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La pianista di Messina
La pianista di Messina
La pianista di Messina
E-book614 pagine7 ore

La pianista di Messina

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Info su questo ebook

Sinossi:Viaggio in un passato recente-che si apre fra tradizioni siciliane, mitologia e romanticismo-di una sorta di Fenice del secolo scorso, incarnata in Clara, pianista e ultima di cinque figli di una famiglia medio borghese della Messina d'oro degli Anni Cinquanta che, all'apparenza fragile e silenziosa, ha il coraggio di partire dalla sua terra per salvarsi, per ritrovarsi, per risorgere.

Una Ulisse donna di questi tempi, che ha bisogno di "uscire da se stessa", di viaggiare e "salire al Nord" per curare la sua dimenticanza, per cambiare identità, per ritrovare altro lignaggio.

La struttura complessiva è quella di una sinfonia: quattro tempi musicali, organizzati in quattro vite, divise in quattro aree geografiche, ognuna delle quali informa di una nuova coscienza della vita.

Il dialetto messinese, che spruzza colore ed ironia sulle vicende, immerge in un clima leggero e positivo, che comunica sia la difesa dei valori trasmessi dalla famiglia, sia il bisogno di liberarli e trasformarli nella vita imprevista dei protagonisti.

Un omaggio a una città che fu chiamata "la bella del Bosforo", osannata, dimenticata, mai rivalutata abbastanza, ma che si legge, in questo romanzo, senza polemiche e con memoria e nostalgia, in una dimensione fusionale con la storia dei protagonisti.

Una città che, prima vicina, poi si allontana, per trasformarsi in altre città del mondo - Milano, Dusseldorf e New York - e che infine torna vicina, torna a se stessa, come un'anima corale, plateale che si unisce alla sua anima lirica, di cui La Pianista è portavoce.

Gli spartiti per pianoforte, che chiudono o aprono la narrazione, donano un senso di composizione univoca, teatrale e a tratti cinematografica, che completa il destino e l'opera spirituale della Pianista, come la mano di un dio. Qualunque esso sia. Probabilmente siciliano. Sicuramente di Messina.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2019
ISBN9788831642033
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    Anteprima del libro

    La pianista di Messina - Immacolata Volpe

    633/1941.

    Notturno di Chopin

    Notturno di Chopin in mi bemolle.

    L’arco della finestra colmo di luce.

    E anche sul tuo volto un’aureola

    in volo si è adagiata.

    In nessun’altra notte mi ha toccato

    il silenzioso argento della luna.

    Così che nel profondo inesprimibile

    e dolce, ho avvertito

    un cantico dei cantici.

    Tacevi. Anch’io.

    La muta lontananza si dissolveva in luce.

    Nessun segno di vita,

    se non nel lago una coppia di cigni

    e su di noi il corso delle stelle.

    La tua figura si staglia nell’arco

    della mia finestra e dalla luna

    un bordo d’argento avvolge

    il tuo volto e la tua mano distesa.

    Hermann Hesse

    Questo romanzo è concepito per essere letto e ascoltato in musica.

    Alcuni capitoli si aprono o si chiudono con uno spartito musicale per pianoforte, che vuole evocare l'atmosfera emotiva e spirituale degli eventi del capitolo stesso.

    Musica e scrittura si fondono in un corpo unico, i cui linguaggi si traducono a vicenda e di cui il romanzo è voce incarnata.

    È pertanto vivamente consigliata la lettura integrata all'ascolto della musica.

    Alla famiglia, alla mia famiglia.

    Ai miei cugini, a mia zia Luccia.

    A Messina, alla Sicilia.

    Alla Terra.

    A mia Madre.

    Prefazione

    Stava nascendo da dentro con un urlo feroce, come un parto trattenuto per oltre trent’anni.

    Si allungava e si distendeva sopra il foglio bianco, accarezzandolo con le pastose dita di latte.

    La vedevo emergere dall’acqua bianca che avevo davanti, dall’orizzonte delle mille parole distribuite nel caos che stavo ordinando e la osservavo piano, in silenzio, senza stupore, senza malinconia.

    Semplicemente la osservavo nascere.

    Il pianoforte da dentro conduceva la nascita e gli spartiti abbandonati componevano l'opera prima.

    Allora sgusciava fuori da uno spazio riposto e sospeso, lasciando sparsi sul foglio gli umori e gli odori di una pelle un poco olivastra, che avrei voluto annusare con tutta la faccia.

    Mi inondava della sua lenta fuoriuscita, ancestrale, stordendomi con la bianca presenza sul foglio, con quella rara bellezza cicatrizzata che esce dal bozzolo e si trasforma in crisalide.

    E si muoveva come una medusa rosa a rallentatore, tentacolando uscite e possibilità.

    E inondava di sé, della sua musica, del suo canto, tutti gli spazi della mia mente retrocessa nel futuro primario di quell’atto creativo.

    L’avevo preparata a lungo, attraverso un sogno vissuto, prima desiderandola, come madre, poi conoscendola, come figlia.

    La disegnavo ora, sopra un’acqua che me la stava facendo vedere, come lo specchio dei desideri, come la creatura più amata: l’impronta di tutto il viso, non ancora definito, ma segnato dalla carezza e dal movimento dell’acqua con cui la stavo creando.

    E la fusione con la carne che io le stavo donando attraverso i miei occhi.

    Desideravo toccarla, prenderla con le mani, bere l’acqua, ingoiarla intera.

    Ma ancora non potevo.

    Come atto creativo, avrei voluto impolparla e incastrarle le ossa, i denti, la gabbia toracica.

    Avrei voluto ricavarla da una mia costola, come fece Dio nell’opera prima della prima donna.

    Ogni parte del suo corpo sarebbe stata una mia reazione con redenzione: una colpa, un rancore, una difesa, un sentimento, un atto protettivo, un impegno, una direzione, una musica, uno scritto, una scultura, una missione.

