiliente è un aggettivo entrato nel nostro registro quotidiano – ma è un termine relativo che può cambiare a seconda delle persone e delle culture.³

    Ora, mettiamo sul ring due mondi che si affrontano in un contesto ben più grande. Immaginiamo, per esempio, che oggi gli Stati Uniti d’America dichiarino guerra a un altro paese che ha la stessa estensione geografica, lo stesso numero di abitanti, la stessa forza economica, la stessa potenza militare, le stesse armi e la stessa tecnologia. Sarà, fatalmente, una guerra brutale, condotta fino alla resa incondizionata, con intere città in rovina su entrambi i fronti. L’unica differenza tra i due contendenti sta nel fatto che il popolo a cui gli americani hanno dichiarato guerra è composto dai loro nonni.

    Molti dei nati fra il 1900 e il 1930 sono ormai morti, ma facevano tutti parte di quella che è stata definita la Greatest Generation⁴ – anche se ci sono state molte epoche difficili nella storia e indicare una generazione come la più grande mi sembra azzardato. Ciò detto, rimane il fatto che erano gente tosta e resiliente. E c’è un motivo. Già prima di combattere nella Seconda guerra mondiale avevano vissuto più di un decennio di grande sofferenza economica – la peggiore della storia moderna.

    Andrew Mellon, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il crollo di Wall Street nel 1929, pensava che la crisi sarebbe stata un bene. «Ripulirà dal marcio il sistema» disse, come riporta nelle sue memorie il presidente di allora, Herbert Hoover. «Il costo della vita si abbasserà. La gente lavorerà più sodo, vivrà in modo più consono alla morale. Verranno ripristinati i valori, e chi ha spirito imprenditoriale ricostruirà sullo sfacelo lasciato da un branco di incompetenti.»

    In quest’ottica, forse Mellow ha visto realizzato il suo desiderio. La Grande depressione mise fine ai ruggenti anni Venti, un’epoca passata alla storia come sinonimo di bella vita, spaccio illegale di alcolici, spregiudicatezza, jazz, charleston e avvento del cinema. Ciò che per Mellow era solo superflua frivolezza per altri era semplice divertimento. E tutto diventò meno divertente quando cominciarono a scarseggiare i soldi.

    In ogni caso il crollo non travolse tutti, ma circa metà della popolazione si trovò all’improvviso sotto la soglia di povertà. Fu un decennio molto difficile. Le descrizioni di quel periodo sono strazianti, tanto da rendere difficile immaginare che potesse scaturirne qualcosa di buono. Di sicuro oggi nessuno deciderebbe di affrontare un periodo di sofferenza economica come la Grande depressione pensando che possano esserci degli effetti collaterali positivi.

    Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale un’intera generazione aveva già patito pesanti privazioni e, come se non bastasse, le toccò affrontare la guerra peggiore della storia. Una guerra terribile, del tutto diversa dai conflitti del XXI secolo.

    Oggi una grande potenza subisce al massimo una dozzina di vittime in un singolo incidente – magari dovuto al guasto meccanico di un elicottero, o all’esplosione di un ordigno improvvisato.

    Paragoniamo tutto questo alle centinaia di migliaia di perdite subite dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale – a Iwo Jima, per esempio, nei trentasei giorni di combattimenti caddero circa settemila soldati americani, su un totale di almeno ventiseimila morti. E parliamo solo degli americani. Pensate ai milioni di vittime subite dalla Germania, o alle decine di milioni subite dalla Cina e dalla Russia. Sarebbe interessante vedere come reagiremmo oggi a numeri di questa portata.

    Il problema non sta solo nei danni subiti, ma anche nel fatto che bisogna infliggerne. Sembra logico ma, come disse il generale George Patton, non è incassando che si sconfigge il nemico.⁵ Pensate ai bombardamenti effettuati dagli americani – migliaia di aerei carichi di bombe in volo verso città dove migliaia di persone sarebbero potute morire in una sola notte. O pensate di trovarvi a Londra durante il Blitz, con i bombardieri tedeschi che per più di otto mesi sganciano ogni notte il loro carico di morte sulla città. La Greatest Generation sapeva di essere protetta da un solido scudo di aeroplani, e furono loro a ordinare di aprire il vano bombe.

    Per non parlare dell’arma definitiva, la bomba atomica. È scritto nella storia che i nostri nonni l’hanno usata.⁶ Si può, oggi, immaginare uno scenario in cui i cittadini (non i governi) siano favorevoli a un’azione del genere?

