La canzone napoletana
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Info su questo ebook
Con lo stesso tono popolare e appassionato tipico delle canzoni di cui tratta, questo libro racconta uno dei panorami musicali più vivi e peculiari dell’Italia di ieri e di oggi. Un’analisi che non si limita a concentrarsi sui testi e sugli aneddoti che li circondano, ma che si infila nei vicoli dove la musica viene ascoltata, in un percorso avvincente in cui il lettore è guidato e sedotto. Napoli non è solo una città ma una Sirena, Partenope, che canta sé stessa al mondo e a chi la vive. Dai salotti di Posillipo ai pescivendoli dei quartieri, dalle signore ingioiellate del Vomero ai femminielli della stazione, la canzone è ciò che unisce da sempre tutti i napoletani, e in questo libro Maria Sole Limodio ripercorre la storia e le evoluzioni di questo legame, restituendo un pezzo importante dell’identità culturale partenopea e italiana.
Dalle origini delle villanelle popolaresche al fenomeno LIBERATO, un viaggio attraverso La storia della canzone napoletana
Le origini
Dal ritornello delle lavandaie del Vomero a Funiculì funiculà, Salvatore Di Giacomo
La canzone classica
Il Novecento fino al secondo dopoguerra. Ferdinando Russo, Caruso, Ernesto Murolo, Libero Bovio, Carosone e tanti altri
La nuova Napoli dei ritornanti
La riscoperta della tradizione e i cantautori: Pino Daniele, Teresa De Sio
Gli scugnizzi ribelli
Almamegretta, 99 Posse, 24 Grana
Da Nino D’Angelo a LIBERATO
Il festival di Napoli
L’editoria, la festa di Piedigrotta, il ruolo del cinema
Maria Sole Limodio
Classe 1988, è una sceneggiatrice, pubblicitaria e scrittrice campana, laureata in Lettere con una tesi in Etnomusicologia e diplomata in Storytelling & Performing Arts alla Scuola Holden, dove ha poi condotto un ciclo di lezioni su “Le parole della musica e il ritmo della prosa”. È stata finalista al Premio Solinas, ha collaborato alla sceneggiatura di Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis. Presenta il Giffoni Film Festival e si occupa di strategia creativa e comunicazione per serie TV e film Rai e Mediaset.
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Anteprima del libro
La canzone napoletana - Maria Sole Limodio
Prefazione
Ribelle per storia e per natura, la musica napoletana difficilmente si lascia imbrigliare in un saggio accademico, perché ripudia di essere oggetto di studio, materiale dell’erudito, cosa morta da guardare con lenti gelide e sguardo nostalgico. La musica napoletana ha una storia lunghissima. Ha attraversato le epoche facendosene sempre interprete e addirittura portavoce. La tradizione
è il suo punto di forza. Una tradizione sempre in movimento che altro non è che una serie di sperimentazioni che hanno avuto successo e sono rimaste, sedimentando. Il suo canto però sempre sguscia, sempre è vivo e sfrontato e pieno di una grazia che non conosce catene. Ci vuole una mente altrettanto guizzante per avvicinarsi a una creatura del genere. Perché sì, la musica napoletana è davvero una creatura vivente, ibrida, marittima e ammaliante: una sirena, come viene definita qui da Maria Sole Limodio, che quella mente argentata ce l’ha. Sarà che l’ho conosciuta bambina e vista avvicinarsi con curiosità e grazia al suo oggetto di studio, la canzone.
È di certo per via della passione dell’autrice se queste pagine luccicano di precisione e di incanto, ma forse è anche merito della sua giovane età, che sa guardare al passato con gli occhi del futuro, trovando nelle qualità della tradizione partenopea i suoi aspetti sempre attuali, senza tempo. Avvolgente come i canti di cui ci parla, la scrittura di questo libro non tralascia né la natura politica della musica partenopea, né quella spirituale o quella sensuale, dionisiaca. Tutto diventa corpo, evidenza carnale: non freddo racconto ma panoramica languida, estatica, motivo per cui si sfogliano queste pagine senza fatica, ma anzi trainati da un richiamo limpido. Raramente la musica napoletana ha trovato testimoni narranti paragonabili al fluente e illuminante sguardo di Maria Sole Limodio.