    Una liberazione. E la stavo liberando, creandola.

    Seguivo con gli occhi l’ovale lucido e nitido della mascella, brillante sotto la luce del mio parto mentale.

    Non era un atto nuovo, solo un atto dimenticato, accantonato, barattato, spostato in fondo al cassetto: l'atto di dare vita a lei, un atto violato, violentato per anni, incastrato fra silenziose parole e gesti senza follia.

    Adesso una sorta di sinfonico piacere, di divenire con piacere, di impastare e cesellare nel piacere a tal punto da provare una forma di abbandono totale, tantrico, in quel piacere della creazione di lei.

    La luce viola della cantina, in cui la stavo creando, apriva spazi profondi e umidi dentro il mio corpo, modificando il movimento del sangue e trasformando le cellule in guerrieri con le ali.

    Potevo masticare e ingoiare l’odore di quel luogo come si fa con la carne e il pomodoro, così con il corpo di acqua e di terra che stavo manipolando e modellando.

    Sentivo una potente eccitazione e la saliva attraversare la lingua come un fiume che scorre e che nutre anfratti e pozzi riarsi da tempo.

    Sopra gli scaffali della cantina c’erano alcuni indumenti colorati e la penombra li faceva sembrare animali mitologici.

    Ne presi uno che somigliava a una gru e che pareva vigilare l’ambiente dal suo angolo retto.

    Ma i colori da vicino erano troppo improvvisi, troppo dinamici: un rosso sovrano, troppo regale, troppo terreno; un giallo sonoro, troppo squillante, troppo cosciente.

    Più vicino all’uscita della cantina, un secondo scaffale nascondeva la forma del drago di San Giorgio che teneva prigioniera una fanciulla di cristallo.

    Il drago era attraente e superbo e la sua forza addensava e riscaldava le membra, con un impeto quasi aggressivo, imponendo una sorta di caldo benessere al corpo.

    Ma la mia opera creativa aveva bisogno di carezza, di respiro, di luce dall’alto.

    Riconobbi e scelsi in una manciata di secondi i colori, la forma e la stoffa per la nascita che avevo in mente: l’ippogrifo laggiù poteva servirmi per 'donarle' il senno e viaggiare verso la luna.

    Era una stoffa scivolosa, dalle tinte tenui, con disegni astratti, circolari e una pietra saggia, di colore grigio, forse una labradorite, era incastrata, dondolante, fra le forme arabescate del vestito e vi donava un tocco da sibilla.

    La bordatura era rotonda, liscia e i riflessi cangianti fra l’argento e l’azzurro oltremare.

    Un azzurro silenzioso, nuvolare, lento, che si dileguava in un tepore vellutato sopra la pelle, che si diffondeva in un languore segreto dentro la pancia.

    Osservai da vicino questa stoffa e riconobbi in seguito le forme dei gigli virtuosi che tanto avevano addobbato l’ambiente antico e segreto di qualche vita passata.

    Decisi che quella era la stoffa per lei, per vestirla, durante la creazione.

    La luce viola intorno lasciava immaginare altri segreti disegni, altre leggendarie forme, come se due mondi si unissero in questo punto preciso, creando l’intuizione e l’incarnazione e il canale che lasciava passare il personaggio, oltre il confine ove ogni creazione è possibile.

    Spartiti di pianoforte conduttore sparsi in fondo alla cantina suonavano da soli laggiù musiche conosciute, da riorganizzare, da accompagnare a quelle ossa, a quel volto, a quella terra, a quei colori inventati, adagiati come mantello sopra uno spazio piccolo e circolare, di bella placenta addormentata in cantina.

    In questo spazio era lei.

    Era il mio personaggio.

    Clara.

    Essa stessa luogo e tempo.

    Di una storia accudita, curata, cucita sopra vesti antiche, di madre, di luna.

    Forse di dea.

    Storia liberata dall’inchiostro veemente, fedele, paziente, reale.

    Forse di dio creatore.

    Che mette mani nella realtà e la rende immaginabile, con la complicità della dea.

    Nulla di più reale dell’immaginazione.

    Infinita e adesso. Nulla di più presente di un passato che continua.

    Immenso, in questo luogo. Nulla di più confinato di un’isola, di una città.

    Attraversata, ricostruita, immaginata.

    Rimessa nel ventre di Morgana.

    La Sicilia.

    Messina.

    FRYDERYK CHOPIN- Notturno n. 6, in SOL minore, Op. 15 - n. 3 - Lento

    PRIMA VITA

    Primo movimento

    Messina

    1956/1959

    Intro

    Clara

    Volto fugace, etereo, d’acquarello diurno, sciacquato di fresco e sciolto in mezzo a due pozze dorate di occhi, trasparenti nella luce calda di un mattino di città.

    Mattino afoso che sorge forte sulla pelle.

    Finestra bianca spalancata al quinto piano, a lasciare entrare ondate di scirocco generoso nel caldo impetuoso dell’estate, mentre lei in piedi sul davanzale pronta per uscire di casa, annusa odori aspri e asciutti dalla strada di sotto, gomiti appoggiati alla ringhiera secca e screpolata dall'afa, che si affaccia sulla via Romanzoli, alle spalle del viale Garibaldi, in faccia allo Stretto.

    Messina, 1956 e occhi che guardano lontano.

    In avanti? Altrove, certo.

    Altrimenti, direi.

    Le indicazioni nascono da lei, che dirige questa storia.

    A contare le nuvole, a guardare i tetti delle case, a cercare fiori fioriti sul balcone di Santina, l’amica di mamma, che coltiva zagare e bougainvillea.

    Scruta l’aria salmastra un attimo, a caccia di fata Morgana e poi scende in basso, Clara e cerca le lucertole piccole con i disegni fitti sulla pelle e le forme geometriche che viene voglia di colorarle dentro, di tutti i colori, che viene voglia di toccare con il dito i bassorilievi appiccicati sopra il dorso.

