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Robot 78
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E-book335 pagine4 ore

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Info su questo ebook

RIVISTA (192 pagine) - Mike Resnick - Sarah Pinsker - Domenico Gallo - Lorenzo Crescentini - Susanna Raule - Luigi Calisi - George R.R. Martin - Franco Brambilla - Isaac Asimov

Africa: il continente dove è nata l'umanità, e secondo molti il continente del futuro. C'è l'Africa sfruttata, terreno di conquista per le nuove potenze economiche raccontata da Luigi Calisi in "Le piantagioni", racconto finalista al premio Robot; e c'è l'Africa trapiantata su un altro pianeta, quella di Mike Resnick nello straordinario ciclo di racconti "Kirinyaga" che include  anche questo "Perché ho toccato il cielo", finalista all'Hugo e al Nebula. Siamo invece nel pieno midwest americano con la novelette premio Nebula 2015 quasi autobiografica di Sarah Pinsker, scrittrice e cantante, che racconta la musica dal vivo in un mondo che ormai vive su internet. Mentre Lorenzo Crescentini ci porta nella Russia del futuro prossimo e Susanna Raule nella Londra Vittoriana (a trovare un certo detective), Nico Gallo ci racconta una Genova del dopoguerra e dei conti da rendere dopo il crollo del nazifascismo. Lo scrittore fantasy più famoso in questi anni è probabilmente uno scrittore di fantascienza, George R.R. Martin, che in questa intervista racconta i suoi inizi. Ed è anche il momento di conoscere meglio l'artista di quest'anno, Franco Brambilla.

Fondata da Vittorio Curtoni, dal 2011 Robot è curata da Silvio Sosio, giornalista, curatore di diverse collane Delos Books e Delos Digital.
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2016
ISBN9788865307878
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    Anteprima del libro

    Robot 78 - Silvio Sosio

    Resnick

    EDITORIALE

    Siamo stufi di esperti

    Silvio Sosio

    Sapevate che la Terra è piatta? Ma certo. Tutto quello che vi hanno insegnato a scuola è una frottola ed è una vergogna che si insegni nelle scuole. Come dite? Ci sono le foto della Terra fatte dagli astronauti ed è rotonda? Ma perché, credete davvero nella farsa degli astronauti? Credete anche che quel film di Stanley Kubrick fosse un vero sbarco sulla luna. Svegliatevi, anzi, curatevi. Dal medico? Ma che follia. Respirate a fondo e fate la pace con voi stessi e ogni malanno andrà via. Anzi, non avrete nemmeno più bisogno di mangiare.

    «Oggi si festeggia anniversario sbarco sulla luna. Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa…» ha scritto su Twitter un deputato Cinquestelle. «Ma dietro al sole cosa si vede, nuvole? come è possibile se davvero dista 149 milioni di km?» si chiede un attento osservatore su Facebook. «Sto valutando una settimana di vacanze in Sicilia, ma che accortezze dovrei prendere con tutti quei clandestini che muoiono in quelle acque?» vuol sapere una mamma su un forum; risposta: «le malattie sono tornate per colpa dei vaccini che contengono virus vivo, non per colpa degli immigrati, loro mangiano peperoncino, aglio e curcuma, non sono vaccinati e sono più sani».

    Sono solo le prime testimonianze che ho trovato con una rapida ricerca, ma potrei ovviamente andare avanti per molte pagine documentando questo effetto collaterale dell’era dell’informazione: le persone smettono di aver fiducia nella scienza, nella conoscenza, nelle versioni ufficiali, per rivolgersi a fonti alternative credendo a qualsiasi panzana, purché sia diversa da quanto loro vogliono far credere.

    È un fenomeno interessante; ed è anche un bel problema.

    Secondo alcuni la soluzione più pratica per risolverlo è la cosiddetta opzione asteroide: una bella montagna di qualche milione di tonnellate che si schianti sulla Terra causando una bella estinzione di massa. È un filo drastica, bisogna riconoscerlo.

    Ma che succede? È davvero qualcosa di nuovo, qualcosa di cui preoccuparci, o semplicemente l’era di internet rende più evidenti cose sempre esistite?