Chi come me frequenta da tanto questa musica ritroverà qui i motivi del proprio attaccamento, chi non la conosce ne sarà rapito. Perché sono tantissime le cose che si scoprono ripercorrendo questa storia ricca di coraggio, dolore e passione, e io sono grata di introdurvi a questa lettura, in cui mi sono ritrovata come sempre ci si ritrova, quando si ritorna.
Teresa De Sio
Premessa dell’autrice
Ho sempre pensato che riuscire a capire da dove vengo e da dove vengono le mie parole, mi avrebbe portata più lontano. Le parole delle canzoni napoletane sono state la mia ninnananna da bambina, le preghiere di ragazza, le promesse d’amore. In ogni canto ho ritrovato la mia identità e costruito la mia rivoluzione. Perché la canzone napoletana non è una polverosa oleografia per nostalgici, ma un corpo seducente, ibrido, sinuoso, vivo, un corpo e una voce di Sirena. Partenope, appunto, la sirena-città che canta se stessa e il proprio sentimento, inabissata tra cielo e fuoco, tra roccia e vento.
La mia ricerca parte da lontano, da studi accademici, oltre che personali, da una tesi di laurea in etnomusicologia e si snoda nelle avventure giovanili per concerti, tra i più disparati, dalle feste popolari, alla musica colta dei teatri, mai disdegnando il neomelodico.
Questo è un saggio sulla canzone napoletana dalle origini ai giorni nostri del fenomeno liberato. Il tono di voce che ho cercato con fatica prova a somigliare alle canzoni: appassionato, popolare, a tratti ironico e irriverente. Ho provato a non aver paura del percorso lungo e complesso che dovevo intraprendere, perché quando si parla di canzone non si può non raccontare di Storia e di storie, di terre, di re, di popolo, di marinai, di ricchezze e di furti, di emigrazioni e di immigrazioni. Il saggio quindi si prefigge di non dare voce solo alla musica, con analisi dei testi e aneddoti documentati sulle canzoni, ma si infila nei vicoli dove la musica viene ascoltata, in un percorso in cui l’autore e il lettore, noi, insieme, ci perdiamo e ci ritroviamo, sempre guidati da un’eco di un canto.
Il saggio si rivolge a chiunque voglia scoprire, nel racconto delle canzoni, qualcosa di sé che credeva sommerso, la possibilità dell’eccesso, del sentimento e del pathos.
Dai salotti di Posillipo, ai pescivendoli dei quartieri, dalle signore ingioiellate del Vomero, ai femminielli della stazione Centrale, tutti cantano, conoscono, si innamorano con la stessa canzone che unisce il blu del mare al magma del Vesuvio, la purezza al desiderio. La musica napoletana non è affatto solo un fenomeno locale, è un’istituzione, un patrimonio, la bussola che accompagna i naviganti per il mondo. Partenope canta ancora, al passato, al presente e soprattutto al futuro, la sua voce libera, di sudore e fiato, si infila sotto ogni porta, non conosce limiti di spazio e di tempo. Va ascoltata per impazzire d’amore, per capire chi siamo, per conoscere la rotta che ci porta a noi.
Capitolo 1
Le origini
Napoli non è una città, è una Sirena. Napoli è Partenope, la sirena tra le più celebrate nel mondo classico, colei che cercò di conquistare l’amore di Ulisse ma che, non corrisposta, si lasciò morire in una zona della costa tirrenica: Neapolis, Partenope, la sirena, appunto.