    Ma stavolta non le prende, come da piccola, per sentire il solletico delle zampe, no, le lascia passare sotto gli occhi di giallo saettati, le lascia slittare sotto le dita d’aria calda.

    E si ricorda di Herbert, il ragazzo tedesco che le aveva insegnato a catturarle e che quando lei ci era riuscita, lui le aveva dato un bacio senza solletico.

    Herbert la ama e lei spera sempre di incontrarlo per la strada quando esce.

    E’ bello, bellissimo, biondissimo, altissimo e ancora pieno di lucertole.

    Quasi diciotto anni, Clara e una pelle olivastra, di alabastro evocativo, pelle evanescente e polposa al tempo stesso, di spremuta di oro e di sangue, nei colori del mattino, negli scherzi della stanza opulenta di ragazza, nel passaggio dell’età, nella carezza della pelle non ancora nata, eppure quasi pelle di donna.

    Sì, pelle abbronzata e violenta di splendore, lucida come ossidiana burattata di vulcano e quasi spalmata sopra il corpo da una mano che la vuole ancora ingenua e piccolina - o picciridda di Missina, avissi a dìri- e che ha perciò creato, nella mente ancora informe, territori liberi e spazi innocenti e una grazia infantile e scherzosa che il passo adolescente non ha ancora lasciato dimenticare.

    Un corpo piccolo, senza peso, appoggiato alla terra lievemente, flessuoso nel movimento distratto.

    Un corpo senza traccia di dolore, senza angoscia di lontananza, senza memoria di assenza.

    Un corpo ancora senza.

    Herbert la ama e la vuole sposare e Clara vorrebbe andare via con lui, in Germania.

    Adesso.

    E sogna quel momento vedendolo chiaro davanti agli occhi, come quando Sabrina/Audrey Hepburn aveva conquistato David/William Holden nel film che aveva visto l’anno scorso, lei aveva sognato di conquistare Herbert e di sposarlo ed amarlo per sempre.

    E allora via! Via Col Vento! Via con lui! Via!

    E spazio alle mani palpabili, languide, di gelatina: sembrano bianche, sembrano un budino di latte.

    Suonano il pianoforte.

    Eppure mani caute a catturare con la dolcezza di un cigno sull’acqua la borsa bianca della scuola con il gancio dorato e la chiusura brillante a clip.

    L’ultimo giorno di scuola all’Istituto Tecnico e Commerciale Antonio Maria Jaci di Messina, sulla Via Cesare Battisti e avrebbe concluso il quarto anno.

    Indossa una gonna beige di losanghe marroni e nere, una camicetta bianca di cotone e scarpe nere, ballerine, nuove, disinvolte, aderenti al piede gentile, che corre veloce per le scale, più veloce di un gabbiano. Vola, piccola e ridente, superando le sorelle, Marisa, la più grande e Irene, quella di mezzo, che è sempre in mezzo, sempri 'nto menzu, pure ora mentre scende la stretta scalinata che la porta a pianterreno, scivolando sul corrimano rossastro di onde di sole.

    Di-scende i pensieri, di-scende su Herbert.

    I capelli corti, spessi, nerissimi, vagamente mossi - come ancora da tendenza, Audrey Hepburn vuole per l’epoca - donano forza, grazia e contrasto ad un volto piccolo, con un ovale vago, appoggiato e un mento che lo segue a ruota libera.

    Lo sguardo svampito e un poco sperduto e una forza a parte, nel folto nero dei capelli, non ben riconosciuta, forse solo presa in prestito da una fata che le ha donato questa bellezza delicata e timida che serve a pareggiare i conti, perché nessuno dà niente per niente.

    E senza contare altre differenze, altri talenti: ciglia nerissime, lunghe e soffiate - complice Eolo - in porzioni abbondanti sopra occhi dal taglio piccolo e dall’iride grande, dilatata sul mondo, specie quello dei sogni.

    E una manciata di sopracciglia arcuate, da ala di cucciolo di gabbiano, appoggiate su una fronte bassa e dritta, che si immerge nell’alta marea della massa corvina e quivi vi annega.

    Gli zigomi alti e il naso rotondo, vagamente schiacciato, donano un fondo di simpatia angelica al volto di Clara, che discende infine fra le curve dolci e regolari delle labbra, che proteggono la bocca vasta e preziosa, dove con il dono di perfette perle luminose la fata era stata di nuovo generosa.

    E aveva scommesso con quel corpo piccolo, agile e snello, messo per caso sulla terra, come a sperimentare la vita dentro quel metro e cinquantacinque di altezza, come a salvare l’amore dentro quelle mani musicate.

    I movimenti ondeggianti della testa seguono una segreta melodia, da cui lei si distacca con fatica, per seguire le sorelle e le compagne che la riportano alle cose della vita quotidiana.

    E’ lenta e pigra a scuola, spesso deconcentrata e non brilla certo per prestazioni nelle interrogazioni.

    E’ Irene quella brava a scuola, la sorella che Clara adora, la studiosa di casa.

    Lei conosce le strade, i negozi, le piazze, le scuole, i quartieri, lei sa organizzarsi in un battibaleno e ha le idee chiare, su tutto, su tutti. Lei ha il suo metodo di studio impeccabile, lei consiglia sempre bene, lei ne sa più di tutti, di tutte le loro coetanee, di tutti i giornali e le riviste, a volte pure di mamma e papà e di tutti i pensieri del mondo, specie quelli fuori Messina, direzione continente, direzione oltreoceano.

    Dove Irene vorrebbe andare. Dove Irene andrà.

    E lo vedrete!, aggiunge, mi fa aggiungere, mentre la scrivo.

    Siamo sicuri? Sicuri siamo. Sicuro in America.

    Sicuro perché lo ha già scritto pure lei. E quel che è scritto, accade.

    Sì, perché Irene scrive ed è pure un poco veggente.