    La nostra civiltà sembra quasi troppo evoluta per accettare qualcosa di così barbaro. Ma non abbiamo vissuto nulla di paragonabile a ciò che ha vissuto la generazione della guerra. Supponendo che si possa misurare la resilienza di una generazione su una scala da uno a dieci, forse la Greatest Generation si meriterebbe un sette; se mettessimo dieci nati fra il 1900 e il 1930 in una stanza, forse sette di loro sarebbero classificabili come resilienti. Anche nella Generazione X ci sono dei resilienti – alcuni si sono arruolati nei Navy Seals, altri hanno attraversato l’Antartide a piedi – ma forse solo due su dieci sono sufficientemente resilienti da fare questo genere di cose. Quindi, più che di un diverso grado di resilienza fra i singoli, si deve parlare di una più alta percentuale di individui resilienti in quella che viene considerata una generazione resiliente, in questo modo si può applicare il concetto di resilienza a una società intera. Anche se, al tempo stesso, questo tentativo di quantificare il fenomeno risulta alquanto bizzarro.

    Nelle storie moralistiche dei nostri antenati, la formula tempi difficili rendono la gente più coriacea funzionava anche in senso inverso. La prosperità rende la gente più flessibile. Per Plutarco e Tito Livio, per esempio, accidia, codardia e mancanza di virtù erano frutto di troppi agi, troppo lusso, troppa ricchezza. Se una società è composta da una grande quantità di individui arrendevoli, è la stessa società a infiacchirsi. In un’epoca in cui i cittadini potevano trovarsi costretti a indossare la corazza e a impugnare la spada per difendere la propria condizione in combattimenti corpo a corpo, questo rischiava di diventare un problema di sicurezza nazionale. Noi forse viviamo un tempo in cui la resilienza non ha più il valore che aveva allora. Se è così, che vantaggi può offrire una società più flessibile?

    Il grande storico Will Durant si è occupato dei Medi, un popolo dell’antichità vissuto nell’odierno Iran. All’epoca in cui Durant scriveva (gli anni Trenta), i Medi erano considerati un popolo relativamente povero e dedito alla pastorizia, che si era unito per combattere gli Assiri ed era poi diventato una delle maggiori potenze della regione.⁷ Ma poco dopo, secondo Durant, i Medi si dimenticarono dei loro rigidi principi morali e dei loro severi costumi. La ricchezza era arrivata troppo in fretta perché ne potessero fare un uso accorto. Le classi privilegiate diventarono schiave del lusso e della moda, con gli uomini che indossavano pantaloni ricamati e le donne che si adornavano di gioielli, facendo uso di cosmetici.

    Abiti e orecchini non furono certo la causa della rovina dei Medi, ma per Durant e molti storici della sua epoca erano il segno di come quella società si era corrotta, perdendo le qualità acquisite nel momento della sofferenza, quando i Medi avevano dovuto stringere i denti per sconfiggere l’Impero assiro.

    Lo storico Chester G. Starr ha studiato a fondo Sparta, una società dedita interamente alla creazione dei migliori combattenti dell’antichità. Furono i soldati spartani a fare di questa città-stato del Peloponneso una potenza che l’esiguo numero di abitanti e un’economia tutto sommato modesta non potevano far presagire. La cultura di Sparta era tutta improntata all’arte militare. Ogni cittadino maschio era addestrato alla guerra e doveva prestare servizio nell’esercito fino a sessant’anni.

    L’idea di una milizia fatta di cittadini appositamente addestrati è comune a molte società, soprattutto nell’antica Grecia, ma Sparta la spinse al limite. Gli uomini venivano formati a combattere fin dai primi istanti della loro vita: i neonati venivano considerati la materia prima dell’esercito, e ogni bambino spartano veniva sottoposto all’esame di un consiglio di anziani, che decidevano se era sufficientemente forte e robusto. I bambini che apparivano troppo gracili o deformi venivano gettati da una rupe sul monte Taigeto, perché morissero sulle taglienti rocce sottostanti.

