Dimagrire con la psichiatria
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Anteprima del libro
Dimagrire con la psichiatria - Giorgio Villa
[297.3]
MADRE E FIGLIA
Da molti anni la signora Carmela, settantotto anni, e la figlia Giuditta, quarantacinquenne, erano ridotte a un vero e proprio stato di assedio
nel loro appartamento, all’ottavo piano di un vecchio stabile del ridente quartiere della Garbatella.
Nel caso di Carmela e Giuditta si era di fronte a un vero e proprio delirio condiviso che partiva dal fatto che Carmela era figlia di una ragazza-madre; costei aveva raccontato alla figlia che il padre era un nobile.
Anche il grande Totò aveva la strenua convinzione di essere figlio illegittimo del principe De Curtis e adorava essere chiamato con il titolo onorifico che includeva l’uso del voi
come una sorta di plurale maiestatis.
Madre e figlia, poco per volta, avevano costruito il delirio di essere delle nobili decadute, circondate da bifolchi indegni anche solo del loro saluto. Le due donne si ritenevano troppo superiori per dedicarsi alle minutaglie della vita quotidiana: per loro fare la spesa era già un’impresa umiliante e tale da esporle al contatto con un’incredibile quantità di gente vile e plebea
. Non parliamo, poi, di partecipare alle riunioni del condominio, andare in banca o pagare le bollette.
Conosciute comunemente come le matte del quartiere
erano, per così dire, seguite
dal Centro di Salute Mentale locale, anche se il loro rapporto con il servizio era veramente molto labile: qualche ricetta rilasciata ogni tanto dallo psichiatra dell’ambulatorio, il ritiro del piccolo sussidio economico che integrava la pensione di reversibilità di Carmela e, anni prima, qualche gita.
Ma da un po’ di tempo le cose non andavano più bene: i rapporti con il Centro di Salute Mentale si erano via via diradati, le bollette non erano state più pagate e poi le donne erano partite per un viaggio misterioso al Nord
anche se molti pensavano che si fossero semplicemente asserragliate in casa.
Poi erano ricomparse misteriosamente, ma il loro comportamento era diventato ancora più bizzarro: le spese si erano limitate a pochissimi acquisti fatti all’alba, presso il mercato rionale, quando ancora i clienti dormivano e arrivavano i primi camion per rifornire i banchetti di verdura e frutta.
Alla fine, da un paio di mesi, l’amministratore del palazzo aveva cominciato a richiedere un intervento urgente per una serie di stranezze che gli erano state segnalate: rumori sospetti, misteriosi movimenti notturni con trasporto di materiali per costruzioni che lasciavano, la mattina, tutte sporche le scale dello stabile.
Si tentò più volte di farsi aprire dalle due donne: ma alle scampanellate, ai biglietti sotto la porta, alle accorate richieste, rispondeva sempre un silenzio assoluto. Solo Spartaco, l’infermiere che si vantava di avere un udito stupefacente, diceva di sentire come un leggero scalpiccìo dietro la porta, o anche il respiro di qualcuno che sta in attesa. Roba da Dario Argento.
Si decise, allora, di effettuare un intervento con l’aiuto del 118 anche perché l’amministratore, quella mattina, aveva segnalato, con grande concitazione, che si sentiva una terribile puzza di gas per le scale. Come previsto, le due donne non risposero alle scampanellate degli infermieri, alle richieste dei vigili urbani e neppure a quelle dei vigili del fuoco che, alla fine, vennero chiamati.
I pompieri rappresentano il vero e proprio deus ex machina degli interventi del 118 e, in generale, di tutti gli interventi urgenti. Quando arrivano loro si sa che una soluzione verrà trovata in quattro e quattr’otto.
Fu un intervento scenografico e stupendo. I vigili del fuoco gonfiarono a tempo di record un enorme materasso arancione che avrebbe dovuto servire per lo più come deterrente al fatto che le due donne decidessero di buttarsi dalla finestra.
A dire la verità, uno dei pompieri, un po’ cinicamente, mi disse con fare confidenziale: «Dotto’, lo famo pe’ fa scena. Che se se butteno ce famo le porpette!».
Intanto, venne posizionato il camion con la scala che salì su su fino all’ottavo piano; pensai alla felicità dei bambini che giocano con i modellini dei camion dei pompieri.
Mentre osservavo la scena mi accorsi che, intorno a noi, si era raccolto un discreto capannello di persone, affascinate dalla rapidità e competenza della squadra.