    Scrive sempre, scrive in ogni luogo, scrive ad ogni ora, scrive in ogni momento.

    Scrive Irene futuro.

    Suona Clara pianoforte, pure lei suona futuro.

    Insieme fanno futuro, pure di questa storia.

    Ma non importa! In questa giornata, non importa il futuro!

    E’ felice oggi Clara a scuola e sogna la vita e l’amore e il suo Herbert.

    Lo sogna con quegli occhi nuovi, fiorenti e vaghi, che nuotano in una lontananza conosciuta, in un simposio di matrimonio già ricamato sulla trapunta piegata nel baule, sulle rose sparse sopra i capi di una dote che aspetta di essere indossata da qualche materasso di qualche letto di qualche casa forse americana, forse tedesca, forse italiana, per ora ancora solo messinese.

    Marisa, la sorella più grande, è già pronta per farlo, ha concluso il percorso degli studi classici ed è donna ed è pronta per farsi famigghia e picciriddi con Manlio, so zitu.

    L'anno prossimo si sposerà e si farà una bella cerimonia.

    E per Clara come sarà? Sarà diverso o uguale in Germania con Herbert?

    E poi suo padre l’avrebbe lasciata andare con lui? Quando si sarebbero sposati?

    Avrebbero avuto figli? E quanti?

    Le due righe delineate fra le pieghe esterne del mignolo chiuso nel pugno della mano, come da accordi sibillini, ad indicare il numero dei figli promessi dalla fata, segnano sempre 'due': due piegature dall’anno scorso e dall’anno prima ancora, dagli undici anni e forse da quando lei era ancora nella pancia della mamma.

    Allora sì, se continuano ad esserci le apostrofi uguali sulla pelle, significa che i figli sono due, così dice anche sua sorella Irene.

    Clara Wieck Schumann - Trio per Piano, Violino e Violoncello - Op 17 - II

    Scherzo - Tempo di Minuetto

    CAP. I

    Il Compleanno

    Pianoforte

    Messina, 3 agosto 1956

    La prima voce del mattino fu quella di sua madre, a risvegliarla dal bianco sonno notturno.

    Chiamava Marisa, la sorella più grande, per farsi aiutare a preparare il pranzo, perché era tardi e le melanzane pronte per essere fritte, già pulite, salate, scolate, asciugate.

    Nella sua stanza già profumo di dolci e di caffè ad intessere il risveglio nella luce ampia e afosa, nell'agosto di Clara.

    Il suo diciottesimo compleanno.

    Dal basso del letto la stanza le parve più grande, come se fosse cresciuta con lei durante la notte. La scrivania lucidata col panno di stoffa di ieri, la libreria con i sette ripiani di legno massello e la porta con la lucida maniglia di ottone cingevano con libertà zingaresca tutta la stanza.

    Vedeva le spruzzature di bianchi cristalli trotterellare infinite sopra il pavimento di marmo, come tanti pianeti di un universo stellato, che spaziava ovunque, perfino sopra il suo letto.

    La stanza era più grande, sì, cresciuta pure lei durante la notte e anche la luce aveva un potere più grande quel giorno, al risveglio.

    Era più vera, più intensa e distribuiva sopra le tende forme precise di donne in cappello di feltro e lunghi abiti da sera.

    Clara si spostò dalla posizione supina e ne assunse un’altra, da bambina, con la pancia e il viso appiccicati alle lenzuola, a ritrovare coccole e canti materni nel nido mattutino.

    La luce esterna alla porta della sua stanza filtrava da dentro con gaia presenza, rivelandone l’oro vittorioso e imponendo una voce allungata, quella di suo fratello Giovanni che creò, con l’ombra delle sue scarpe, un mantello da vampiro che si infilò veloce sotto la porta, per fuggire indisturbato da qualche parte della sua stanza.

    Gli occhi di Clara socchiusi nel letto ancora a sognare, a regalare nel giorno speciale sogni speciali ancora da fare.

    Ma il caldo già si stava annunciando, accorciando un poco il respiro, creando afa e sudore ed espandendo la pelle e i movimenti nella ricerca dell’acqua, di un bagno con cui rinfrescarsi.

    Le campane della Chiesa di Montalto rintoccavano le nove e il vociferare della strada la invitava ad alzarsi, a partecipare di quel movimento della sua città.

    Aprì le persiane della sua stanza lasciando entrare tutta la luce del primo mattino e sorridendo con tutti i denti perlati allo spettacolo della sua bella Messina.

    La strada di sotto era già popolata dei vicini di casa: Santina stava uscendo per andare a fare la spesa, per accattàri cìuri e pumadoru dà sutta e Lillo stava prendendo la sua Vespa 150 d’argento, la moto con cui attraversava tutta la città e portava le granite agli amici.

    Era il 1956, era agosto, era bello e Clara vide il mare viola distendersi in fondo.

    Lo toccò con la punta dell’indice, come a spalmarlo sull’orizzonte, accarezzando il confine di sopra, quinta riga di un pentagramma dove le note nuotavano nuove.

    Come ogni mattina cercò Morgana, la fata che fa le magie sopra lo Stretto, che fa vedere riflessi sulle acque i panni stesi delle case della Calabria, che arabesca sul mare il verde e l'indaco chiaro. La vide distesa là sopra, piccola e viola, su un ritaglio di mare attaccato dal sole e rise e sorrise e fece un desiderio grande, da grande: essere felice tutto il giorno in quella giornata di agosto e che tutto fosse possibile, nel suo diciottesimo compleanno.

    Chiamò Marisa di corsa, fuori dalla stanza, per condividere il prodigio della fata.

    Con grande sorpresa, suo padre, sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle erano radunati in salone, pronti a farle gli auguri.

    Dimenticò la fata sotto l’effetto felice degli applausi abbondanti e dei baci e degli abbracci di tutti, mentre le risa e i colori dei vestiti allargavano la sala da pranzo in un unico abbraccio di famiglia.

