Il Monopolio dell'Uomo
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"Io alla fine vedo una cosa: agli uomini come sempre è permesso tutto, la donna dev'essere di loro proprietà. La frase è vecchia e banale, ma ha la sua ragion d’essere pur sempre e l’avrà chissà per quanto tempo ancora", scriveva Anna Kuliscioff al suo compagno Andrea Costa nel 1880.
“Chissà per quanto tempo ancora” ce lo chiediamo ancor oggi con forza. È questa la sostanziale, drammatica attualità del testo che abbiamo deciso di ripubblicare. Una chiave di lettura così moderna, quella della Kuliscioff, che permette anche d’inquadrare le nuove misoginie dei giorni nostri: bodyshaming, pornrevenge, nuovi movimenti anti-abortisti, femminicidio.
I diritti acquisiti dalle donne, frutto di dure battaglie, stanno per esser messi di nuovo in discussione all’alba del XXI secolo? In questo libro, tutti noi (uomini o donne) possiamo trovare di che riflettere sul passato della condizione femminile, sul presente e sul futuro che ci aspetta.
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Anteprima del libro
Il Monopolio dell'Uomo - Fabiana Rosa
I Edizione ebook: 8 Marzo 2017
© 2017, Voce in capitolo – Torino
Tutti i diritti riservati
ISBN: 978-88-99961-25-1
http://www.voceincapitolo.com/
https://www.facebook.com/voceincapitoloedizioni/
Voce in capitolo è un progetto editoriale dell’Associazione Culturale La Tela di Aracne
Progetto grafico di Emiliana Nardin
IL MONOPOLIO DELL’UOMO
Anna Kuliscioff
a cura di Rossana Silvia Pecorara
INDICE
Chi ha paura dell'8 marzo? Misoginie 2.0 di Rossana Silvia Pecorara
Il monopolio dell'uomo di Anna Kuliscioff
Donne di Fabiana Rosa
Biografie
Chi ha paura dell’8 Marzo? Misoginie 2.0
Io alla fine vedo una cosa: agli uomini come sempre è permesso tutto, la donna deve essere di loro proprietà. La frase è vecchia e banale, ma ha la sua ragion d'essere pur sempre e l'avrà chissà per quanto tempo ancora
scriveva Anna Kuliscioff al suo compagno Andrea Costa nel 1880.
Già, chissà per quanto tempo, ci chiediamo ancor oggi. È questa la sostanziale, drammatica attualità di un testo come quello che abbiamo deciso di ripubblicare. Ce n'era proprio bisogno? Noi crediamo di sì.
Il primo chiaro ricordo che ho dell'8 marzo risale a una data facilmente collocabile tra il 1990 e il 1991. Potrei aver avuto dodici, massimo tredici anni. Stavo salendo sul bus privato che portava un pugno di ragazzini alla scuola pomeridiana di lingua inglese. Mentre mi arrampicavo sugli scalini del mezzo, sempre troppo alti per una preadolescente di piccola statura, il conducente mi porge un mazzo di mimose. Inaspettatamente. Era uno dei dipendenti che abitualmente guidava quel minibus, un ragazzo ricciolino sulla trentina d'anni (poco più, poco meno). Non era la prima volta che lo vedevo, ma certo non potevo prevedere quel gesto. Diamine, ero ancora una bambina, nemmeno una ragazza a dirla tutta, figuriamoci una donna.
Credo sia stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita. D'accordo, oggi non m'imbarazzerei più dovessi ricevere mimose da un vago conoscente, ma in quel momento rimasi pietrificata. Qual era il senso di quel gesto? Cos'ero e cosa stavo diventando senza nemmeno accorgermene?
Sono trascorsi gli anni e siamo a oggi, 8 marzo 2017, e ancora mi resta addosso una vivida sensazione mista d'imbarazzo e indifferenza per questa sorta di appiccicaticcia attenzione non richiesta tipica della festa della donna
. Ché poi perché imbarazzo e indifferenza? Non dovrebbe essere un giorno di celebrazione? Un momento speciale per riflettere sulla condizione della donna e sulle sue innumerevoli risorse e conquiste? Sí, ecco. È proprio questo il punto.
Molta strada è stata fatta da quando le suffragette scendevano in piazza a rivendicare la parità di genere, da quando Anna Kuliscioff chiedeva a gran voce i medesimi diritti per le donne in un mondo saldamente patriarcale, compreso il diritto a uno stesso salario a parità di mansione. Era il 1890 quando la Kuliscioff tenne una conferenza presso il Centro filologico milanese per mettere in discussione punto per punto le disuguaglianze tra uomo e donna. Snocciolò uno a uno gli argomenti per cui non si poteva in alcun modo pensare che la donna fosse per sua natura inferiore all'uomo (o potesse esserlo il suo lavoro) e riportò con dovizia di dati e di particolari i tanti esempi di disparità di salario, disparità di scolarità, di trattamento e così via. Dicevamo, era il 1890. Sono trascorsi da allora 127 anni, cento-venti-sette. Sbaglio o la Rai manda in onda degli spot finanziati dal Ministero delle Pari Opportunità per sensibilizzare i capi d'azienda e il popolo italiano tutto su quanto ingiusto sia che un ingegnere donna o una ragioniera o una commessa sia pagata meno del suo collega uomo? Ecco che accanto all'imbarazzo e all'indifferenza sale la rabbia in questo 8 di marzo. Proviamo a immaginare che tra 127 anni la situazione sia ancora questa, che tra 127 anni una ragazza o una donna dovrà arrabbiarsi ancora perché il suo lavoro vale meno di quello di un uomo. Ira, sgomento, incredulità, raccapriccio, indignazione, senso di umiliazione... Il ventaglio delle reazioni è ampio.
Chiaro. Possiamo votare. Possiamo accedere a qualsiasi grado d'istruzione o di carriera. Possiamo viaggiare sole per il globo (ma munite di velo in alcuni Paesi del mondo). Chi mai ci potrebbe dire nel 2017 che no, non possiamo separarci da nostro marito
o che no, non ci è concesso di guidare un camion
o qualsiasi altra cosa che ci venga in mente?
Eppure continuiamo tragicamente ad accumulare femminicidi, oltre cento ogni anno. E che dire degli stupri virtuali
in rete, sui social, dove foto comuni di donne ignare vengono gettate nel mare dell'odio e del più vile turpiloquio da uomini e ragazzi che non conoscono alcun rispetto o pietà? Ma possiamo parlare anche banalmente di finanziamenti e mutui negati a libere professioniste o lavoratrici autonome.
Donald Trump, tra i più fulgidi esemplari di questa mentalità misogina e intollerante, è diventato il nuovo Presidente degli Stati Uniti solo una manciata di mesi fa (era l'8 novembre 2016). Che significa questo per gli Usa e che significa per noi? Vedremo col tempo se è l'ultimo stizzito rigurgito di una sottocultura