E come ogni Sirena che si rispetti ha un canto, una voce ammaliante, che è richiamo e grido, che è seduzione e vendetta, che è amore e guerra. Napoli canta da sempre e inizia dal mare, dall’acqua, canta per chi parte, canta per chi torna, canta per chi resiste.
Lasciamo che sia idealmente proprio Partenope, femminile mitico e mostruoso, a condurci in questa avventura e a indicarci la rotta alla scoperta degli anfratti del suo corpo e del suo cuore. Alla luce di questa consapevolezza, non potevano che essere voci di donne legate all’acqua le prime testimonianze di canzoni napoletane, che partono dal xiii secolo, attraversano epoche e memorie, fino a raggiungerci.
Siamo nel 1200, e le mitiche lavandaie della collina del Vomero si recano a lavare i panni delle famiglie nobiliari nei ruscelli delle campagne. Ad accompagnare i loro gesti consueti, energici, uterini non solo il rumore delle stoffe che incontrano le piccole onde, ma anche e soprattutto i loro canti. Essi sono stati tramandati e arrivano fino a noi con il titolo Ritornello delle lavandaie del Vomero¹:
Tu m’aje prummise quatto muccatore
Oje muccatore…
I’so’ venuto se mme le vuo’ dare.
Ma cos’è questo muccatore
ovvero un fazzoletto promesso? Davvero solo un modo di narrare un costume dell’epoca? Un’anticipazione della canzone d’amore e della canzone a dispetto²? Niente affatto o meglio non solo. Questo delle lavandaie è un coro politico, è un canto di protesta teso a richiedere al sovrano Federico ii di Svevia i fazzoletti da intendersi come le terre promesse. Le terre usurpate. Nessun amore, dunque, nessuna smanceria, i primi sentimenti della Sirena sono quelli di lotta, di rivendicazione, sono voci di donna che hanno la forza dell’acqua.
Il Canto delle lavandaie è divenuto famoso in epoca recente per essere stato inserito nell’opera capolavoro e simbolo di Roberto De Simone, drammaturgo, regista, etnomusicologo, al quale anche questo libro è debitore, La Gatta Cenerentola. Lì le lavandaie capitanate da Antonella Morea, su un ritmo incalzante, richiedono a gran voce di ottenere quello che è stato loro usurpato.
Sempre degli stessi anni è un altro canto popolare simbolo delle origini, Jesce sole, anche questo figlio delle circostanze che Napoli stava attraversando. La città contava allora tredicimila abitanti, una propria Università, aperta anche agli studenti stranieri, per volere dell’imperatore Federico ii che la definiva civitas uberrima, fertile e produttiva, nonché ricca di salubratis aeris, aria salubre. Un periodo quindi di grande rinnovamento culturale e di vera e propria rinascita della poesia lirica, con la Scuola siciliana, in contrapposizione a quella di importazione provenzale. In questo clima, la Sirena canta ancora, per bocca delle prosperose e forti lavandaie di Antignano che rivolgono al Sole, alla divinità pagana e agreste di Dioniso, una preghiera, un rito propiziatorio. Ancor prima di addentrarci nei versi d’invocazione al sole, vale la pena sottolineare che il carattere sensuale, dionisiaco, quasi precristiano, elegiaco, Napoli non l’ha mai perso né nella canzone, né in nessun’altra arte. La scaramanzia, il paganesimo, è cresciuto dentro il cristianesimo, rafforzando i rituali con simbologie e riferimenti archetipici che parlano sempre all’uomo e per mezzo dell’uomo anche quando si rivolgono a Dio.
Jesce sole, jesce sole,
nun te fa cchiù suspirà!
Siente mai ca li figliole
hanno tanto da prià?