    Diventasti grande! le dicevano tutti.

    Oggi si fa una festa bellissima! sorrise la madre e tutte le donne di casa si devono vestire benissimo, rivolta alle figlie.

    Ora puoi cominciare a uscire con tua sorella, ma solo di giorno, soggiunse suo padre.

    "Papà, allora posso andare con Irene a ritirare la torta da Irrera?", chiese Clara allungandosi sul tavolo, dove si era appena seduta.

    Va bene, ma viene anche Nino, con voi, che è meglio, precisò il padre Orazio, appoggiandosi con un movimento lento e accurato alla sedia e inclinando leggermente la testa.

    Nino era Giovanni, il fratello più grande che provvedeva sempre a tutti gli affari della famiglia: non discuteva mai nessuna decisione del padre, perché tutto quello che si faceva era stabilito da lui.

    Clara, intanto, mentre il padre le stava parlando, gli osservava da vicino le mani, che avevano cinto la sua in uno scrigno di carne formato sul tavolo.

    Adorava le mani del padre, forti e pensose, come lui.

    Le diceva, con un espressione ferma e compiaciuta: "Sei la più picciridda della famiglia e sei ancora figghiola, perciò devi essere accompagnata. Sempre".

    Nino quel giorno aveva appuntamento con Mario, l’amico di sempre, per andare a vedere da Cundari nella via Santa Cecilia, l’auto nuova, la Fiat Seicento bianca, uscita l’anno prima e che finalmente avrebbe acquistato dopo tanti sacrifici, pure grazie al padre.

    "Papà, vedi che posso fare un po’ tardi: Mario, lo sai, è lonnu e puri iddu la voli vìdiri e fossi può iesseri chi s'accatta puru iddu".

    Sì, ma la torta non può aspettare, vedi che alle tre bisogna andarla a ritirare! proruppe Melina

    Va bene, andrà Marisa con Clara, ma farete presto presto, vero? si tranquillizzò Orazio, rivolgendosi alle figlie in ascolto.

    Grazie, grazie papà, canticchiò a denti stretti Clara, rannicchiandosi al padre, mentre la luce dolce e calda dei nove rintocchi del mattino dilatava le pupille della ragazza, insieme ai suoni delle campane di Montalto.

    La tavola intanto si era imbandita con altre granite al caffè, al limone, alla mandorla e con le calde brioche morbide, di forma semisferica sormontate dalla pallina e prese da Nino al mattino presto.

    Clara mangiò di gusto ma velocemente, per non perdere tempo, aiutare la mamma e iniziare a preparare le cose e forse pure studiare.

    Ma no! il giorno del suo compleanno, no! Non avrebbe studiato.

    Cominciò a parlare subito con Irene, la sorella intellettuale e studiosa della famiglia.

    Alta, slanciata, magra come il padre, Irene era un modello di riferimento per Clara, che la ammirava come un’opera d’arte, specie quando parlava e raccontava la storia e le origini della Sicilia, con quelle parole ricercate, raffinate, con quel tono impostato, dotto e un po’ arzigogolato.

    Irene era istruita e preparata e studiava moltissimo: era la più brava a scuola e prendeva sempre voti alti. Amava pure scrivere poesie e le dedicava a tutti e a tutti cosi.

    Aveva vent'anni, intelligenza, acume, dottrina, passione. E una bellezza d'altri tempi, da zia Lucia che scappa in America, da Madame Bovary da salotto di fronte al mare, da fimmina strana, ma strana assai. Sempre con grande chiarezza di pensiero.

    Aveva già finito le scuole superiori e voleva studiare all'Università a Roma, voleva seguire il suo sogno: scrivere. Sì picchì idda scrivìa sempri.

    Clara avrebbe voluto essere come lei: curiosa, attenta, sottilmente rivoluzionaria.

    Ma era diversa, era nell’aria, in bilico fra le due realtà, fra ciò che sognava di vivere per se stessa - e che ancora non sapeva bene cosa fosse - e ciò che era stato preparato da vivere dagli altri: dalla famiglia, dalla Sicilia, da un tempo stabilito.

    Ma, per fortuna, c’era Irene che si ribellava a quel sistema antico e superato delle cose e che la consigliava e l’aiutava a capire, a orientarsi, a pensare con la sua testa, oltre l'organizzazione stabilita. Anche se poi quel che più aveva il potere di fare chiarezza ed ordine nella sua vita e a rimetterle la testa a posto era il suo pianoforte.

    Era nella musica del pianoforte che lei aveva trovato la sua giusta dimensione.

    Sì, perché si era sempre sentita un'anima fuor d’acqua, ancor più di un pesce, in mezzo alle Sirene, alla Fata Morgana, a Tritone, a Nettuno, a Scilla e Cariddi, in quello spazio stretto dello Stretto di Messina.

    Mai abbastanza nell’acqua, mai abbastanza nella terra. Troppo nell’aria, troppo di aria.

    Ma con la musica trovava collocazione, trovava terra, trovava casa. trovava anima. Si ritrovava. E anche Irene, sorella sognatrice organizzata, era specchio diretto e ben collocato, nella stanza della sua coscienza, della sua anima.

    E le donava terra, forza e allegria.

    ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♪♫♫♪♪♫ ♫♫♪♪♫

    La giornata si stava riempiendo di giallo, di oro, di melograno, di fichi d’india, di voci acute nella casa, che rimanevano a volteggiare sopra i muri come fringuelli felici.

    Un suono più acuto, poi uno più sommesso, mentre i suoi pensieri sulla giornata si disperdevano nello scirocco che volteggiava nella casa aperta alla corrente.

    Clara davanti allo specchio della sua stanza, da sola, le mani libere, antenne aperte sopra il viso, a toccare gli zigomi, a picchiettare sopra le due montagnette di carne. Appoggiate le mani, gli occhi negli occhi a vedere le pozze disciolte, a cercare Morgana anche lì dentro.