    Il rifiuto della scienza ufficiale non nasce certo adesso, anzi ha radici lontane. Il mito dello scienziato eroe che si oppone all’establishment del resto è stato costruito nella narrazione stessa della scienza moderna; ci esaltiamo pensando alle gesta di Darwin che si confronta con gli impomatati naturalisti della Royal Society, o quando Galileo sfida la Chiesa sostenendo le teorie di Copernico, ma da un punto di vista narrativo le vicende di Howard Bach (quello dei fiori) o Samuel Hahnemann (l’inventore dell’omeopatia) non sembrano così dissimili.

    Non trovo statistiche sull’argomento, perciò non posso dare una valutazione precisa dell’eventuale crescita del fenomeno; e c’è ovviamente il rischio che questa sensazione nasca della visibilità del fenomeno stesso grazie a internet.

    Alcuni indicatori ci sono, però. Come l’allarme delle istituzioni sanitarie per il calo dei vaccini sotto la soglia di sicurezza. Il successo commerciale delle pasticche di zucchero definite medicinali omeopatici. L’improvviso dilagare di prodotti privi di glutine, ben oltre quanto giustificato da quell’1% della popolazione affetta da celiachia.

    Da dove nasce tutto ciò? Non sono né un sociologo né uno psicologo né un antropologo, non sono certamente la persona più adatta per fare uno studio serio su queste cose né d’altra parte potrei farlo nelle tre pagine di un editoriale. Le cause sono complesse, dal preoccupante ritorno dell’analfabetismo funzionale (oltre il 40% della popolazione in Italia), al calo di qualità dell’istruzione. Parlando di medici almeno nel nostro paese la progressiva sparizione del rapporto col medico di famiglia, mentre al contrario l’omeopata riceve, ascolta, partecipa (e incassa).

    Più particolare del momento storico e più interessante da un punto di vista speculativo a noi sembra il problema della moltiplicazione illimitata delle fonti. La rete e i social network – grandi strumenti che hanno portato innumerevoli benefici all’umanità, devo dirlo perché in questi editoriali finisco spesso per parlare dei loro effetti negativi – hanno sostanzialmente messo alla pari fonti che nel sistema informativo tradizionale sarebbero state su piani del tutto diversi.

    Nel mondo pre-internet un ipotetico sostenitore della teoria secondo cui la Terra non è una sfera ma un disco piatto avrebbe avuto grosse difficoltà a raggiungere un pubblico. Avrebbe proposto i suoi articoli alle riviste scientifiche e sarebbe stato cacciato; a quel punto avrebbe potuto rivolgersi a testate di controinformazione, o pubblicare il libro o l’articolo in proprio; ma anche così avrebbe raggiunto un pubblico molto limitato.

    Oggi ogni tipo di idea trova facilmente uno spazio e gli strumenti di ricerca e di promozione attraverso i social, per lo più gratuiti, consentono di diffonderla a un pubblico potenzialmente sterminato. Si stanno affermando persino siti dedicati alle pubblicazioni scientifiche che permettono di pubblicare studi senza una preventiva peer review, il più noto è probabilmente Plos ma ce ne sono altri. È possibile pubblicare libri, in stampa o elettronici, senza che ci sia un editore a darne un giudizio preventivo. E naturalmente è possibile aprire siti o blog e mettere in rete qualunque tipo di pensiero.

    Questa esplosione della libertà di espressione porta a un effetto biblioteca di Babele per cui (quasi) qualunque opinione si possa avere su un determinato argomento è possibile trovare in rete fonti che la sostengono.

    Su temi particolarmente sentiti poi le fonti si moltiplicano e stratificano, si diversificano, e diventano quasi impossibili da contenere. Esempi tipici: la faccenda dei vaccini che provocano l’autismo è stata da anni svelata come una vera e propria truffa, una ricerca falsa diffusa per interesse personale, e ciononostante questa teoria continua a girare, a essere riproposta persino da medici, da amministratori locali che vietano o sconsigliano i vaccini, da sentenze dei tribunali.