Questo testo è conservato in un codice di verseggiatori del ’400 nella Biblioteca di Parigi ed è ancora grazie a Roberto De Simone che oggi ha raggiunto popolarità. Al maestro De Simone e alla Nuova Compagnia di Canto Popolare e a tutti i gruppi che negli anni Settanta hanno dato vita a un importantissimo movimento volto alla ricerca delle radici della musica, con un rispetto etnomusicologico e una vocazione alla teatralizzazione, dedicheremo spazio più avanti. Restiamo ordinati affidandoci a una linea cronologica e torniamo a Jesce sole. Secondo lo studioso Salvatore Palomba, il testo esatto che risale ai tempi di Federico ii è un altro che fa proprio riferimento all’unico imperatore napoletano.
Jesce, jesce sole,
scajenta³ ‘Mperatore,
scanniello⁴ mio d’argiento,
che vale quattociento.
Era questo di Federico ii di Svevia un tempo di produzione orale molto forte. Non il primo, certo, stando a quello che già Petronio dice nel Satyricon, che secondo Salvatore di Giacomo è ambientato a Pozzuoli, nei pressi del tempio di Priapo, e nemmeno l’ultimo come un secolo dopo fa notare Boccaccio, con un sonetto, durante il suo soggiorno napoletano (1327-1340):
Sulla poppa sedea d’una barchetta,
Che ‘l mar segando presta era tirata,
La donna mia con altra accompagnata
Cantando or una or altra canzonetta.
Ancora le donne, le Sirene che cantano, sedute su una barchetta, forse per ammaliare il poeta, o forse – più probabilmente – solo per il piacere di cantare insieme.
Ma ecco che sia nel Filoloco che nel Fiammetta di Boccaccio si possono trovare gli echi di quelle che sono le vere e proprie Villanelle, o Napoletane, a tematica amorosa, destinate a influenzare tutta la musica degli anni a venire. Queste ultime prendono davvero forma solo nel periodo aragonese, ma possiamo trovarne degli esempi anche in epoca angioina in cui si riconosce nella produzione musicale tutta la suggestione e l’ispirazione ai fatti e agli scandali privati e politici dell’epoca. È sempre andato di moda il pettegolezzo di palazzo, come vedremo tra poco. La musica prese totalmente il posto della produzione letteraria di tipo popolare, che ebbe solo una diffusione orale. Sotto il regno di Roberto d’Angiò, arrivarono nel capoluogo partenopeo moltissimi artisti e letterati di provenienza toscana, portando con loro molto dello spirito umanista che in qualche maniera si riversò anche nel regno di Roberto, fautore tra le altre cose di una Biblioteca regia. Come spesso capita dopo la morte di un re tanto amato però ci fu un periodo di oscurantismo politico, per mano di due regine, Giovanna i e Giovanna ii, la quale nominò suo erede Renato d’Angiò. Il principe provenzale e la sua dolce moglie Isabella di Lorena, tanto acclamati all’ingresso della città dal proprio popolo, furono però presto messi in fuga da Alfonso v d’Aragona, che la regina Giovanna ii aveva in un primo momento designato come suo successore. E alla sventurata Isabella, il popolo napoletano canta con struggente compassione la sua fuga dalla città nel 1443:
Nun me chiammate cchiù donna Sabella
Chiammateme Sabella sventurata.
Patrona i’ era ’e trentase’castella
La Puglia bella e la Basilicata.
Così la Sirena canta per bocca di Isabella la sua umana sventura, canta una regina usurpata, canta una donna che perde tutti i possedimenti da un momento all’altro ma non la forza della sua voce. Tutto questo è ancora più evidente dalla variante interpretata dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare (nccp):
La sera me ’mbarcaje ’mbarconcella
e la matina me trovai legata.
Il passaggio dalla dominazione angioina a quella aragonese, e soprattutto il periodo di pace dopo il lungo periodo di guerre interne ed esterne, assicura alla cultura un nuovo fermento. Alfonso d’Aragona si dimostra un sovrano prodigo, in stile umanista, con un’attenzione alla poesia popolare, che elevò il dialetto a dignità di lingua. Sotto Ferrante d’Aragona poi, suo figlio, fu creata nel 1458 una Scuola di Musica che divenne presto punto di riferimento e residenza per artisti stranieri. La musica vocale divenne polifonica, destinata ovviamente a un pubblico colto e aristocratico mentre il popolo continuò a preferire una modulazione monodica meno sofisticata e, in qualche maniera, più vicina alla naturale espressione.