Anche noi eravamo colpiti dalla velocità con la quale il pompiere più giovane si arrampicò sulla scala giungendo fino in cima. Con la piccozza di ordinanza ruppe il vetro della finestra e, da dentro, la aprì.
Subito dopo si ritrasse e disse qualcosa.
«Cosa c’è?», gridò, da sotto, il caposquadra.
«Pasta e broccoli», rispose il vigile da sopra.
«Cosa? Cosa? Cosa?», si chiedevano i curiosi raccolti intorno al camion e si rivolgevano soprattutto a noi, gli esperti della salute mentale, come se fossimo al corrente di una nuova terapia psichiatrica a base di pasta e broccoli.
Mentre un vigile entrava nell’appartamento, salimmo per le scale fino al pianerottolo dell’ottavo piano.
Pochi istanti dopo, il pompiere ci aprì la porta dall’interno e, subito, si diffuse un inconfondibile odore di broccoli lessi.
Le due donne sedevano in cucina con un atteggiamento di austera riprovazione e di contenuto sdegno.
Come avevamo osato disturbare la loro intimità? Come avevamo ardito di presentarci, non invitati, a casa loro?
L’appartamento, disordinato, ma non eccessivamente, era semi-sommerso nella oscurità; tentai di accendere la luce, ma non c’era niente da fare. La fornitura dell’energia elettrica era stata sospesa, così come l’utenza del gas, per via delle bollette ostinatamente non pagate. Rimaneva solo l’acqua corrente che, come si sa, è l’ultima utenza che viene interrotta.
Tuttavia qualcosa che bolliva c’era in quella casa e, in effetti, in cucina c’era un fornelletto da camping sul quale poggiava una pentola nella quale stavano cuocendo, appunto, dei broccoli con della pasta.
Scoprimmo ben presto l’origine di tutti i misteri che si erano andati accumulando in quegli ultimi tempi. Nel bagno di casa una vasta zona dell’intonaco del soffitto era caduta, fortunatamente mentre le due donne non erano lì. Le poverette si erano trovate in grande difficoltà perché non sapevano proprio come fare: quel problema era di spettanza dei manovali, di uomini meccanici e vili
e nessun famiglio era, al momento, al loro servizio.
Disperate e vergognose le donne avevano fatto quello che potevano. Di notte avevano cominciato a trasportare un po’ di buste di calcinacci per le scale, ma ben presto si erano rese conto dell’inadeguatezza dei loro mezzi personali per risolvere un problema così grosso. Per questo non rispondevano alle nostre scampanellate: venendo di giorno, le avremmo svergognate di fronte a tutto il palazzo e all’intero quartiere. Così si erano decise a chiedere aiuto e, nel corso delle ultime due notti, avevano provato a suonare i campanelli dei vicini.
«Ma con certa gente è più la spesa che l’impresa!», disse enfaticamente la signora Carmela.
«Lo sappiamo, del resto, che la vita è un fascio di spine che portano al rogo!», commentò icasticamente e misteriosamente Giuditta che, fino ad allora, non aveva ancora parlato.
Successe un quarantotto nel 1848, almeno in Europa, ma questo non ci interessa: sta di fatto che, nello stesso anno, lo psichiatra Jules Baillarger stabilì per la prima volta le basi concettuali della folie à deux
, ma bisognò attendere il 1857 perché pubblicasse alcuni esempi clinici di delirio a due
: nel 1873 Charles Lasègue e Jules Falret, infine, tennero una conferenza presso la Società Médico-Psychologique sul tema La folie à deux ou folie communiquée.
Mi ha sempre affascinato la Francia del XIX secolo: sembra che dopo le sconfitte napoleoniche il potere sia definitivamente passato alla Gran Bretagna, con la sua supremazia sui mari e con le sue precoci organizzazioni industriali, ma la Francia è tutta un’altra cosa. La cultura rimane solidamente ancorata alle strade e al clima di Parigi e lo sviluppo della medicina e della psichiatria non fanno eccezione.
Nella prima metà dell’Ottocento vi fu uno straordinario interesse per i fenomeni delle follie epidemiche: Esquirol parlava di contagio della follia, Calmeil e Morel di imitazione e di ripetizione. Prosper Lucas scrisse, nel 1833, De l’imitation contagieuse e, in compagnia dei colleghi Jolly, Déspine e Legrand du Saulle si scagliò contro l’azione irresponsabile dei giornali.
Negli stessi anni il filosofo Taine fondava i suoi scritti sull’idea di imitazione, mentre il fisiologo Luys riteneva che il cervello fosse solo un organo ripetitore. Del resto, sull’idea di ripetizione si fondava la legge biologica dell’ereditarietà.
