Geoanarchia: Appunti di resistenza ecologica
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Con 14 illustrazioni originali di Claudia Losi
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Geoanarchia - Matteo Meschiari
Matteo Meschiari
Geoanarchia
Appunti di resistenza ecologica
Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica
di Matteo Meschiari
Illustrazioni originali © Claudia Losi
(Untitled_animals, 2017)
© 2017 Armillaria
I edizione digitale aprile 2017
isbn 978-88-99554-20-0
armillaria.org
armillaria.redazione@gmail.com
ISBN: 9788899554200
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
Premessa
Come se
Potature
Geoanarchia
Primitivo/Primario
Elementi di ecologia urbana
Pensare paesaggio
Lessico minimo naturale
Frammento di poetica del terreno
Camminare alberi
21 passi sul terreno verticale
Ai bordi della mappa
Wilderness e poesia
Nota ai testi
Nota alle immagini
Bibliografia
Armillaria Edizioni
collana I Cardinali 2
Premessa
Nel giro di qualche anno, comunque molto presto, la terra diventerà l’argomento principale dei discorsi umani. Dall’ultimo posto nella scala delle preoccupazioni salterà al primo, perché il tornado ecologico che abbiamo innescato ci obbligherà a rivedere le priorità politiche e sociali del pianeta. Ci sarà allora bisogno di chiarezza, di solidità intellettuale, soprattutto ci sarà bisogno di immaginazione. Ma a chi ci rivolgeremo?
La crisi ambientale che stiamo per conoscere è soprattutto una crisi delle immagini, è l’effetto in superficie del non saperci immaginare nel vuoto che stiamo preparando e del non sapere immaginare la ricchezza degli ecosistemi che annientiamo. Immaginare non è prerogativa degli artisti, dei perdigiorno del reale, dei sognatori senza permesso di soggiorno. Immaginare è un processo selvatico, è il retaggio più attivo del nostro genoma selvaggio, è la preistoria attuale che portiamo nella mente e nel corpo, e che ci rende umani più di ogni cosa mai inventata.
Si tratta allora di intraprendere una lotta per le immagini, di costruire utopie alternative allo stato delle cose. Perché, cosa c’è di più concreto di un’utopia in grado di trasformare la percezione della realtà, di reinventare il presente? Se il nostro problema è il destino della terra, è dalla terra che dobbiamo partire. E la mia idea è semplice: pensare e praticare paesaggi per fare resistenza ecologica.
Appennino di Modena, primavera 2017
Come se
Quasi certamente lasceremo ai nostri figli e ai figli dei nostri figli una terra peggiore della nostra. Quando penso a un mondo peggiore non penso alla caduta dell’Occidente in mano ai barbari, ma alla caduta degli ecosistemi terrestri come li abbiamo conosciuti fin qui. Per fare fronte al collasso, l’uomo svilupperà tecniche di sopravvivenza alimentare, ambientale e sociale, ma non è detto che sarà in grado di resistere veramente. Perché la tecnica non serve a niente senza una mente in grado di affrontare con coraggio e ispirazione le privazioni e le perdite che ci attendono.
Fanatismi religiosi o filosofie dello spirito non potranno funzionare a lungo. Invece, quando penso a qualcosa di veramente efficace, mi vengono in mente i cacciatori-raccoglitori degli ecosistemi artici e subartici di 40.000 anni fa. Certamente avevano sviluppato tecniche di sopravvivenza basate su strumenti e competenze ecologiche perfettamente adeguati al loro ambiente di vita, ma quello che li ha davvero salvati dalla glaciazione è stato la loro capacità di produrre immagini.
Ciò che chiamiamo arte preistorica, e che certamente era tutto fuorché arte nel senso che noi diamo a questa parola, non era una sovrastruttura intellettuale o un gioco gratuito elaborati e coltivati in un eccesso di tempo libero. Era invece la prima e più efficace tecnica di sopravvivenza mai escogitata per resistere alla crisi ambientale. Molto più degli arpioni d’osso o dei vestiti di pelliccia.