La produzione letteraria e poetica di questo periodo è in latino, tuttavia, inizia a prendere piede anche quella in volgare napoletano. Uno dei componimenti più famosi dell’epoca è Arcadia, un prosimetro pastorale di Jacopo Sannazaro, scritto verso la metà degli anni Ottanta del Quattrocento e pubblicato nel 1504 a Napoli. Ma è dello stesso Sannazaro questo frammento di una cosiddetta canzone di capodanno
giunto fino a noi?
Simmo li povere, povere, povere
E venimmo da Casoria;
Casoria e Messina
Simmo li povere pellegrine.
Non abbiamo certezze, siamo ormai già nel 1500 ma la paternità delle opere è ancora spesso incerta. Ci piace di sicuro pensare che i poeti di Napoli, come la città, sappiano passare agilmente dall’aulico al prosaico, dai poemetti pastorali, ai canti beneauguranti fatti per ricevere offerte. La Sirena è un ibrido e la vita si mischia sempre con la sua mitologia. Le fonti, a volte, nel racconto delle origini lasciano il posto alle leggende che comunque costituiscono parte del fascino imprescindibile di questa nostra storia.
Del medesimo periodo è anche la Vulumbrella⁵, altro canto popolare giunto fino a noi, ancora una volta, grazie al maestro Roberto De Simone. Lo introduciamo perché segna un passaggio importante, quello alla tematica amorosa e sensuale. La donna è esortata ad accondiscendere al desiderio d’amore, a coglierlo quando è maturo:
Fatte molla e no cchiù dura
mò che si’ formosa e bella
ca ogne fica vulumbrella
a ‘sto tiempo s’ammatura.
Originaria dell’isola d’Ischia, è una serenata che può essere cantata anche a cappella, cioè senza accompagnamento strumentale, nella quale vengono riprese tutte quelle esortazioni che ogni madre premurosa, specialmente nel contesto di una società come quella dell’epoca, dovrebbe fare a una figlia che si stia avvicinando all’età da marito. Il linguaggio utilizzato, coerentemente all’origine e alla diffusione popolare del testo, è scarno, privo di mitigazioni. Talvolta forte.
La fica vulumbrella
è il frutto già sodo e ben formato, ma ancora acerbo, che maturerà nella tarda estate all’ombra delle larghe foglie dell’albero di fico. Proprio l’aggettivo vulumbrella
, riferito appunto al sicònio del fico domestico, originario della Caria − regione dell’Asia Minore da cui in età remota la pianta venne diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo – assume anche i significati di soda, appetitosa, formosa
e poi ancora e specialmente integra, intatta
. Chiarissimo allora il riferimento alla verginità della ragazza inteso come frutto che aspetta d’essere colto.
Anche l’apparato strumentale è concepito per rievocare un’immagine bucolica molto precisa, utilizzata metaforicamente per descrivere la condizione della ragazza. È un attimo fugace, come la giovinezza. Per cui l’arpeggio lento e sensuale della chitarra e il contrappunto dell’arpa, a cui si aggiunge il tintinnio dei cembali e il suono cupo del timpano, servono a sottolineare l’avanzare delle ore durante le quali si compie il miracolo della maturazione. Si rievoca così un tempo sospeso, quello estivo, caldo e quasi assopito, che alimenta le terra permettendo ai frutti pigri e assolati di crescere.
