Il volto della follia
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Info su questo ebook
Continua la storia di Ángel Salazar, il giovane psicopatico che, dopo il suo funesto passaggio per il centro minorile, viene ricoverato su richiesta del suo direttore, in un ospedale psichiatrico.Lì conoscerà Marta Savater, un'infermiera giovane ed inesperta, scelta dal capo reparto, il dottor Junqueras, per sorvegliare i movimenti dell'adolescente problematico. Tuttavia, una morte avvenuta in circostanze poco chiare, complicherà tutto...
Il racconto ci immerge nella quotidianità di un reparto psichiatrico qualsiasi, offrendoci l'opportunità di conoscere realmente le situazioni che i professionisti della salute mentale devono affrontare in questo tipo di reparti. Inoltre, come nel romanzo che ha dato inizio alla trilogia, il protagonista si troverà in un nuovo caso di omicidio che metterà alla prova le sue straordinarie doti deduttive.
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Recensioni su Il volto della follia
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Anteprima del libro
Il volto della follia - José Antonio Jiménez-Barbero
Il volto della follia
Le confessioni di un adolescente psicopatico II
––––––––
José Antonio Jiménez-Barbero
Copyright © 2017 José Antonio Jiménez-Barbero
All rights reserved.
Dedicato con amore
a mia moglie e a mia figlia,
che amo alla follia
––––––––
Scuse e ringraziamenti
L’azione di questo romanzo si svolge, in gran parte, nel reparto di psichiatria di un ospedale generale, nel quale vengono curate le patologie mentali più comuni come la schizzofrenia, la depressione, disturbi bipolari, disturbi della personalità... I personaggi di questo racconto sono, quindi, di fondo malati mentali e i professionisti che li curano: infermiere, ausiliari di infermeria, psicologi e psichiatri.
È importante sottolineare che sia i luoghi menzionati, sia le persone che appaiono in questa narrazione, sono esclusivamente frutto della mia immaginazione. Sono, pertanto, fittizi, sia l’Ospedale Generale Universitario "Florence Nightingale – un affettuoso occhiolino alla professione che amo, l’Infermeria -, sia l’Ospedale Psichiatrico
Vallejo-Nájera" di Espinardo, che porta in questo caso il nome dell’insigne psichiatra noto a tutti.
Sono fittizi anche tutti quanti i personaggi che appaiono nella storia, sia i pazienti che i professionisti. Al contrario, ho cercato di essere abbastanza fedele nella descrizione delle diverse patologie, così come l’organizzazione del lavoro dell’Infermeria in questo tipo di strutture. Per farlo ho utilizzato, ovviamente, il grande vantaggio che mi conferisce la mia esperienza professionale di oltre otto anni come infermiere specializzato in salute mentale.
Conosco abbastanza bene la rete di salute mentale della regione di Murcia, e posso assicurare che la professionalità di coloro i quali ne fanno parte è eccezionale per quasi tutti i casi. Perciò chiedo sinceramente scusa a tutti loro se in alcuni passaggi del racconto non ho dato un’immagine del tutto positiva del loro magnifico lavoro: devono capire che uno scrittore è tale per la propria storia, e che in alcune occasioni l’argomento di quella storia richiede alcune licenze. D’altra parte, gli atteggiamenti mostrati da alcuni personaggi di questo racconto hanno anche un fondo di verità nel ridotto numero di cattivi professionisti della psichiatria, che per sfortuna ho incontrato nella mia vita.
Infine, vorrei rivolgere i miei ringraziamenti all’èquipe di infermeria di salute mentale della regione di Murcia, sia infermiere che ausiliari, principali assistenti e custodi di questi pazienti.
Allo stesso modo ringrazio calorosamente il resto di magnifici professionisti di salute mentale della regione Murcia, specialmente mia moglie, la dottoressa María Pérez García, e il resto di psichiatri e psicologi che posso definire amici: Catherine, José Manuel, María, Desiderio, Mar, Loli, Ana, Matías, Isabel, Loreto, Manuel... e un lungo eccetera.
A tutti loro, dedico questo libro.
INTRODUZIONE
––––––––
Tre uomini col volto serio osservano il cadavere con aria sinistra.