    Le scie chimiche: una delle frottole più assurde mai inventate. Oppure, fate un esperimento, provate a chiedere a un po’ di persone dei cerchi nel grano. Vedrete che tra chi li conosce molti affermeranno che sono veri e propri misteri (qui anche grazie, va detto, a trasmissioni televisive che ci marciano), con buona pace dei visibilissimi siti internet in cui gli appassionati si scambiano consigli su come realizzarli e foto delle loro opere.

    Non è una novità che la scienza venga osteggiata: pensiamo per esempio alle scuole in USA dove si insegna che la Terra è stata creata seimila anni fa. Ma in questo caso si sostituiva un’autorità – quella della scienza ufficiale – con un’altra altrettanto forte – quella della religione. Quello che accade oggi è la moltiplicazione delle autorità, sempre più piccole e personalizzate.

    Non pensiate che sia una cosa che riguarda solo gli altri. Tutti in qualche misura ne siamo soggetti, perché siamo bombardati di informazioni e non possiamo valutarle tutte con la stessa attenzione. E per tutti diventa sempre più difficile distinguere le fonti affidabili da quelle che non lo sono. Quando uno scienziato afferma qualcosa, prima devi capire se quello che riporta il quotidiano è davvero quello che ha detto lo scienziato, poi devi capire se lo scienziato è affidabile o se è solo un assistente di laboratorio con idee strane. A questo aggiungiamo le fonti serie che esagerano o suggeriscono messaggi scorretti per motivi di marketing, perché la scienza ha bisogno di soldi. Come la NASA che una settimana sì e una no annuncia di aver trovato pianeti gemelli della Terra, l’acqua su Marte, possibili forme di vita su Plutone.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Nostra Signora della Strada

    Sarah Pinsker

    Traduzione di Marco Crosa

    Sarah Pinsker, poco meno di trent’anni e altrettanti racconti pubblicati, è nata a New York, ma ha vissuto tra gli altri posti in Texas e a Toronto, prima di stabilirsi (più o meno) a Baltimora, Maryland, dove vive con sua moglie e un più convenzionale (per noi italiani…) cocker spaniel.

    Ha pubblicato il suo primo racconto nel 2012, bruciando rapidamente le tappe, tanto da vincere uno Sturgeon Memorial Award nel 2014 con la novelette In Joy, Knowing the Abyss Behind e il Nebula l’anno successivo con il racconto in queste pagine. Per quanto riguarda la fantascienza, tra le sue fonti principali d’ispirazione, a suo stesso dire, vi sono Ursula K. Le Guin, Octavia Butler e Karen Joy Fowler.

    Per quanto riguarda la sua musica, invece, potete ritrovarvi echi di Neil Young, Leonard Cohen e Suzanne Vega. Infatti Sarah è soprattutto una cantante e compositrice, che si è esibita in quasi tutti gli Stati americani, sia come solista sia con la sua band, gli Stalking Horses.

    La trovate online su sarahpinsker.com (FL)

    La lancetta del serbatoio dell’olio vegetale segnava rosso fisso quando arrivammo al China Grove. Un gigantesco drago in fibra di vetro rosa e viola incombeva sull’ingresso, senza dubbio profugo di qualche locale parco di divertimenti abbandonato; sembrava più medievale che cinese. Il parcheggio ospitava un misto di Chauffeur e veicoli agricoli a guida manuale, ma non notai altre bruciagrasso, perciò entrai.

    – Ce l’hai fatta per un soffio, Luce? – Silva posò il libro e si chinò sul cruscotto per scrutare la spia.

    – Nelle ultime cinquanta miglia c’erano solo fattorie. Così imparo a provare una strada che non ho mai fatto prima.

    – Dove siamo? – chiese Jacky dalla branda in fondo al furgone. Guardai nello specchietto retrovisore. Lui colse il mio sguardo e fece un saluto entusiasta. Le treccine traboccarono da qualunque cosa avesse usato per legarle e lui le raccolse di nuovo in una folta coda di cavallo.

    Silva rispose prima che potessi farlo io. – Danessunaparte, Indiana. Torna a dormire.

    – Sissignore. – Senza musica o motore a coprirlo, il russare di Jacky riempì nuovamente l’abitacolo un secondo più tardi. Viaggiava con noi ormai da un anno, perciò ci eravamo abituati al rumore. Per essere onesti, gli invidiavo la capacità di addormentarsi così in fretta.