    Qualcuno parlava sottovoce, qualcun altro rideva in due battute. Chissà cosa avevano da ridere e ammutolirsi, forse un nuovo segreto, forse la festa per il suo compleanno.

    Lo sguardo si spostò lieve, di fronte, attraverso lo specchio, verso la porta, a cercare risposta alle silenti parole nascoste, a intravedere la figura della sorella fra le luci quadrate del cristallo che svelava.

    Irene era brava a tenere i segreti, ma poi li diceva solo a Clara e questo, se mai fosse stato un segreto, non lo avrebbe voluto sapere. Meglio così, meglio avere un posticino nascosto dove custodire le cose che non si possono dire a nessuno. E anche quelle che non si devono sapere. Chiuse la porta, chiuse il cristallo.

    Nello stesso istante, avvertì una sensazione di languore e di frenesia insieme, uguali e contrari, per essere grande, per non essere piccola: le scarpe misuravano piccolo il piede, ma il cuore aveva grande parte nel corpo, in mezzo al suo seno.

    Ed era pieno di gioia e di sentimento e rivestito di pelle sensuale.

    E il pensiero di essere grande, più grande di ieri e di una festa dove forse avrebbe danzato con Herbert, il giovanotto che la corteggiava, le fece rotolare sotto il letto la piccola nostalgia di bambina.

    Rimase nella stanza a rassettare le cose, a rifarsi il letto e ad aspettare Marisa per uscire.

    Ascoltò il rumore di un furgone provenire dalla strada di sotto e che parve fermarsi accanto a lei. Non di sotto. Accanto.

    Aprì il cassetto e prese il foulard per coprirsi il collo, com’era nella moda del tempo, per custodire un po’ di vento accanto, per tenere stretto il segreto.

    Per essere più bella.

    Mentre si annodava il foulard, ascoltò il rumore del mare congiunto al rumore del vento, rotolati improvvisamente nella stanza come persone, stranamente vicini, stranamente presenti.

    Persino con un profumo, viola, che accendeva l’immaginazione. Il profumo arrivava dalla strada, dal furgone e stava salendo verso la sua stanza con la velocità della luce.

    Ascoltò il vociferare della casa. Ascoltò il profumo di quel mattino, mentre il rumore diventava armonia e una luce bianca, alta, attraversava la finestra e le inondava le mani, sollevate ad aggiustare un’onda capricciosa di capelli sul viso.

    Da lontano, si avvicinava, prima piano, poi forte, prima sulla strada, poi sulle scale, poi sul pianerottolo, il veglione del compleanno.

    Qualcuno lo stava preparando, qualcuno lo stava aspettando.

    Suonarono alla porta e, in un solo istante, Clara avvertì un improvviso, inspiegabile silenzio in tutta la casa.

    Uscì dalla stanza, chiamando la madre, mentre tutti gli altri parevano essere svaniti.

    Il silenzio era diventato pieno di voci nascoste e di presenze animate, forse in avanscoperta invisibile, come se tutto il corpo della famiglia si fosse solo diviso e spostato da un’altra parte.

    I fiori immersi nella luce del salone, confusero il profumo viola dell’attimo prima, abbagliando la ragazza col sesto senso della donna, mentre la madre la invitava, dalla cucina, ad aprire la porta.

    Immaginava di trovarsi tutti i familiari là, fuori dalla porta, a farle gli auguri, o forse era solo Santina che portava altri fiori, forse era la torta, forse….

    Avvertì di nuovo il profumo viola, avvertì di nuovo il rumore del mare.

    Aprì la porta, piano, sfiorandola, lasciò entrare, forte, la luce bianca e nera della sua musica.

    Non credeva ai suoi occhi, non era vero quel prodigio che due gentili signori stavano accompagnando in casa sua, trascinandolo con forza splendente.

    Un pianoforte ebano entrò, illuminato in ogni sua parte, dalla luce ingombrante e calda del salone, mentre Clara lo guardava ipnotizzata, creando, in quel preciso momento, il punto di incontro fra i suoi desideri e la loro realizzazione.

    L’entrata del pianoforte fu accompagnata dal grande applauso di tutti gli assenti, fuoriusciti dai loro nascondigli a fare uscire lacrime di gioia da Clara.

    Quell’istante, quando un altro pianoforte, oltre quello del conservatorio, entrò nella sua vita, fu come possedere la musica per sempre, come espanderla e pitturarla sulle pareti del salone.

    Gli occhi neri della madre e il sorriso piccolo del padre dirigevano l’entrata del lucido strumento e delle emozioni cresciute come lei a dismisura e a misura di pianoforte.

    Per lei, una specie di magia: Morgana l’aveva ascoltata, d’accordo con Tritone, squarciando con un fulmine la terra e facendo precipitare il pianoforte nel salone.

    Gli angoli, le forme, le corde, i tasti conosciuti: osservò, con la trepidante attesa dei diciotto anni, tutti i dettagli di uno strumento conquistato, che sapeva essere diventato suo per sempre.

    Le rotelle del pianoforte correvano veloci lungo il breve ed ampio passaggio del corridoio che portava al salone e si fermarono con il resto del corpo di musica vicino alla tenda del salone dove, all’insaputa di Clara, era stato creato lo spazio per accogliere lo strumento.

    Signorina, auguri assai! dissero i due gentili operai, ringraziando il padre per la ricompensa ed uscendo dalla casa di via Romanzoli. La giovane donna si avvicinò al pianoforte con una commozione incontenibile e con uno stupore da bambina: mise mani ovunque per accarezzare quel corpo di musica e guardando senza parole gli occhi verdi di suo padre. Sentiva in fondo al petto, dentro il cuore, squagliarsi la gioia di quel momento, mentre il respiro non ci stava più dentro, doveva uscire e cascare di fuori, scivolare attraverso i denti perlati e unirsi al respiro degli altri dentro il salone. Sua madre la abbracciò forte, appiccicandole addosso l’odore acuto della cucina, dove stava preparando parmigiana e arancini dorati.