Tre uomini che fino a qualche minuto prima ridevano e scherzavano come bambini, restano in silenzio assoluto, con gli occhi fissi sul letto brutto e arruginito che accoglie il corpo morto del loro collega.
Passa un minuto... due.. tre, fino a che finalmente il più anziano di loro decide di romperlo. Le sue parole sono fredde, riflessive, senza inflessioni che rivelino emozione alcuna, ma a quanto pare riescono a riflettere l’imbarazzante pensiero che si impadronisce di tutti, visto che i suoi colleghi confermano annuendo con una leggera inclinazione della testa:
- Quello che è appena successo non deve uscire di qui. La sfortunata morte di questo pover’uomo potrebbe rovinare la nostra carriera per sempre. In un certo senso, credo che non abbiamo nulla da rimproverarci: abbiamo agito con le migliori intenzioni... chi avrebbe mai creduto...
Lascia la frase a metà, come se si aspettasse che uno degli altri due la concluda, ma si limitano ad annuire di nuovo. Solo dopo un minuto, l’infermiere osa replicare:
- Per quanto mi riguarda, non si saprà nulla. Lo giuro – dice in tono solenne.
Il terzo individuo, un tipo basso, dalla pelle e gli occhi chiari, e sguardo bovino, sembra pensieroso. Non si spiega ancora come sia potuta succedere una cosa del genere. Il suo paziente, il suo collega, al quale lui stesso aveva disgnosticato soltanto un anno prima un disturbo depressivo maggiore, giace morto su un volgare e rozzo letto d’ospedale, dopo aver subìto un arresto cardiorespiratorio. Non ne conosce le cause, anche se sospetta che il suo amico abbia sofferto di qualche tipo di insufficienza cardiaca che ha accelerato la morte mentre applicava la prima scarica. Durante gli ultimi minuti, lui e i suoi colleghi, si sono impegnati duramente per rianimarlo, ma è stato tutto inutile. Se solo l’avesse visitato prima...
- Cosa dirò a sua moglie... aveva una figlia di appena nove anni... era nel fiore degli anni... – balbetta con voce rotta davanti allo sguardo diffidente degli altri due.
- Niente restituirà loro il marito e il padre. Ma se si viene a sapere che non sono state richieste alcune analisi prima di cominciare il trattamento di elettroshock, ci crocifiggeranno. Tutti e tre – afferma il più vecchio.
Si tratta dell’anestesista, principale responsabile nella somministrazione del medicinale necessario per addormentare il paziente durante la terapia, e del mantenimento delle funzioni vitali. Con oltre vent’anni di esercizio, è la prima volta che qualcuno muore durante un intervento assistito da lui. Il problema è che, inoltre, a quanto pare, questa morte si sarebbe potuta evitare. Gli esami preliminari prima di iniziare la terapia elettroconvulsiva comprendono un’analisi completa, una radiografia del torace, e l’elettrocardiogramma. Sono esami di routine, per lui semplici formalità, visto che l’anestesia che somministra è talmente leggera che il rischio è insignificante, ma il fatto è che avrebbe dovuto fare gli esami e aver verificato tutto prima di autorizzare l’intervento. Teme, ovviamente, per la sua carriera, il suo stile di vita, il suo futuro professionale. È talmente abituato a vivere agiatamente – oltre ad esercitare nella pubblica sanità, assiste anche interventi con una certa assiduità in diversi ospedali privati, cosa che gli assicura abbondanti entrate -, che non saprebbe cosa fare se all’improvviso si vedesse rovinato.
Lancia uno sguardo di traverso al suo collega, lo psichiatra, amico a sua volta del paziente defunto. Lui è, senza dubbio, in questo momento, la principale minaccia, visto che sicuramente l’infermiere non aprirà bocca, proprio come ha detto. È giovane e ambizioso e secondo ciò che ha confessato loro prima scherzando, si è appena indebitato per almeno dieci anni con il suo ultimo capriccio: una lussuosa automobile sportiva.
No. Lui non parlerà.
- È stata colpa mia. Ho insistito per iniziare la terapia il prima possibile – esclama adesso lo psichiatra con tono addolorato. – Non ho aspettato di fare tutti gli esami. E adesso è morto – aggiunge. Sembra sull’orlo di una crisi.