    I neonati ritenuti degni di vivere venivano sottoposti alla pratica spartana dell’esposizione, per renderli avvezzi ai disagi fin da piccoli. A sette anni i bambini venivano tolti alle loro famiglie e inviati in campi di addestramento. I giovani spartani mangiavano in mense militari con i loro compagni, senza mai conoscere le comodità domestiche. Venivano deliberatamente sottonutriti per indurli a rubare il cibo e spingerli a essere intraprendenti, anche se poi erano severamente puniti quando venivano sorpresi a farlo. Un’impostazione culturale che consentì a questi giovani di diventare i migliori combattenti dell’antica Grecia. Si dice che, nel momento di massimo splendore,¹⁰ a Sparta si evitasse l’uso dei soldi, perché si pensava che corrompessero la morale e gli ideali del valore militare.¹¹

    Ma col passare del tempo, secondo la storiografia tradizionale, gli Spartani diventarono amanti del lusso e corruttibili (come ha scritto Starr): persero così la loro resilienza e la loro superiorità militare, fino a conoscere la disfatta sul campo di battaglia. Gli Spartani del 380 a.C. forse non avrebbero sconfitto i loro straordinari nonni di cent’anni prima, ma gli Spartani del 280 a.C. di sicuro non avrebbero mai battuto i loro nonni.¹² Qualcuno ne attribuisce la responsabilità agli odiati Persiani: non potendo sconfiggere gli Spartani in battaglia, i re di Persia trovarono nell’oro un mezzo più efficace per neutralizzarli. Le fonti storiche premoderne ritraggono gli Spartani del IV secolo a.C., e in particolare certi re, come molto più materialisti e amanti del denaro dei loro antenati, davvero spartani. Sembra quasi che i molli Persiani, come venivano spesso definiti dai Greci, spargessero la loro mollezza come un virus, controbilanciando la tenacia degli avversari.¹³

    Ci sono altre spiegazioni all’ascesa e alla caduta di Sparta che non hanno nulla a che vedere con la tenacia – un addestramento alla guerra e una condizione fisica migliori, per esempio – ma sarebbe strano pensare che essa non conti proprio nulla.

    Guerra e povertà non sono costanti. Possono rendere estremamente resilienti gli esseri umani che ne sono colpiti, ma non vale per tutti. Alcuni sono fortunati, scampano alla guerra e alle privazioni. Ma tutti vengono contagiati.

    Può sembrare strana l’idea che un’alta incidenza di malattie renda gli esseri umani più coriacei, ma il ripetersi di epidemie mortali può avere creato, nel passato, un livello di resilienza a noi oggi sconosciuto. Un padre e una madre che hanno perso dei figli piccoli a causa di una malattia e che hanno stoicamente continuato la loro lotta per l’esistenza possono sembrarci forti e resilienti. Succede a molti, in tutto il mondo, e noi la consideriamo una delle peggiori tragedie che possa capitare a un individuo. Ma è solo in tempi relativamente recenti che un evento del genere ha smesso di essere una cosa normale. In passato, veder morire un figlio di malattia era un fatto della vita, e viene da chiedersi che effetto avesse questa consapevolezza sulle persone e sulla società in generale. Lo storico Edward Gibbon, autore di una monumentale Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, era il primo di sette figli: tutti i suoi sei fratelli morirono durante l’infanzia. Un tasso di mortalità piuttosto alto anche per il Settecento. Ma a quel tempo perdere dei figli prima che diventassero adulti era la regola. Tuttavia, concentrandoci sull’infanzia rischiamo di sottovalutare gli effetti che un’alta incidenza di malattie può avere su un’intera società. Un’epidemia particolarmente virulenta può uccidere chiunque.

    Parlando di malattie, bisogna dire che il mondo moderno è molto diverso da quello dei nostri antenati.¹⁴ Certo, ci sono zone dei paesi in via di sviluppo che sono rimaste praticamente immutate dal Medioevo e sono ancora vulnerabili a ogni genere di malattia, ma nel complesso le società tecnologicamente avanzate mostrano di avere una scarsa consapevolezza di quali effetti abbiano avuto le malattie sulla vita degli uomini fino a qualche decennio fa. Il computo delle pandemie che, nel corso dei secoli, hanno cancellato dalla faccia della Terra una grande percentuale della popolazione ci lascia sbigottiti. A leggere i resoconti che ci sono stati lasciati sembra di stare fra l’horror e la fantascienza. Se oggi una pestilenza facesse sparire un quarto della popolazione mondiale sarebbe un’indecenza sostenere che c’è un effetto collaterale positivo: renderci più resilienti.