    Il suo grembiule dipinto di fiori d’arancio a grappolo sopra il carretto siciliano le misero in circolo ovunque una gioia calda e speziata, dal gusto conosciuto, confinato lì dentro, nel cerchio dell’abbraccio creato dalla madre.

    I fratelli e le sorelle le si misero intorno, facendo a turno nei baci e nei salti lodevoli e pressanti.

    Irene rideva con i suoi denti aguzzi e lunghi, che la facevano somigliare a un coniglio di campagna che fuoriesce dalla piccola tana per saltare sulle spalle di Clara.

    Vedi che il pianoforte lo devi suonare solo di pomeriggio, perché la sera io debbo studiare e non mi posso distrarre con le tue esercitazioni… soggiunse Irene, gelosamente, ridacchiando sotto gli occhiali neri, a punta stretta.

    Non darle ascolto disse Marisa, accoccolandosela sotto il braccio, liscio come le panchine di marmo che ci sono al quartiere di Pace "tanto idda fa finta di studiare la sera e invece apre la finestra e guarda le stelle e poi sai che fa? Salta sul letto e basta", concluse la ragazza, facendo scattare il mento in alto.

    "E invece la ascolteremo tutti quando idda suonerà, oggi, domani e pure gli autri jonna. Clara è brava e si deve esercitare, lo ha detto anche il suo professore e questo regalo ne è la prova. Diventerà bravissima e tutti quanti la dobbiamo sentire e apprezzare. Oggi pomeriggio, quando faremo la festa, ci suonerà qualcosa, va bene?" ammiccò il padre imponendo risposta sicura e sedendosi sulla poltrona a fiori vicino alla finestra.

    Grazie papà per questo regalo, ti ringrazio tanto, sono felicissima e sono tanto emozionata che non lo so se mi viene da suonare oggi disse Clara dondolandosi nell’aria, con gli occhi stralunati.

    Poi corse dal padre e lo abbracciò con tutta la forza di ragazza che aveva.

    Vai, siediti, provalo, suonalo, suona per noi….! proruppe il padre, con tono ascendente della voce, accarezzando le piccole braccia nude della figlia.

    Aspettatemi, allora… facendo scivolare la voce fra le mura del salone e del corridoio, corse a prendere lo spartito.

    Era di Love is a many splendored thing, de L’amore è una cosa meravigliosa, uno dei film che amava di più: la musica di Sammy Fain, l’arrangiamento di Angelo Giacomazzi, il pianoforte conduttore.

    E l’inizio che era moderatamente con espressione, in cui si era già esercitata con il sentimento e l’attenzione necessarie per questo pezzo che aveva imparato quasi a memoria.

    La luce calda del mattino inoltrato donava un'atmosfera rarefatta e brillante all'atto sonoro e la musica fluiva molle e calda all'interno del salone, come un dolce da dessert, mentre una melodia densa e corposa si spargeva sui muri, sui mobili, sul tappeto e creava pensieri e sentimenti calmi, in attesa di espandersi e di liberarsi per la festa della serata.

    Fuori il caldo opprimente cominciava a schiacciare le case dentro una bolla compressa e le voci e le parole ne uscivano attutite, evaporandosi nei ritagli di cielo vicini.

    Quando la madre aprì la finestra del salone, entrò lo scirocco dell’Africa e uscirono le note di Clara.

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    Dopo il pranzo della domenica, che quell’anno coincideva con il suo compleanno, Clara aiutò Melina a sparecchiare e a dividere sullo stesso tavolo i dolci per la festa.

    La tovaglia bianca, impreziosita di pizzo sangallo e della perfetta stiratura, spezzava l’arredo dei mobili scuri vicino al pianoforte, dando sobrietà ed eleganza all’ambiente.

    Aveva provato lo spartito del film, per fare bella figura con gli invitati e adesso osservava il suo strumento in mezzo alle cose di casa, come uno strano sogno di una realtà improvvisa sulla testa.

    Sì, le pareva di avere battuto la testa, quel giorno, le pareva di sognare ancora il sogno dei diciott’anni: meglio del sogno, più bello, più forte, più grande.

    Il pianoforte verticale Capman, nero, lucido, come piume di corvi appostati nell'ombra, si imponeva oltre la metà del fresco tendaggio bianco del salone, alto quasi quanto lei, anzi no, era più alta lei, soprattutto oggi, che era cresciuta di un giorno, cresciuta di tanto, in un giorno.

    Osservò un dettaglio di quel pianoforte: il pedale di metallo al centro, la sordina, spiegata tante volte durante le lezioni dal professor Terzi, richiamava la sua attenzione almeno quanto gli ottantotto tasti in successione perfetta.

    Già, la sordina: che serve per interporre tra i martelletti e le corde un panno di feltro che attutisce il suono e lo rende più ovattato e creata per non dare troppo fastidio ai condomini di un palazzo. Quante volte lo aveva sentito! E così avrebbe potuto studiare, abbassare il volume durante gli esercizi e non disturbare Irene, mamma e gli altri di casa.

    Osservò meglio i due pedali delle corde e della risonanza e la sordina al centro: la forma allungata le era sempre piaciuta e come aderiva al piede ancora di più, nella complicità del contatto.

    Una cosa unica, il pianista e il pianoforte e il contatto fisico con lo strumento in cui ritrovava, ad ogni esecuzione, un prodigio e la voglia di suonare ancora. Era come l'amore, fossi, come quando si ama una propria creatura, come nella nascita, dopo il parto, quando le mani e l’odore del bambino appena nato e posto in braccio insegnano ad amare di nuovo, ad amare davvero.

    Come un amore che ti fa ricordare chi sei e che cosa vuoi essere: questo era per lei il pianoforte.