    Guardai Silva. – Vuoi chiedere tu, per una volta?

    Lui sogghignò e sollevò gli avambracci tatuati su ogni centimetro. – Lo sai che non è colpa mia.

    – Esistono cose chiamate maniche, sai. – Presi la giacca a vento da dietro il mio sedile e gliel’agitai in faccia, pur sapendo che aveva ragione. Nel Midwest, tra i tatuaggi e i capelli azzurri con le punte, non era mai lui a entrare per la prima volta in un nuovo ristorante. Né era mai Jacky, per le cicatrici della varicella sulle guance, anche se erano chiaramente guarite da tempo. Restavo io.

    Il mio ginocchio malandato cedette mentre scendevo dal sedile del guidatore. Mi chinai a stringerlo e sentii uno spasmo in fondo alla schiena, a destra della spina dorsale, quel dolore istantaneo che mi diceva di ripensare a tutte le scelte della mia vita.

    – Che fai? – chiese Silva dalla portiera aperta.

    – Mi allaccio una scarpa. – Non c’era bisogno di mentire, ma lo feci comunque. Orgoglio, vanità o qualcosa di simile. Lui era solo di due anni più giovane di me e nessuno di noi saltava più molto dagli amplificatori. Se ero anchilosata per il viaggio, probabilmente lo era anche lui.

    Avevo il retro delle cosce tutto spilli e aghi e la camicia madida di sudore. Mi presi un attimo per sorreggermi a Daisy Diesel e stiracchiarmi nell’aria rovente. Mi annusai: non fantastico dopo quattro giorni senza doccia, ma nemmeno insopportabile.

    La porta si apriva su un atrio rosso, giallo e nero. Non notai neppure la locandiera bionda nel suo qipao rosso finché non fece un passo avanti dalla carta da parati.

    – Cena da sola? – chiese la donna. Dietro di lei, tutti i visi nella stanza si voltarono nella mia direzione. Non era esattamente il tipo di posto che attirava i turisti, specialmente di quei tempi, così lontano dall’interstatale.

    – No, ehm, a dire il vero mi chiedevo se potevo parlare con il cuoco o il proprietario. Ci vorrà solo un minuto. – Ero abbastanza sicura di avere scelto di fermarci dopo il momento di massima affluenza serale. La maggior parte degli avventori stava mangiando o spingeva da parte i piatti.

    Il proprietario e il cuoco erano la stessa persona. Mi ero aspettata un altro esemplare biondo del Midwest, ma l’uomo era cinese autentico. Non aveva mai sentito parlare di un furgone che andava a olio. Inscenai la consueta routine del non ti sto proprio implorando. In scena mi sforzavo di essere energica, ma con jeans e coda di cavallo potevo passare per una madre sfigata del Midwest. Il segreto stava nel non insistere troppo.

    Lui sembrò un po’ confuso dalla mia richiesta, ma almeno fu disposto a prenderla in considerazione. – Venga in cucina dopo la chiusura e mi faccia vedere. Alle dieci, dieci e mezza.

    Erano le nove; non così male. Tornai al furgone. Silva era ancora sul sedile del passeggero, ma leggeva un menù pieghevole. Doveva essere svicolato alle mie spalle per prenderlo. – Servono un cestino di pane con lo mein. E spaghetti e polpette. Dove siamo?

    – Danessunaparte, Indiana – gli ripetei le sue stesse parole.

    Sedemmo nel furgone buio e guardammo il flusso di clienti che uscivano. Per lo più riuscivo a indovinare dal loro aspetto quali sarebbero saliti sui camion e quali sulle Chauffeur. Ogni tanto, un tizio grande e grosso in stivali da lavoro e berretto da camionista mi sorprendeva strizzandosi in una minuscola vettura autoguidata. Il gioco aiutava a passare il tempo, in ogni caso.

    Un cowboy di mezza età si avvicinò a guardare il nostro furgone. Da lontano lo etichettai come un autentico allevatore, ma mentre si avvicinava notai un collare ecclesiastico sotto la camicia ricamata. Aveva gli stivali lucidi e un pancione che ricadeva su una vecchia cintura da rodeo: l’immagine assurda di un sacerdote che cavalcava tori mi fece ridere. Trasalì quando si accorse che lo guardavo.