    È chiaro che, in qualche modo, le malattie ci rendono più forti, perché il sistema immunitario reagisce agli agenti patogeni. Questo è scientificamente provato. Ma perdere i nostri cari a causa di una malattia ci rende più resilienti? E la società si fortifica di conseguenza? Nell’attimo in cui ci poniamo queste domande sentiamo di essere di fronte a questioni importanti, anche se ci rendiamo conto che non sono fenomeni dimostrabili o quantificabili. Ovviamente, in certe fasi della storia sopravvivevano solo i forti, e quindi era meglio nascere forti. Ma si può anche sostenere che oggi non è questo il principale requisito per la sopravvivenza.

    Ricollegandosi alla metafora zoccoli di legno/pantofole di seta, qualcuno potrebbe osservare che bisogna tenere conto del momento storico. Se in tempi difficili è meglio essere forti, cosa succede se i tempi sono meno duri? Teniamo presente che le pantofole di seta possono offrire dei benefici in grado di compensare certi svantaggi.

    Lo storico militare tedesco Hans Delbrück¹⁵ aveva una teoria: tutto ciò che caratterizza l’arte militare moderna – l’organizzazione, le tattiche, la logistica, l’addestramento e la leadership – mira a compensare la forza naturale dei popoli rimasti a un livello di civiltà inferiore. Rispetto alle civiltà più evolute scrisse degli antichi Germani a lungo sconfitti dai più raffinati Romani, i barbari erano avvantaggiati perché avevano la ferocia e l’istinto bellicoso delle belve. La civiltà rende gli individui più raffinati, più sensibili, intaccandone il valore militare, non solo la forza ma anche il coraggio. Sono difetti che vanno in qualche modo compensati […]. Il compito principale di un esercito organizzato è quello di mettere gente civilizzata in condizione di resistere a gente meno civilizzata, cosa che ottiene attraverso la disciplina.¹⁶

    Secondo il modo di pensare di Delbrück, il motivo per cui le città-stato iniziarono a organizzare i propri contadini – tendenzialmente più pacifici dei barbari asserragliati ai confini – era la volontà di creare un esercito più efficiente; questo richiede addestramento e disciplina, in modo da sostenere lo scontro con popoli che, vivendo in un ambiente più ostile, diventavano fatalmente più fieri e bellicosi.¹⁷ Se un gruppo di contadini o semplici cittadini romani avessero dovuto affrontare un numero equivalente di barbari ha scritto Delbrück, i primi sarebbero usciti inevitabilmente sconfitti; anzi, con tutta probabilità sarebbero scappati senza combattere. Era solo la formazione di coorti compatte e preparate a bilanciare le forze in campo.

    In molte epoche storiche si possono trovare esempi di società apparentemente deboli che sfruttano tecnologia, ricchezza e organizzazione per tenere testa a una società più forte e resiliente. In questo momento gli afghani sono forse uno dei popoli più forti e tenaci del pianeta, ma la loro resilienza individuale e collettiva viene sopraffatta dalle forze militari occidentali che interpretano il ruolo degli antichi Romani. Tuttavia se gli eserciti occidentali combattessero usando le stesse armi degli afghani – kalashnikov, razzi e ordigni improvvisati – mentre questi ultimi avessero a disposizione i nostri droni, i nostri caccia e i nostri missili Cruise, allora il problema della nostra resilienza diventerebbe di cruciale importanza. Non dimentichiamo che gli afghani sono un popolo in guerra da quarant’anni contro una moltitudine di nemici. Dal punto di vista della resilienza potrebbero essere più simili ai nostri nonni di quanto lo siamo noi.

    Oggi le armi e la tecnologia sono così avanzate che possiamo immaginare un moderno guerriero che attacca il nemico in Afghanistan da una stanza con l’aria condizionata in Kansas – un pilota virtuale che ha perfezionato la sua abilità grazie ai videogame, esattamente come un giovane giapponese di due secoli fa si preparava a un futuro da spadaccino frequentando corsi di kendŌ. Anziché addestrarsi all’uso di un’arma, i killer di oggi – molti dei quali probabilmente non vedranno mai un nemico morto da vicino – guidano a distanza dei droni che uccidono miliziani forti e determinati su impervi terreni di montagna.¹⁸ Molti eserciti moderni, come i Romani di Delbrück, hanno trovato il modo di rimediare alle proprie debolezze.¹⁹ Tuttavia, la resilienza può ancora cambiare le sorti di un conflitto. Può essere il fattore chiave che decide chi può continuare a contare i morti e a sostenere indefinitamente i costi di una guerra.²⁰ Ma se anche questo fosse vero, uno storico riuscirebbe a dimostrarlo senza farsi ridere dietro dai colleghi?