Con questa serenata l’amante invita la giovane ragazza a non farsi altezzosa e scostante. Reggendo fino alla fine il paragone con il processo di maturazione del fico, la esorta a non sottrarsi ancora a lungo perché ella è come il fico che, se non fecondato per tempo, cade sterile e rinsecchito nella terra. È per questo che l’innamorato ricorda alla ragazza gli stessi insegnamenti da lei ricevuti dalla madre, affinché non dimentichi che il tempo della sua vita è scandito da stagioni, e che la sua stagione è ormai arrivata.
Ecco che la Sirena inizia qui a svelare il proprio corpo più sensuale, e dopo gli aragonesi offre se stessa alla dominazione spagnola.
Siamo in pieno xvi secolo e lo spagnolo è lingua ufficiale negli atti pubblici, mentre la produzione musicale e la poesia popolare continua in lingua napoletana, come testimonia la stessa villanella, chiamata altresì villotta o villanesca. Nata nelle campagne, spopola in città, si ricollega per le sue origini a poesie popolari napoletane più antiche, di cui riproduce il metro, di due tipi: a) uno o più distici a rima baciata; b) uno o più distici, ciascuno preceduto o seguito da un verso libero; con prevalenza degli endecasillabi. La villanella canta soprattutto l’amore in tutti i suoi aspetti, e all’inizio è eseguita a una o più voci e accompagnata da soli tamburelli e nacchere. Più avanti, si dà vita a una vera e propria costruzione melodica con l’ingresso di nuovi strumenti: il calascione, il liuto, le mandòle e le tiorbe⁶. La forma più arcaica spesso raggiunge anche la scurrilità come evidente in questa Sia maledetta l’acqua dove il doppio senso è limpido, per restare in tema.
Sia maledetta l’acqua stamattina
(…)
Me s’è rotta sta langella⁷
Marammé⁸ che pozzo fare?
Vicini miei sapitela sanare.
Questa Sirena non ha paura di cantare la perdita della propria verginità, con un linguaggio allusivo e sfacciato, raggiungendo una consapevolezza del proprio femminile che le canzoni a noi contemporanee possono solo invidiare. Per merito della musica le villanelle ebbero una gran diffusione fuori da Napoli per tutta Italia, varcarono le Alpi e furono musicate anche da stranieri. Tra le più importanti vale la pena ricordare la più famosa villanella a tematica sentimentale Boccuccia de no pierzeco apreturo che ormai costituisce per gli studiosi la prova della costruzione di un canone melodico a cui tutta la tradizione successiva non poté fare a meno di riferirsi.
Boccuccio de no pierzeco apreturo
Mussillo de ’na fica lattarola⁹
S’io t’aggio sola ’nt’a chess’uorto¹⁰
‘Nce resto muorto
‘Nce resto muorto
Si tutte ’sse cerare nun te furo¹¹
Questo è l’esempio più primitivo e al contempo più conosciuto di villanella, in qualche maniera un prototipo perfetto stampato a Napoli nell’ottobre del 1535. Si trova in una raccolta di quindici, anonime, conservate nella Herzogliche Bibliothek di Wolfenbüttel, ma è attribuita a Velardiniello, per quella necessità, di cui abbiamo già accennato, di trovare sempre un padre, un autore delle opere. Di fatto Velardiniello fu un autore anche molto prolifico e di indiscusso talento, tanto da attirare la fascinazione di numerosi critici e studiosi a lui contemporanei e nei secoli a venire. Si interessò alla sua produzione finanche Benedetto Croce che nel 1910 curò una pubblicazione proprio a lui dedicata. Ma questa villanella non ha attirato solo filosofi quanto numerosi interpreti che negli anni si sono susseguiti, cantando appassionati le sue strofe. Vale la pena ricordare l’emozionante Sergio Bruni del quale parleremo in maniera approfondita più avanti e l’edizione Villanelle Popolaresche del ’500, un album del 1978 curato da Eugenio Bennato su misura per la voce ancestrale e meravigliosa di Teresa De Sio, contadina e sirena. Anche a loro dedicheremo il dovuto spazio nei prossimi capitoli di questo volume.