    Mi fece cenno di abbassare il finestrino.

    – Targa del Maryland! – disse. – Una volta abitavo a Hagerstown.

    Sorrisi, anche se da Hagerstown ci ero solo passata di sfuggita.

    – Guidavo il furgone della chiesa, che sembrava una specie del vostro, subito dopo la scuola. Meno nastro isolante, però. Che ci fate qui fuori?

    – Concerti. Una band.

    – Sul serio! Mi sembrava una faccia nota. Ho sentito parlare di voi?

    – Cassis Fire – risposi, interpretando la domanda come la richiesta di un nome. – Per un po’ è stato dipinto sulla fiancata, ma poi abbiamo scoperto che i poliziotti ci fermavano meno se eravamo in incognito.

    – Non mi pare di conoscere il nome. Avevo anch’io una band, prima di… – la sua voce si affievolì e nessuno di noi ebbe bisogno che finisse la frase. C’erano molti prima di a cui poteva fare riferimento, ma tutti equivalevano alla stessa cosa. Prima che StageHolo e SportsHolo rendessero più facile rimanere a casa. Prima che la maggior parte della gente avesse paura di radunarsi in un posto dove non si conoscevano tutti.

    – Non suonate da queste parti, vero?

    Scossi la testa. – Columbus, Ohio. Domani sera.

    – Lo immaginavo. Non riuscivo a pensare a un posto da queste parti dove potreste suonare.

    – Non il nostro genere di musica, comunque – convenni. Non sapevo che musica gli piacesse, ma era una scommessa sicura.

    – Di nessun genere. Oh, be’. È stato bello chiacchierare con lei. Vi guarderò su StageHolo.

    Mi voltò le spalle.

    – Non siamo su StageHolo – dissi alla sua schiena, anche se non abbastanza forte perché mi sentisse. Fece un cenno di saluto mentre la sua Chauffeur lo portava fuori dal parcheggio.

    – Luce, sei una pessima venditrice – mi disse Silva.

    – Cosa? – Non mi ero resa conto che stava prestando attenzione.

    – Lo sai che ti ha riconosciuto. Non dovevi fare altro che dire il tuo nome invece di quello della band. O Blood and Diamonds. Avrebbe offerto la cena a tutti, poi avrebbe comprato tutte le magliette e i codici di download che abbiamo.

    – E poi li avrebbe ascoltati e avrebbe capito che la musica che facciamo adesso non è per nulla quella che facevamo prima. E anche se gli fosse piaciuta, non sarebbe mai andato a un concerto. Nel migliore dei casi ci avrebbe mandato un messaggio dicendo quanto gli piacerebbe che fossimo su StageHolo.

    – Dove potremmo essere…

    – Dove non saremo mai. – Aveva abbastanza buon senso da non discutere con me quel punto. Era la nostra unica vera fonte di disaccordo.

    Il neon con la scritta aperto sulla finestra del ristorante si spense, dandomi l’imbeccata per rimettere la chiave nel quadro. La spia delle candelette si illuminò e misi in moto il furgone.

    Il mio movimento svegliò di nuovo Jacky. – Dove siamo ora?

    Non mi diedi la pena di rispondere.

    Come avevo indovinato, il proprietario non aveva capito del tutto quello che chiedevo. Gli feci fare una visita guidata del motore, mostrandogli il filtro dell’olio modificato e il doppio serbatoio. – Ci serve comunque gasolio normale per l’avviamento, poi passiamo al serbatoio dell’olio vegetale. Praticamente è tutto qui.

    – È legale?

    Legale quanto bastava. C’era un’area grigia in cui forse, tecnicamente, evadevamo la tassa sui carburanti. Dal nostro punto di vista, però, aggiravamo anche le ragioni della tassa sui carburanti. Saremmo stati noi a finire nei guai, del resto. Non lui.

    – Naturalmente – dissi, poi cambiai argomento. – E la parte migliore è che fa profumare il furgone di involtini primavera.

    Sorrise. Ne ricavammo un serbatoio pieno e anche un sacchetto pieno di cibo che altrimenti avrebbe buttato via.