- Ascoltami! – gli urla l’anestesista, mentre lo afferra dal bavero, scuotendolo con forza. – Importa poco adesso di chi è la colpa. Il fatto è che accuseranno tutti noi di negligenza medica. Con un po’ di fortuna ci sospenderanno soltanto per un paio d’anni; ma ciò significherà la nostra rovina per sempre, capisci?
L’altro all’inizio non risponde. Invece l’infermiere osserva intontito la scena, più incuriosito che spaventato. È sorpreso dai dubbi che lo psichiatra manifesta su ciò che bisogna fare visto che per lui è chiaro fin dal primo momento. Alla fine decide di intervenire:
- Sentite dottori, credo di avere la soluzione. Ho delle amicizie in tutti i reparti di questo ospedale, quindi posso muovermi liberamente come voglio: non mi verrebbe difficile accedere ai registri elettrocardiografici e agli esami di individui sani, e aggiungerli al fascicolo... – suggerisce con tranquillità.
I due medici si voltano verso di lui, sorpresi, anche se nel loro sguardo si riflettono emozioni molto diverse. Il vecchio, l’anestesista, si mostra chiaramente fiducioso, mentre lo psichiatra lo guarda con una certa diffidenza e senza soluzioni. Ma a lui basta il cenno di assenso del primo per mettersi in moto. Quando lascia la sala, chiudendola a chiave dietro di sè, si guarda indietro un’ultima volta. I due medici restano lì, ancora impegnati nel loro strano balletto.
Nonostante l’accaduto, si permette un leggero sorriso mentre preme il pulsante dell’ascensore verso il secondo piano. Conosce molto bene il dottor Forcadell. È una vecchia canaglia, astuto e spietato. Convincerà il suo collega...
Com’è strana la vita, si dice mentre lascia l’ascensore ed entra con tranquillità nel reparto di oculistica. Il morto, un altro dottore, era solo un anno prima un rinomato e prestigioso psichiatra recentemente promosso a coordinatore dell’Unità di Breve Permanenza di Psichiatria e con un brillante futuro davanti. E all’improvviso, senza apparente motivo, cade in una profonda depressione, per la quale viene curato dal suo amico d’università e adesso collega di professione. Lo stesso che adesso aspetta giù sull’orlo di un collasso, tra le grinfie di Forcadell, aspettando che un semplice infermiere gli salvi il culo.
- Grazie tesoro – dice a Rosa, responsabile del reparto, e sua intima (in tutti i sensi) amica. – Ti prometto che te li restituirò tra un paio di giorni... è per un lavoro d’indagine che stiamo realizzando con degli allievi – spiega mentre le fa l’occhiolino.
- Non ti preoccupare, sai che abbiamo copia di tutto... ovviamente, se sei libero questo venerdì, potremmo organizzare una piccola uscita – dice lei con tono insinuante.
- Me lo segno – replica lui con lo stesso tono.
Qualche minuto dopo, torna al piano inferiore e dopo essersi debitamente identificato, entra di nuovo nel piccolo abitacolo, dove si realizzano le sessioni di elettroshock... Oggi, per fortuna, riservato ad un solo paziente.
- Bene, ecco gli esami – esclama con tono spensierato, di nuovo in presenza dei suoi colleghi. – Basta un vostro scarabocchio sulla richiesta, ed è tutto sistemato...
PRIMA PARTE
Il viale delle anime perdute
La vera pazzia forse non è altro che la saggezza stessa che, stanca di scoprire le vergogne del mondo, ha preso l’intelligente decisione di diventare pazza
Heinrich Heine. Poeta tedesco (1797-1856).
MARTA
Molte volte immagino un sacco di bambini che giocano in un campo di segale. Migliaia di bambini. Da soli, cioè senza adulti a sorvegliarli. Tranne me [...]
.