    ¹   Agli albori della storiografia, molti autori facevano ricorso a esempi tratti dal passato per impartire lezioni di morale.

    ²   Soprattutto se dagli individui la si estende a intere società.

    ³   Infatti ci sono parole che in alcuni contesti possono significare la stessa cosa. Per esempio tenacia o resistenza. Ma il termine resilienza ha anche un’accezione psicologica, emotiva, e fra i suoi significati c’è la capacità di sopportare le privazioni.

    ⁴   La generazione più grande. L’espressione è ripresa da un libro del giornalista americano Tom Brokaw, pubblicato nel 1998: Sono cresciuti durante la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale, e hanno costruito l’America moderna – uomini e donne che con le loro vite improntate al senso del dovere, dell’onore e del coraggio ci hanno dato il mondo in cui viviamo. (N.d.T.)

    ⁵   Nessuno stupido bastardo ha mai vinto una guerra andando all’assalto e morendo per il proprio paese. Ha vinto facendo morire per il proprio paese un altro stupido bastardo. Secondo il generale di Corpo d’armata James M. Gavin, Patton pronunciò queste parole in un discorso agli ufficiali durante la guerra.

    ⁶   Per maggiori informazioni su cosa comporti sganciare una bomba o subirne l’esplosione si vedano i capitoli 7 e 8.

    ⁷   Da quando ne ha scritto Durant, la visione che si ha dei Medi è molto cambiata. Oggi vengono considerati un popolo più ricco, più potente, più organizzato e più civilizzato di quanto ritenessero gli storici precedenti.

    ⁸   Queste considerazioni ci dicono più della mentalità di quell’epoca che dell’antico popolo dei Medi. Non dimentichiamo che Durant scriveva nel pieno della Grande depressione.

    ⁹   Starr lo ha scritto più di cinquant’anni fa. In molti libri di storia moderni si dice che gli Spartani esponevano i neonati perché, sopravvivendo, avrebbero dimostrato di essere sufficientemente forti e degni di vivere. Su come i bambini sono stati considerati nel corso dei secoli e nelle diverse società, si veda il capitolo 2.

    ¹⁰   Indicativamente tra il 550 e il 400 a.C. anche se è difficile stabilire delle date precise.

    ¹¹   È un fenomeno che si riscontra anche altrove. Nella Roma repubblicana i patrizi consideravano il commercio e i soldi qualcosa di indegno. E come loro i samurai giapponesi. In entrambe le società i mercanti occupavano il gradino inferiore della scala sociale, stavano sotto ai contadini – i quali, almeno, producevano il cibo necessario a vivere.

    ¹²   Volendo ignorare i concetti di resilienza e decadenza morale, si può tranquillamente affermare che il numero decrescente di Spartiati (il gruppo che costituiva l’élite dell’esercito) fu un fattore di declino ben più rilevante.

    ¹³   Un membro della Greatest Generation offrì questa soluzione per abbattere l’Unione Sovietica: "Dovremmo sganciare come bombe sulle loro teste copie di Playboy, blue jeans e dischi di Elvis Presley. A quel punto si rovineranno da soli".

    ¹⁴   Su quali possano essere gli effetti della malattia sulla società si veda il capitolo 6.

    ¹⁵   Nel film Frankenstein Junior, quando manda Igor a prendere un cervello per trapiantarlo nella sua creatura, il dottor Frankenstein chiede espressamente di portargli quello di Hans Delbrück. Ma Igor lo fa cadere per terra e prende un cervello classificato come abnorme.

    ¹⁶   Per maggiori informazioni sugli antichi Germani si veda il capitolo 5.

    ¹⁷   Un altro esempio di come due parole, in un certo contesto, siano sinonime di resilienza (come noi, ed evidentemente anche Delbrück, la intendiamo).

    ¹⁸   Questo dà un nuovo significato all’espressione rivincita dei nerd, considerando che molti dei progettisti di questi strumenti supertecnologici probabilmente non hanno nemmeno giocato come quarterback negli anni del liceo.

    ¹⁹   Le truppe occidentali oggi impegnate sul terreno non sono meno tenaci dei loro avversari, come le unità d’élite dell’esercito romano. Il sostegno delle organizzazioni militari e civili in patria, tuttavia, può avere un ruolo di rilievo.

    ²⁰   È quello che è successo agli americani nelle ultime fasi della guerra in Vietnam.

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