Gainsbourg: Niente è già tanto
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Serge Gainsbourg (1928-1991), con quasi 650 canzoni scritte in quarant'anni di attività, è probabilmente uno degli autori e interpreti più prolifici del secolo scorso. Poco conosciuto in Italia, se non per la sua relazione con Brigitte Bardot e per la scandalosa canzone Je t'aime... moi non plus, cantata in duetto con Jane Birkin, è stato un artista fondamentale per la sua continua ricerca musicale e linguistica. Grazie al talento musicale e alla provocazione permanente dei suoi atteggiamenti, ha portato la canzone francese (e non solo) nella modernità. Con questo saggio, che esce nell'anno in cui Gainsbourg avrebbe compiuto novant'anni, Boris Battaglia mette in luce, attraverso un'analisi critica e sistematica delle sue opere principali - da Histoire de Melody Nelson a You're Under Arrest, passando per Rock Around the Bunker -, il peso imprescindibile di Gainsbourg per una riflessione filosofica e strutturale sulla forma canzone e sulla sua importanza nella decifrazione della vita e del mondo.
Prefazione di Alessio Lega. Con illustrazioni originali di Paolo Castaldi, Lorena Canottiere, Chiara Panzeri, Lorenzo Sartori, Angelo Calvisi, Claudia Calia.
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Anteprima del libro
Gainsbourg - Boris Battaglia
Boris Battaglia
Gainsbourg
Niente è già tanto
Gainsbourg. Niente è già tanto
Boris Battaglia
Illustrazioni originali © Claudio Calia, Angelo Calvisi, Lorena Canottiere, Paolo Castaldi, Chiara Panzeri, Lorenzo Sartori
© Armillaria 2018
I edizioni digitale marzo 2018
isbn 978-88-99554-26-2
armillaria.org
armillaria.redazione@gmail.com
ISBN: 9788899554262
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
L’influenza del nichilista
Uno
Due
Tre
Il primo pacchetto
Il secondo pacchetto
Il terzo pacchetto
Il quarto pacchetto
Ultimo pacchetto
DISCO-BIBLIOGRAFIA MINIMA
Ringraziamenti
Armillaria Edizioni
Collana I Cardinali 4
a Marzia
che nonostante queste pagine
continua a preferire Brel
L’influenza del nichilista
Gainsbourg: ispirazione, colleghi, allievi
di Alessio Lega
Ho messo una maschera di cinismo
che non riesco più a togliermi.
Gainsbourg, 1969
Il libro che state per leggere – si suppone che una prefazione si legga prima di aver letto il libro, ma se anche foste di coloro che se la riservano per dopo, non vi sareste che messi alla pari con me – si concentra su un tema molto specifico.
Serge Gainsbourg, all’anagrafe Lucien Ginsburg, classe 1928, ebreo figlio di russi fuggiti dalla Crimea in tempo di rivoluzione e guerra civile, nato in Francia, aspirante pittore, poi musicista e autore, sabotatore per sangue, per indole e per cultura.
A poco meno di trent’anni d’età, Gainsbourg è giunto nella canzone francese apposta per disseminarvi veleno, per prendere una delle più consolidate tradizioni culturali nazionali e sparigliarne le carte fino a tentare di renderla irriconoscibile.
In quanto progenie di ebrei russi, si trattava di persona dubbia da qualsiasi lato lo si prendesse: sospetto ai fascisti perché ebreo, ai capitalisti perché russo, ai comunisti perché nato per volontà paterna fuori dalla patria del socialismo; cartina di tornasole insomma di un eventuale manuale globale di sospetto. Ha oggettivamente fatto del suo meglio (cioè del suo peggio) per distruggere la canzone moderna, all’epoca al suo apice espressivo e, sia detto per inciso, commerciale.
Ha confuso le carte fra significato e significante, ha destrutturato ogni elemento rassicurante, ha inflitto ritmi e suoni alla moda – di ogni moda che passasse per radio, anche solo per caso – alla canzone poetica ( chanson à texte direbbero i francesi, canzone d’autore diciamo noi), alla canzonetta di consumo ha conferito una consapevolezza demistificante e sabotatrice. In ogni caso, è il primo autore europeo riconosciuto come tale ad aver spostato il centro del suo lavoro dal significato – che bei tempi quello in cui ingenuamente lo si chiamava ‘messaggio’! – alla forma. Molti si schernivano: Brassens diceva «i messaggi li lascio portare al postino» e Ferré una volta ebbe l’impudenza di sbottare «che noia, questi cantanti impegnati». Loro scherzavano, lui smontava.