    E una voce di antica memoria, condotta dal sentimento, si raccontava suonando, dove le note, come corpi accorpati dentro il corpo-pianoforte, uscivano dalle mani e liberavano una storia d'altri tempi, una storia sognata da tempo, non ancora chiara prima, finalmente chiara dopo. Suonata.

    Impossibile descriverla a parole. E dargli una collocazione.

    Meglio creare una pausa. E uscire dal tempo.

    Pausa di quarto, senza tempo, con cambio di tempo.

    E' una memoria che si ricorda solo suonando, solo in-tonando le mani, parafrasando le note e lasciandole andare a ruota libera, come palloncini nel cielo che liberano il cuore, che spalancano le porte chiuse e aprono quelle socchiuse, per vedere i colori della memoria, per illuminare il passato.

    Forse è solo la memoria di Chopin, di Schumann, di Listz ad essere liberata e chiarita, attraverso la stessa esecuzione, forse è la sua stessa memoria ad essere risvegliata attraverso la loro musica.

    Loro romantici per storia le assomigliano, lei romantica per nascita gli assomiglia pure.

    Forse è solo la memoria di questa stessa storia ad essere risvegliata, qualcosa che ancora non si conosce e che si conoscerà, che si sta preparando da tempo e in cui i grandi pianisti aiutano a gettare luce, forma, sentimento, trama.

    Forse è solo la storia di una ragazza che vive a Messina, che ama il suo pianoforte, che studia ragioneria, che sogna l'amore, come tutte le ragazze dell'epoca d'oro di questi favolosi Anni Cinquanta.

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    Così Clara trovava l’amore, trovava il suo pianoforte, trovava Herbert.

    E poco dopo lo incontrava, di nascosto.

    Lui improvviso piegato sopra di lei a baciarle le labbra e toccarne la pelle, mentre le mani caute e ingegnose creavano il movimento lento e segreto.

    Il viso di lei timido e soffice, affidato con grazia alle mani.

    Viso appoggiato e incerto, guidato da una morsa infantile, stropicciata dal piacere del bacio.

    L’odore basso della pioggia nella cantina dell'incontro penetrava nella pancia con frenesia e lasciava cadere una goccia ogni tre secondi, creando un ritmo piacevole e lento, sopra una stretta fessura indefinita e aprendo le vene, dilatate nella mistura invitante.

    Il mio regalo per te, le disse il ragazzo nello stesso momento, spalancando l’azzurro nell’oro, sciogliendo i colori negli occhi, diluendoli sopra la pelle attraversata dalle dita delicate e coraggiose.

    Pochi minuti nascosti dentro quell’atto segreto, inaspettato, fuori dalla festa. Nella festa.

    Nello spazio improvvisato e improvviso, ove Morgana e Tritone preparavano la scena, la luce ghiotta e cremosa della cantina entrava sibillina ad espandere nella pancia parole segrete.

    Morgana, bionda fata illusionista, stava travestendo la luce di viola, aprendo la visione dell’amore, immaginato da Clara.

    Tritone pioveva acqua dal cielo, stavolta alleato con Giove e corteggiava la fata: i raggi come spade a tagliare le gocce, a lanciarsi insieme a catturare l’amore, a rivelare l’amore sopra l’incarnato mobile dei giovani, divenuto uno solo, un’isola stretta.

    In una terra aspra e riarsa da tempo. In un tempo antico, di fate, di attese, di visioni, di alleanze.

    L’alleanza degli dei, nei diciott’anni di Clara.

    Dobbiamo andar via, mi stanno aspettando…, divincolandosi piano, nella piccola fessura dorata stavolta creata da Morgana sotto la porta.

    Dobbiamo?, il silenzioso vociferare di Herbert, distillato sui confusi capelli della giovane donna.

    Il rumore dell’acqua che picchiettava e si accordava al marciapiede confondeva e placava ogni ragionamento, allontanandolo nel caldo ed umido piacere dell’abbraccio di Herbert.

    L’accordo delle gocce sopra la strada, fuori: do, mi, sol, si.

    L’accordo del battito del cuore, dentro: con la mano sinistra sul petto, le restanti note - re, fa, la- ad accordare le note di uno spartito non ancora suonato.

    Clara cercò di catturare tutti i particolari di quell’attimo: la camicia bianca di lui, morbida, un poco aperta all’avventura del momento con lei; le vene fuori dalle mani, ad intrecciarsi con i capelli, allargando la strada. Le scarpe bianche di lei, il senso di infinito dentro quell’abbraccio.

    Per un attimo pensò alla scusa della torta, al rischio di essersi allontanata dalla sorella, all’incontro con Herbert, di nascosto.

    A dover ritornare davanti al portone di casa, per ritrovare Marisa, per non tradire l’altro accordo con la sorella, che aveva imitato la fuga di Clara, allontanandosi con l'innamorato di sempre.

    La fuga estiva nell’acqua aveva creato nelle giovani sorelle una tensione gioiosa e un poco drammatica, che si allentò solo quando ritornarono nella loro stanza.

    Un piano perfetto, che lasciò appiccicato sui vestiti di Clara l’odore della cantina, il suono della pioggia, le mani di Herbert.

    "Matri! Tardissimo è!", proruppe mamma Melina, uscendo dal frigo gli ultimi nzuddi croccanti.

    Irene! Ireeene! Vieni ad aiutare…., tirando un colpo di fiato che si sparse per tutta la casa.

    "Non sènti nenti 'sta picciridda, sempre a lèggiri, mah! C'ama 'ffari!!!", sospirò sudata la donna bruna, di una bellezza massiccia e sacra, come il picco dei Peloritani del Santuario di Dinammare.

    Spostò un poco con il polso la massa riccia di capelli raccolti, appena fuoriusciti dalla presa del pettinino, mentre le gocce di sudore danzavano veloci sul volto, nella luce densa e forte che preparava con lei la festa per Clara.

    Le mani piccole e operose, di una motilità estrema,

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