Alien: Nascita di un nuovo immaginario
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Anteprima del libro
Alien - Boris Battaglia
merito
TITOLI DI CODA
Mezzo secolo fa
All’età di cinquant’anni
ogni uomo ha la faccia che si merita.
George Orwell
(ma alcuni la attribuiscono a Coco Chanel)
Cominciamo con questa specie di introduzione, che in realtà non è un’introduzione ma una necessaria resa dei conti con il mio immaginario miope (che è anche il tuo, se sei nata/o, come me, tra la seconda metà del secolo scorso e il primo ventennio di questo) senza la quale non potremmo arrivare ad affrontare l’argomento di cui tratta questo saggio.
Quello di cui ti racconterò è successo quarant’anni fa, nel 1979, ma per fare il salto temporale che ci porterà lì, in quell’anno assolutamente fondamentale, dobbiamo prendere la rincorsa. E partire da un punto preciso. Che è più o meno collocabile nell’oggi.
A meno che non ti sia capitato come è capitato a me, non puoi sapere cos’ha voluto dire essere nato agli inizi del 1968. Agli inizi, quando non era ancora l’anno che poi sarebbe diventato… così famoso. E allora te lo dico: significa essere stato troppo giovane, troppo piccolo addirittura, per il punk e tutte le cose toste degli Anni Settanta e troppo vecchio per i movimenti degli Anni Novanta. Ecco, è vero. Se sei nato nel 1968 significa che ti sei vissuto appieno gli Anni Ottanta, il decennio dei tuoi vent’anni. E se hai avuto vent’anni nel 1988 significa che ti sei divertito un sacco in quel decennio lì. Poi però hai dovuto portarti dietro la responsabilità di una cosa di cui allora, mentre ti stavi divertendo, non ti eri accorto: che proprio a causa di quel tuo divertirti, gli Anni Ottanta stavano assumendo una cattiva fama. Lo hai capito dopo; quando tuo malgrado sei diventato quello che sei diventato.
Bene. Adesso, che è quel dopo, ci sono tre decenni tra te e i tuoi vent’anni, e ce ne sono quattro – di decenni – tra te e i tuoi undici anni, quelli che avevi nel 1979.
È il momento di farci i conti.
Ho mezzo secolo e passa. Non mi faccio la barba, ma tutte le mattine guardo la mia faccia livida degli eccessi della sera prima nello specchio e mi fa venire voglia di scriverne. Per farti capire questa voglia di scrivere, che porta via tempo prezioso al vivere, devo partire da Creonte.
Allora. Quando Edipo, cieco per aver visto l’insostenibile (cose, tra l’altro, che aveva combinato lui), lascia Tebe e se ne va in esilio a Colono, in modo da concedere una speranza di salvezza alla città minacciata, per colpa sua, dalla peste (notare la simmetria tra la colpa di Edipo, che è costata a Tebe la pestilenza, e quella di chi si divertiva negli Anni Ottanta, che è costata agli Anni Ottanta una pessima fama che, come vedremo, si meritano tutta, e ai decenni successivi le conseguenze catastrofiche di quella colpa), i suoi due figli maschi cominciano a litigare. Ovviamente per il potere.
Eteocle prende il comando della città. Polinice, suo fratello, indispettito e invidioso, si rifugia ad Argo e dopo essere riuscito ad armare un esercito marcia su Tebe per conquistarla. In duello davanti alle porte della città, persa ogni ragionevolezza e scivolati nella stupidità tipica di chiunque si lasci avvelenare dal potere, si uccidono l’un l’altro.
Creonte, fratello di Giocasta, quindi contemporaneamente zio e cognato di Edipo, si ritrova così re di Tebe. E vieta per decreto, la prima norma scritta della storia di questa città (il primo protocollo), che il corpo di Polinice, il traditore che ha marciato contro la sua stessa patria, venga sepolto e onorato con le esequie riservate alla sua casta. Ma tu sai che Antigone, sorella di Eteocle e Polinice, contravviene alla disposizione di Creonte e celebra i funerali di Polinice come da sempre si addice ai padroni. Così facendo incorre nella condanna del nuovo re della città.
Tempo fa ho letto – detestandolo quanto invece avevo amato Il nodo e il chiodo – un libro di Adriano Sofri, Chi è il mio prossimo, che mi è sembrato un piccolo catechismo per ex-rivoluzionari in cerca di una mistica non dogmatica. Mentre lo leggevo, mi tornava in mente una cosa che proprio su Sofri aveva scritto Piergiorgio Bellocchio nel 1991, ai tempi del processo per l’omicidio Calabresi. Bellocchio sosteneva che i militanti di Lotta Continua ‘erano migliori di quello che sono diventati’. Questo è assolutamente vero e, alla prova dei fatti, evidente. Ma il punto è che Bellocchio in quell’articolo, poco prima di dire questo, criticava Eugenio Scalfari per aver paragonato, su la Repubblica del 2 agosto 1988 (notare la coincidenza con l’anno dei miei vent’anni), Sofri a un’Antigone da tre soldi e per aver sostenuto che la legge di Socrate, cioè la legge della città, alla lunga la vince su quella di Antigone.
Niente di vero, dice Bellocchio, e aggiunge: capisco che Scalfari si schieri con il potere rappresentato dalla città, ma Socrate con quel potere non c’entra niente. Socrate come Antigone è un ribelle; c’è da sperare, conclude Bellocchio, che alla lunga, a prescindere da quello che chi vi si ispirava, come Sofri, è diventato, comunque vinca la legge di Antigone. In altre parole: Sofri, qui come simbolo della generazione del ’68 (quella più o meno dei nostri padri, di noi che nel ’68 siamo nati), da giovane era migliore di quello che è diventato perché era un ribelle come Antigone e c’è da augurarsi che la ribellione di Antigone-Sofri vinca anche su quello che Sofri è diventato.
Solo che Bellocchio sbaglia, almeno tanto quanto Scalfari. Non è per niente conseguente che la legge di Antigone o quella di Socrate siano migliori o più giuste di quella di Creonte. Perché quella che hanno in mente loro è l’Antigone del Living Theatre, mutuata da quella di Brecht, non certo quella di Sofocle. Nella tragedia sofoclea, che fosse il simbolo della tirannide o di una democrazia guidata (quale era quella di Pericle al tempo in cui visse Sofocle), Creonte rappresentava una nuova idea di stato. Creonte rappresenta la rivoluzione della legge scritta contro la tradizione orale dei privilegi castali e sacerdotali: è contro questa messa in discussione degli antichi privilegi che Antigone si ribella. La sua non è una rivoluzione, è una reazione. Una difesa oltranzista della tradizione, di quella legge morale tanto cara ai sacerdoti.
Permettimi quindi, a questo punto, di citare Lacan, anche se lui ovviamente intendeva altro definendo così il personaggio della tragedia di Anouilh rappresentata nel febbraio del 1944 nella Parigi ancora occupata dai nazisti, e di affermare che Antigone non è altro che una piccola fascista. Una che disobbedisce alla legge di Creonte e della città, legge che – almeno nelle intenzioni – vorrebbe essere la stessa per tutti, ma lo fa obbedendo a quella che per lei è una legge superiore, una legge non scritta tramandata attraverso la