Mi trovo sull’orlo di un precipizio e il mio lavoro consiste nell’evitare che i bambini vi cadano. Quando cominciano a correre senza guardare dove vanno, io salto fuori e li afferro. Questo è ciò che mi piacerebbe fare per tutto il tempo. Sorvegliarli. Io sarei il guardiano tra la segale. Ti sembrerà una stupidaggine, ma è l’unica cosa che veramente mi piacerebbe fare. So che è una follia [...]
J.D. Salinger. Il giovane Holden
IL PRIMO GIORNO
––––––––
Lancio un ultimo sguardo all’interno dello stretto armadietto arrugginito: voglio essere sicura di non dimenticare niente di importante. Penne, pennarello indelebile, block notes, e infine il tesserino con scritto il mio nome e con la mia poco aggraziata fotografia in formato documento in un angolo... dubito un istante se prendere le forbicine dalla punta arrotondata che di solito uso per tagliare bende e cerotti, ma alla fine scarto l’idea. Non voglio beccarmi una ramanzina dalla responsabile il mio primo giorno, e le istruzioni ricevute per e-mail sono state molto esplicite: nessun utensile potenzialmente pericoloso.
Alla fine, chiudo l’anta e dopo aver messo il lucchetto, vado in corridoio dove mi unisco alla processione di infermieri, ausiliari, medici e inservienti che si dirigono tutti insieme verso gli ascensori, alcuni dal viso stanco ma soddisfatto, altri allegri, e pochi apatici o disillusi.
Dopo una breve corsa riesco ad entrare in uno di essi all’ultimo momento, poco prima che le sue tristi porte verdi militare si chiudano rumorosamente. Mi ritrovo lì con altre due infermiere e un medico. Quest’ultimo sembra osservare con una certa ostilità il cercapersone che stringe apprensivo in una mano. Le due infermiere, invece, parlano animatamente senza prestare apparente attenzione a ciò che succede attorno a loro. Le osservo con una certa attenzione, dopo aver premuto nervosamente il pulsante con il numero cinque sul pannello. Una di loro, la più veterana, è una donna paffuta e dall’aspetto simpatico. Dio solo sa quali esperienze avrà dovuto vivere. A quanto pare racconta un aneddoto che riguarda un paziente alla sua collega, una ragazza giovane, alta e magra e dagli occhi grandi e azzurri, che si chiudono appena. Non parla quasi, tranne per intercalare qualche Oh!
ogni tanto e tratta la sua interlocutrice con una cortesia che rasenta la venerazione. Mi chiedo se l’infermiera veterana si sarà accorta dell’ammirazione che la sua giovane amica nutre per lei. Probabilmente sì.
Una voce femminile e distaccata, registrata forse anni prima dall’impresa che installa ascensori, informa in quel momento: Terzo piano...
. Le due donne interrompono la loro conversazione, e adottano un’espressione seria nella quale si può intravedere una certa impazienza.
- Ok, vediamo che ci aspetta oggi! – esclama la veterana, mentre mi rivolge uno sguardo di complicità.
- Buona fortuna! – oso augurare loro.
- Grazie, altrettanto – risponde l’infermiera giovane, mentre segue la sua collega fuori dall’ascensore.
Resto da sola con il dottore. Ormai ha messo via il cercapersone e si limita a conteplare il tetto dell’ascensore, con una certa aria di impazienza. Quando ci mettiamo di nuovo in marcia, qualcosa fa deviare il suo sguardo su di me.
- Primo giorno? – mi chiede con tono spensierato.
- Sì – rispondo sorpresa. - Come ha fatto ad indovinare?
- A parte il fatto che la tua faccia non mi è assolutamente familiare, ho visto che indossi magnificamente il cartellino identificativo. Qui ormai non lo fa quasi più nessuno... ci conosciamo tutti, nel bene e nel male – mi chiarisce con un sorriso.
Sembra un tipo gentile. Probabilmente si aggira sulla cinquantina, e la sua testa grande – quasi enorme -, e calva, tranne per alcuni capelli che resistono all’altezza delle orecchie e della nuca, non c’entra nulla con il suo corpo, piccolo e dalle spalle strette e arrotondate, un po’ femminili.
- Che piano? – mi interroga di nuovo.
- Quinto – rispondo con una certa timidezza. – Psichiatria – chiarisco in maniera non necessaria, visto che il piccolo ospedale permette di ospitare un reparto per piano.