Il problema in tutto questo è che Gainsbourg era un genio, uno dei più importanti artisti pop del Novecento; che ‘la passione distruttrice è una passione creatrice’ (questa l’ha detta uno più figo di me, e forse anche di Gainsbourg, che si chiamava Bakunin) e che alla fine ha fatto e ha fatto fare ai suoi produttori e ai suoi interpreti anche un sacco di soldi (questo Bakunin non l’ha detto). Gli unici che non ne faranno siamo io e l’autore del libro (mannaggia a Bakunin!).
Questo libro inizia prendendo la questione Gainsbourg molto alla lontana, facendo il punto su concetti essenziali per misurarsi con l’avanguardia musicale che si contrappone al tardo romanticismo. Si parla di suono, di rumore, di dissonanza, di atonalità, dell’ingresso consapevole e programmatico di forme derivate dalla musica popolare e di tentativi di commistione della musica moderna col nascente jazz. All’inizio di questo libro si fanno i nomi di Schönberg, di Alban Berg, di Stravinskij, di Gershwin... E poi – attraversando i fantasmi dell’autore, presi per mano dalle sue ossessioni – si percorre in lungo e in largo la biografia artistica dell’oggetto principale. Giustamente, i principali colleghi di Gainsbourg nell’ambiente variegato della canzone d’autore francese sono citati solo in stretta relazione con la sua vita e arte.
Ma se una prefazione può avere una qualche utilità, forse è quella di fornire una sintetica mappa d’orientamento, tentare un paragone, designare degli eredi. Perché Gainsbourg, se pure ascoltava volentieri La Sagra della Primavera, Poulenc o l’onnipresente (nella sua musica) Chopin, poi passava in radio assieme ad Aznavour o andava cena con Nino Ferrer.
Chi si interessasse alla canzone d’autore francese – in Italia, chissà perché, è invalso il termine di chansonnier, ma in Francia, oltre ad essere percepito come vetusto e polveroso, riguarda più strettamente i fantasisti e gli umoristi attivi nei cabaret della Belle Époque – si troverebbe innanzi tutto davanti a tre nomi sacri: Brassens, Brel e Ferré. Approfondendone le origini, la tradizione culturale della canzone ha radici rintracciabili nella seconda metà dell’Ottocento: avete presente quell’antica silhouette, resa celebre dai manifesti di Toulouse-Lautrec, di Aristide Bruant ( Dans son cabaret)? Si potrebbe affrontare il Novecento dei café chantant sulle note della chanson réaliste, la cui più tarda e massima epigone fu Edith Piaf (la leggenda però vuole che Lucien Ginsburg da bambino incontrasse Fréhel, altra grande cantante del ‘realismo’). Si arriverebbe così agli Anni Trenta e alla personalità spartiacque di Charles Trenet, maestro cui tutti – compreso il nostro Serge – hanno tributato la più grande devozione.
Il dopoguerra parigino, si sa, fu il periodo dell’esistenzialismo, delle caves, della diffusione di un jazz intellettuale e non più esotico, l’ultimo scampolo della bohème e appunto quello del trionfo dei grandi chanteur (interpreti e il più delle volte anche autori): oltre la triade sacra già ricordata, Brassens, Brel e Ferré, c’erano Montand, Lemarque, Mouloudji, Boris Vian, Juliette Gréco, Félix Leclerc (antesignano di tutta un’ondata di franco-canadesi come Vigneault, Ferland, Léveillée, che avranno la doppia funzione di pilastri della francofonia in Québec e di innovatori in Francia) e subito dopo Barbara, Jean Ferrat, Guy Béart, Anne Sylvestre, Pierre Perret, Boby Lapointe, Maurice Fanon e con loro il nostro caro Serge... La generazione di Gainsbourg è la più numericamente ricca e, assieme ai cantautori ortodossi nel linguaggio e di maggior successo quali Barbara e Ferrat e ai geniali artigiani di nicchia come Fanon e Boby Lapointe, conoscerà la figura maggiormente dedita alla sperimentazione, quella con cui forse è più interessante tentare un paragone: Claude Nougaro.
Il fraseggio di Brassens, le preoccupazioni di Brassens, il ritmo di Brassens sono ritmi, più o meno, della fine del secolo scorso, di contro ciò che fa la forza di Brassens è proprio quel senso di spaesamento... e ciò vale anche per me. Ma né io né lui apparteniamo al presente, noi non abitiamo sulla Fifth Avenue a New York – è evidente – Brassens non sta sulla Fifth Avenue e io nemmeno... mentre c’è chi abita sulla Fifth Avenue: Nougaro.