Tra i contemporanei estimatori delle villanelle che hanno di fatto contribuito a salvaguardarne il grande valore artistico oltre che la fama, giganteggia Giambattista Basile che, nella sua raccolta di egloghe Muse napoletane, fa riferimento a degli autori di villanelle: Sbruffapappa e Giovanni Leonardo Dell’Arpa. Apriamo una più che doverosa parentesi su Basile e sul suo Pentamerone, Lo cunto de li cunti, il capolavoro indiscusso dell’epoca barocca, l’ideazione di un modello narrativo inedito e del genere fiaba, intrattenimento, divertimento, suggestione, spavento per i più piccoli, redatto in lingua napoletana nel 1634 e pubblicato postumo per interessamento della sorella dell’autore, la celebre cantante Adriana Basile. Il racconto dei racconti – Tale of Tales da cui il pluripremiato regista Matteo Garrone ha tratto un film nel 2015 ci interessa non solo per l’utilizzo della lingua napoletana che in quel momento diventa una nobilissima e al contempo popolare lingua letteraria ma anche e soprattutto per la musicalità presente in tutta l’opera, quella maniera di raccontare che ha le sue radici nell’oralità, nella canzone. Cinque giornate in cui dieci donne raccontano; la Sirena anche quando narra, canta. Ogni arte, nella sua forma migliore, tende alla musica.
Di lì a poco la villanella iniziò a entrare in crisi perché l’ispirazione popolare e contadina, sua vera natura, lasciò il posto a una dimensione colta e aulica, con tentativi polifonici che tolsero autenticità, divertimento, carica sovversiva al genere.
In questa fase si rileva, infatti, la presenza di canzoni in italiano accanto a quelle in dialetto napoletano, il che risponde a un’esigenza dei ceti dominanti nella Napoli di inizio 1600, di arricchire e diversificare il repertorio tradizionale di canzoni o villanelle.
E il ’600 è anche il secolo delle rivolte e delle canzoni che l’accompagnano. Tra tutte, la celebre rivolta di Masaniello è certamente tra le più importanti su cui il popolo napoletano ha costruito un immaginario musicale e artistico. Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620-Napoli, 16 luglio 1647), è stato il protagonista della rivolta napoletana che vide, dal 7 al 16 luglio 1647, la popolazione della città insorgere contro la pressione fiscale imposta dal governo vicereale spagnolo. Nella vita di questo personaggio non è sempre facile distinguere gli avvenimenti accaduti da quelli elaborati dal mito, che spesso gli calano addosso immaginari propri di epoche successive. Alla figura di Masaniello, per esempio, si attribuiscono valori rinascimentali che invece appartengono all’universo ottocentesco. Quello che è certo è come questo furore di rivolta ha modificato la musica del tempo. Significativo è l’omaggio che gli fa, ancora una volta, Roberto De Simone con ’O cunto ’e Masaniello, raccontando la sua storia di uomo irretito e poi tradito, che arriva fino al patibolo, fino alla morte ma il cui messaggio è destinato a non morire mai.
Negli stessi anni nasce il melodramma, con il suo apparato di danza e messa in scena, e parallelamente iniziano a essere composte anche a Napoli le prime canzoni in lingua italiana, tra cui:
Vaga bella Sirena
se potete col canto
farmi dolce la pena.
Nonostante la fascinazione dei ceti più colti per la lingua italiana c’è una spinta più forte che nasce mmiez’o mare
e che è destinata ad aprire la strada a un nuovo modo di fare musica: la tarantella.
Siamo nel xvii secolo e Michelemmà è la rivoluzione fatta canzone, divertente e ballabile, ancora oggi con il potere di entrare in testa al primo ascolto con il suo ritmo e verso ripetitivo, dal significato affascinante, oscuro e dibattuto. Ma prima di addentrarci nella simbologia e nei significati di questo archetipo di tarantella, è importante sottolineare quanto gli studiosi abbiano preso a cuore, come una vera e propria missione, l’attribuzione di paternità dell’opera.