    I ragazzi erano al settimo cielo per la roba da mangiare. Rovistare nella spazzatura dietro un ristorante o un Superwally sarebbe stato il nostro prossimo punto all’ordine del giorno, perciò qualunque cosa che non avesse fatto una tappa nel cassonetto dei rifiuti prima di arrivare a noi era haute cuisine, per quanto ci riguardava. Silva prese il lo mein – senza il pane in omaggio – avvitò le bacchette da viaggio e mi porse le mie dal cassetto portaoggetti. Io agguantai una specie di mu shu senza frittelle e Jacky si svegliò di nuovo per abbrancare il terzo contenitore.

    – Possiamo andare da qualche parte? – chiese Silva agitando le bacchette verso il finestrino.

    – Hai qualcosa in mente per un giovedì sera in aperta campagna?

    Anche Jacky aveva voglia di fare qualcosa. – Laser tag? Bowling laser?

    A volte la differenza di età era un abisso. Mi girai sul sedile per guardare il ragazzo di sbieco. – Un voto per i laser.

    – Non so – disse Silva. – Magari un bar? Se devo passare un’altra ora in questo furgone mi metterò a urlare.

    Addentai qualche boccone mentre riflettevo. Non saremmo stati accolti a braccia aperte da nessuna parte nei dintorni, con il nostro odore e il nostro aspetto, per non parlare del semplice fatto che eravamo degli estranei. D’altro canto, quanti più sfoghi di divertimento lecito avessi fornito ai ragazzi, meno probabile sarebbe stato che combinassero qualcosa che ci avrebbe fatti finire nei guai. – Se vedo un bar o una sala bowling prima di qualche posto per dormire, certo.

    – Posso cercarli io – si offrì Jacky.

    – No – dissi io. – Lasciamola in mano al fato.

    Dopo due terzi del mu shu mi arresi e chiusi il contenitore. Detestavo sprecare il cibo, ma per me era troppo per finirlo. Pulii le bacchette sui jeans e li rimisi nella loro custodia.

    Due miglia dopo il ristorante arrivammo allo Starker’s, che dall’apostrofo speravo fosse solo un bar, non un locale di spogliarello. L’enorme parcheggio era vuoto a parte otto Chauffeur, tutte allineate come maiali al trogolo. Per lo meno significava che non avremmo dovuto preoccuparci che qualche ubriaco si schiantasse sul nostro furgone uscendo.

    Parcheggiai in retromarcia nel posto più vicino alla porta. Era quello meglio illuminato, così potevo preoccuparmi di meno che sgraffignassero la nostra roba. Vicino era anche una buona idea nel caso i locali decidessero che il nostro aspetto non gli piaceva.

    Quando entrammo ci guadagnammo lunghe occhiate, quelle dei vecchi film western in cui tutte le teste si girano verso di te e il pianista smette di suonare. A parte il fatto che al giorno d’oggi il pianista non smetteva di suonare perché non aveva idea che fossimo arrivati. La parte del pianista in questa scena era interpretata da Roy Bittan, affiancato dall’intera E Street Band, chiassosa come uno stadio e proiettata in StageHolo 3D.

    – Vuoi andartene? – mi bisbigliò Jacky.

    – No, va bene così. Ormai siamo qui. Tanto vale bere qualcosa.

    – Almeno hanno Bruce. Bruce posso sostenerlo. – Silva mi oltrepassò sgomitando, diretto verso il bar.

    Un paio di almeno: almeno avevano Bruce, non un’imitazione a basso costo. Per quanto ne sapevo Bruce respirava il punk, insistendo a registrare nuova musica e autentici show dal vivo pur avendo ottant’anni suonati. Almeno era StageHolo e non StageHoloLive, nel qual caso avremmo dovuto pagare il biglietto. Ero disposta a stare nella stessa stanza con la tecnologia che tentava di rendermi obsoleta, ma che fossi dannata se avrei sborsato per il privilegio. Ovviamente su StageHoloLive Bruce non sarebbe mai apparso: era morto ormai da un paio d’anni e il Bruce che vedevamo sembrava averne solo una sessantina. Era anche un po’ appiattito,

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