Jacques Brel, 1971
Claude Nougaro, classe 1929, nato a Toulouse, è come Gainsbourg figlio di musicisti di professione (nel suo caso anche la madre lo era), come Gainsbourg appassionato fino alla mania del jazz, sempre come Gainsbourg è abile a giocare con la parola fino al funambolismo e – lo aggiungiamo come curiosità – è anche un valente disegnatore. Come Gainsbourg si ritiene a-politico, benché poi i temi sociali si affaccino non di rado nelle sue canzoni. Dotato di una voce calda e pastosa, di una straordinaria intonazione e di un invidiabile timing, Nougaro è forse lo sperimentatore di ritmi e di forme più estremo, la sua lingua ha la plasticità della creta, la sua sillabazione è percussiva. L’arte di Nougaro è cinematografica e sa spezzettare il racconto in campi e controcampi subitanei o incanalarlo su un piano-sequenza virtuosistico.
Sopravvissuto meglio di molti suoi colleghi chanteur al periodo della moda yéyé di France Gall e Johnny Hallyday (un momento di profondissima crisi che sancì la fine di decine di promettenti carriere, mentre decretò il trionfo di Gainsbourg come autore), si ritrovò comunque, all’inizio degli Anni Ottanta, senza etichetta discografica né manager. Senza perdersi d’animo vendette la casa per volare negli Stati Uniti e registrare il disco Nougayork, che gli garantì un grande rilancio verso una maturità costellata di successi, fino alla morte nel 2004.
Se dunque il Gainsbourg delle origini ha molti punti in comune con Nougaro, ed entrambi si possono considerare i più scatenati sperimentatori della scena musicale francofona, a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta le strade divergono. Nougaro è un prodigioso innovatore proprio perché crede nella sacralità del linguaggio, lo riadatta costantemente a nuovi ritmi e sonorità, lo ripiega e riforma mille volte come plastilina, perché ritiene che il linguaggio sia quanto l’uomo possieda di divino. Artigiano e cuoco della parola-suono, sembra golosamente assaporarne ogni nuovo impasto, ogni lievitazione. Visionario eppur concreto, è spinto da una vitalità sovrabbondante che esprime il suo meglio proprio nella comunicazione, sudando le canzoni sul palco, amministrando il respiro, facendo ingaggiare una battaglia fra gli strumenti e la voce. Una comunicazione non necessariamente etica, si tratta di storie che forse non sono senza morale, ma la cui morale semmai è appunto la storia stessa, l’intenzione di parlarsi, farlo con uno strumento sacro: la parola cantata, il significato unito al suono, l’anima col corpo.
Quand’ero adolescente – dunque un po’ imbecille – fui molto colpito da una frase di Chopin: «solo le bestie a sangue freddo hanno il veleno». Io voglio appunto essere una bestia a sangue freddo, sono piuttosto ‘gelante’, gelato, né passionale né generoso. Non sono per niente generoso, sono una spugna che prende, ma che non lascia andare.
Gainsbourg, 1967
Gainsbourg, all’esatto opposto di Nougaro, è guidato da una sfiducia sempre più tragica nella comunicazione, ogni suo esperimento è un sabotaggio e il senso estetico che l’ossessiona è a sua volta un sabotaggio del vivente. Anche le sue costruzioni discografiche più solidamente narrative – Histoire de Melody Nelson e L’Homme à tête de choux – sono storie narrate a nessuno che non portano a niente, morte proiezioni da Isola del dottor Moreau. La sua voce glaciale, o quella stridula e sfiatata delle sue attrici-cantanti, non fa che ripeterci un’unica verità: davanti, dietro, dentro o al di sopra della comunicazione non c’è nulla. L’amore fisico è senza uscite, senza speranza, Ti amo, Io nemmeno.
Questa lezione inassimilabile andrà oltre la generazione dello stesso Gainsbourg, tanto che due dei principali cantautori che, debuttando negli Anni Settanta, domineranno gli Ottanta e Novanta, si dichiareranno gainsbourghiani. Parliamo di Renaud, che si pagherà il lusso di far dirigere da Serge il suo primo importante videoclip e che cercherà grottescamente di replicare i fasti di Gainsbourg/Gainsbarre con Renaud/Renard, e soprattutto del geniale Alain Bashung e del suo post-rock barocco e decadente. Bashung ha avuto la fortuna di collaborare direttamente con Gainsbourg, che nel 1982 gli ha scritto i testi per un intero disco, Play Blessures, ma soprattutto