Per Salvatore Di Giacomo, immenso poeta, drammaturgo e autore di canzoni in napoletano, non ci sono dubbi: Michelemmà è di Salvator Rosa, costi quel che costi, anche la falsificazione di un documento. Nel 1901, il poeta confezionò per scherzo una falsa copiella, un falso storico apparentemente in carta e caratteri del ’600, riportando i versi di Michelemmà, costruendo di fatto una finta prova che avallasse la paternità rosiana. Siamo entrati in un’epoca in cui la produzione artistica inizia a diventare d’autore e non più esperimento della creatività collettiva. Ma la fonte prima dell’equivoco è stato il viaggiatore e storico inglese Charles Burney che era entrato in possesso di uno straordinario documento, un Libro di musiche di Salvator Rosa; quel libro era sì di
Salvator Rosa, ma solo perché era appartenuto all’artista, non perché avesse scritto lui le musiche o i testi. Ma chi era Salvator Rosa? Un pittore, incisore e poeta nato partenopeo, attivo a Roma e Firenze (oltre che nella città natia), un personaggio eterodosso e ribelle dalla vita movimentata, con atteggiamenti quasi preromantici. Probabilmente ha ragione Di Giacomo a pensare che solo un genio vivido e ribelle potesse dare vita a un testo del genere… Peccato però che Salvator Rosa non avesse mai scritto in napoletano…
È nata mmiez’o mare,
Michelemmà, Michelemmà,
È nata mmiez’o mare,
Michelemmà, Michelemmà,
oje na scarola…
oje na scarola…
La canzone fa riferimento alle invasioni dei pirati turchi ed è scritta in endecasillabi spezzati, su un ritmo di sei ottave accelerate. Ma l’intera tarantella pone tantissimi interrogativi di interpretazione. Parla di una donna, sembra di capire, molto bella e molto contesa. Il primo interrogativo è: cosa significa Michelemmà? Per alcuni studiosi significherebbe Michela è mia
o Michela di mamma
. Per Roberto Murolo invece sarebbe il risultato linguistico di Michela a mare
. Allo stesso modo, cos’è questa scarola in mezzo al mare
? Il vero e proprio ortaggio? Per Giovanni Amodeo sì, in quanto il vegetale, nella tradizione ha proprietà taumaturgiche straordinarie. Renato De Falco invece traduce scarola
come una corruzione di scavotta
, cioè di schiava. Ma c’è chi la riconduce all’isola di Ischia, analizzandola come scarola-iscariola ovvero di Ischia, appunto. Roberto Murolo dà, ancora una volta, la lettura forse più stravagante, immaginando che con la scarola ci si riferisse a una nave pirata vista da lontano.
Rispetto a questa canzone non vogliamo suggerire la nostra interpretazione quanto invitare all’ascolto i lettori e a lasciarsi condurre negli abissi affascinanti delle molteplici suggestioni su un tempo 6/8, allegro.
Nel 1974 Roberto De Simone affidò alla ineguagliabile Concetta Barra una rivisitazione del Michelemmà per cui c’è una totale identificazione della ragazza con la storia di Napoli, piena di angherie, soprusi, guerre, saccheggi, inganni eppure di sopravvivenza e di bellezza attraverso il racconto e la canzone popolare.
Ma nel ’600 non ci furono solo antesignani della tarantella e continuò infatti un altro modo di fare canzone, potremmo dire più struggente e dolce una vera e propria serenata. Un esempio su tutti è Fenesta che lucive, dell’epoca di Masaniello, che si rifà a una poesia siciliana cinquecentesca di Matteo di Ganci, ispirata alla storia di amore e morte della baronessa di Carini e che trova poi la forma compiuta arrivata fino a noi solo nel 1842 come opera