- Lo so. Allora buona fortuna... – comincia, ma ci interrompe di nuovo la fredda voce registrada: ...Quinto piano...
– pronuncia con il suo tono vuoto e insignificante.
- Grazie, dottore...
- Non sono dottore – risponde sorridente – soltanto medico. Mi manca ancora il dottorato, ahahah...
Esco dall’ascensore con la risata del medico che risuona ancora nelle mie orecchie. Di fronte a me, una porta chiusa di brutto metallo grigio un po’ scolorito si innalza minacciosa. Perplessa davanti questo primo ostacolo, mi metto alla ricerca di un campanello o qualcosa del genere; ci dovrà pur essere un modo per entrare. Poi i miei occhi incrociano un minuscolo bottone rosso, nascosto su un lato della parete. Dopo aver lanciato uno sguardo di traverso dietro di me in cerca di qualche suggerimento, lo premo con apprensione. Sento immediatamente una voce, che mi sembra gentile nonostante la distorsione che produce il citofono:
- Chi è?
- Sono Marta, la nuova infermiera.
- Ah, certo! – esclama la mia interlocutrice, adesso con tono allegro – entra!
Contemporaneamente al suono di un ronzio stridente, tiro con forza la porta pesante che, tuttavia, si apre con facilità. Trattengo il respiro per un secondo e con cautela entro, prima in una stretta anticamera che si apre più avanti in un lungo e largo corridoio, dal soffitto basso e poco illuminato.
La scena che si presenta davanti a me mi fa retrocedere, affogando all’ultimo momento un’esclamazione di sorpresa e paura: un gigante, di circa due metri di altezza, è completamente nudo davanti alla sala di infermeria, colpendo brutalmente il bancone che barcolla pericolosamente, mentre a quanto pare esige del cibo in una specie di gergo incomprensibile. Nonostante lo spavento iniziale mi obbligo ad osservarlo con una certa attenzione. La sua testa, un po’ piccola rispetto al suo enorme corpo, è totalmente rasata, nello stile dei malati mentali all’epoca dei manicomi. La sua bocca, rugosa come quella di un vecchio, nonostante lo spaventoso personaggio probabilmente non raggiunga i cinquant’anni, mi suggerisce una mancanza di dentatura, cosa che spiega in parte il suo farfugliare. Insieme a lui, o forse è meglio dire sotto il suo bacino, una minuta ausiliaria di infermeria si rivolge al bestione duramente, senza mostrare la minima paura.
- Paco! – gli dice con voce di rimprovero – sai già che la colazione non arriva prima delle nove del mattino, perciò puoi andare a fare la doccia... E dopo vestiti come si deve! Non voglio vederti più conciato così per i corridoi, cavolo! - gli dice, mentre lo conduce verso la sua stanza prendendolo dal gomito. Per un momento immagino la povera donnina schiacciata sotto l’enorme mano del tale Paco, ma la mia sorpresa è maggiore nel vedere il gigante obbedire sottomesso, e un po’ imbarazzato, alla temeraria ausiliaria.
Non so cosa pensare, e, non per la prima volta quel giorno, considero l’idea di fuggire di lì.
In quel momento, una voce canterina nella quale riconosco la mia gentile portiera, mi tira fuori dal mio stordimento.
- Ciao! Sei Marta? Entra, non startene lì impalata! – mi invita con un sorriso. Probabilmente si accorge della smorfia di terrore che deve essere rimasta impressa sul mio volto, perchè lei stessa esce dalla saletta e mi prende per mano, portandomi all’interno dell’infermeria. Si tratta di uno spazio piccolo e angusto, di circa quattro metri quadrati in tutto. C’è un tavolino rotondo al centro, dal colore irriconoscibile sotto uno spesso strato di macchie di caffè e qualche altra sostanza che non riesco ad identificare. Sei poltrone vecchie e consumate con brutta pelle nera lo contemplano, appoggiate alle deteriorate pareti verde sporco che reclamano con urgenza una mano di pittura. In un angolo, vedo un piccolo e vecchio frigorifero che brontola come affaticato e vicino, sopra una mensola attaccata, riposa un vecchio