Le immagini nelle grotte di Lascaux e Chauvet sono quasi sempre animali, ma animali che solo raramente sono stati rappresentati in una scena di vita vissuta. Al contrario, si tratta di esseri estratti e astratti dal loro contesto etologico, collocati a galleggiare in un generico liquido amniotico, senza terreno, senza paesaggio, in un fuori senza spazio e senza tempo che li rende più simili a idee di animali che non ad animali in carne e ossa. Si tratta delle prime vere utopie mai rappresentate dall’uomo, immagini di un mondo da cui lui, volontariamente, sembra autoescludersi.
Certamente nell’arte paleolitica si trovano anche immagini di umani. Ma sono segnate da una inspiegabile fragilità tecnica, come nell’impossibilità per l’uomo di vedersi chiaramente, frontalmente, in modo compiuto. Questi balbettii lasciano invece spazio a un glorioso bestiario preistorico, limitato nelle specie ma sovrabbondante nel numero, che è stato reso con grande perizia realistica, con minuzia di dettagli, con fermezza. Guardarlo è come assistere allo spettacolo di un’umanità che, osservando un mondo di soli animali, sta contemplando al tempo stesso la propria assenza.
L’utopia spaziale della grotta è una specie di ‘come se’ narrativo: ‘come sarebbe il mondo senza di noi?’, ‘come sarebbe se noi fossimo uguali a loro?’, ‘come sarebbe se loro fossero come noi?’. L’animale diventa la nostalgia di una semplicità atemporale perduta, che ha alimentato il sogno dell’anello di Re Salomone, i miti aborigeni di una connivenza perduta con gli animali, il darwinismo utopico della presunta purezza delle società animali, l’animalismo emotivo e quello giuridico, la traduzione antropomorfa dell’animale in bambino da compagnia o in antagonista ultimo dentro una plaza de toros. Una nostalgia che è molto più antica del guasto industriale, dei sensi di colpa postmoderni, così antica anzi da poterla immaginare all’origine stessa dell’essere Sapiens.
La nostalgia è la costruzione di un’altra storia che oppone il potrebbe essere all’ essere. Un esercizio del possibile, come i sogni notturni, i voli sciamanici, l’arte, il racconto, la schizofrenia. Ma la nostalgia, quando costruisce un ‘come se’ utopico, è soprattutto il terreno del totalmente Altro. Quello che ci dice l’arte preistorica è che l’alterità dei filosofi e degli antropologi nasce ab origine come alterità animale. Il primo grande vero altro-da-me è stato l’animale. Ma l’animale dipinto o graffito, per il suo galleggiare fuori dallo spazio e dal tempo, per il suo liquido u-topico, era anche un Altrove.
Pensiamo all’esperienza in una grotta profonda. La luce vacillante, l’eccesso di umidità, la mancanza di ossigeno, l’incertezza dei punti di riferimento, il disorientamento percettivo. E pensiamo al fatto che l’immagine dell’animale era integrata al supporto roccioso, ne sfruttava i volumi e i contorni per mettere in rilievo volumi e contorni della figura. L’animale era la pietra che inglobava, era la grotta da cui emanava, era la spazialità disorientante che si portava dietro. L’alterità per l’uomo del Paleolitico era prima di tutto un Altrove, un paesaggio in forma animale che non avrebbe camminato mai, se non in sogno.
Ma vediamo un’altra utopia. Nell’estate del 2008, a Uelen, nella penisola della Ciukotka, dei cacciatori locali di balene tornano a riva con la preda. Contravvenendo a regole sociali millenarie, anziché distribuire la carne a tutti, specie ai più poveri, decidono di metterla in vendita. La gente è incredula, pensa a manovre del governo centrale, parla di vergogna. Non quella che