Tutto questo per dire che il tema della predisposizione ereditaria entrava con forza nella discussione circa le forme di contagio mentale che, da fenomeno generale, diventava un fenomeno patologico grazie ai meccanismi dell’imitazione e della suggestione.
La folie à deux
è un quadro psicopatologico affascinante e più diffuso di quanto possa sembrare: consiste nel fatto che due persone condividono una convinzione delirante, resistente al giudizio, talora bizzarra e duratura nel tempo.
L’aspetto stupefacente di questo quadro è che il delirio non è una convinzione centrale per la vita di una singola persona, al contrario è condivisa da due persone spesso legate da un rapporto di parentela, ma non necessariamente. Nella costruzione delirante avviene che una delle due persone agisca in modo molto più attivo dell’altra: propriamente l’altro ne sarebbe succube.
Si tratta, quindi, di una relazione non paritaria, nella quale il potere del pazzo
viene a essere esaltato: da una parte viene a costituirsi l’immagine di un alienato potente e seducente, dall’altra la figura del seguace
che, come la folla nel caso delle epidemie, è facile preda di un delirio che è visto come viaggio, avventura, ma anche effrazione.
In questa direzione si svolgono i lavori di Scipio Sighele su La coppia criminale e di Gustave Le Bon sulla suggestionabilità delle masse.
Lasègue e Falret sottolinearono il ruolo sociale
del disturbo, che collocarono in alcuni gruppi più suggestionabili, ingenui o sottomessi come, ad esempio, i bambini, i poveri e le donne. Comunque, l’isolamento sociale viene compensato da un intenso appoggio reciproco che si basa sulla condivisione delle idee deliranti.
Ciò che interessa particolarmente è il riconoscimento della permeabilità della barriera fra sano e malato, cosa che pone decisamente l’accento sulla natura dei rapporti e della comunicazione, piuttosto che sulla presenza di una eventuale debolezza genetica originaria
.
Legrand du Saulle (1871) nel sesto capitolo della sua opera, trattando dei deliri di persecuzione, parla della trasmissione della follia.
Nel Manuale Statistico Diagnostico (il famoso DSM-IV) la folie à deux
è classificata come Disturbo Psicotico Condiviso [297.3]. In questo quadro è messo in evidenza il fatto che il delirio si sviluppa in un soggetto (succubus) che si trova coinvolto in una relazione molto stretta (e subordinata) con un’altra persona che ha già un disturbo psicotico con deliri rilevanti. Le due persone, poi, sono per lo più molto isolate nel loro contesto sociale.
Se la relazione si interrompe, avviene che il succubus vada incontro a un progressivo miglioramento clinico, ma non è detto che le cose vadano sempre così, anzi è tipico di questa forma di delirio il pensiero che non sia possibile sopravvivere senza la presenza dell’altro. Queste fantasie catastrofiche sono condivise frequentemente dagli operatori della salute mentale ma, per fortuna, si realizzano di rado.
Molti quadri attenuati di folie à deux
sono attivi fra genitori e figli, nel caso che il figlio sia portatore di un disturbo schizofrenico. In questa situazione il genitore (o i genitori) sono fermamente convinti che alla loro morte il figlio sia destinato a sua volta a morire. Il pensiero è così ossessivo che, in alcuni casi, si può persino giungere a tragici omicidi-suicidi.
Nelle sue forme più delicate, la folie à deux
si confonde con i quadri dell’innamoramento o di alcuni rapporti esclusivi: per esempio le amicizie per la vita
dell’adolescenza.
L’aspetto più affascinante riguarda la sensazione che il tempo emotivamente si sia arrestato a dispetto del mondo e della società che, intorno, invecchiano e mutano. La madre rimane sempre Madre e la figlia inesorabilmente Figlia e nessun altro rapporto, nessuna esperienza sono in grado di scalfire questa connotazione potentemente identitaria.
La folie à deux
rimane quello che è sempre stato sin dalla sua prima individuazione: un quadro psicopatologico elusivo, affascinante e non totalmente definibile né dal punto di vista della valutazione eziologica dei dati genetici, né di quelli ambientali e, quindi, la prognosi appare sostanzialmente imprevedibile.
Nel caso di Carmela e Giuditta, lo spettacolare intervento dei vigili del fuoco contribuì a conferire loro una notorietà inedita, in parte motivata dai sensi di colpa di quei condomini che si erano rifiutati di aprire loro la porta, mentre chiedevano aiuto.
La notizia della loro disavventura domestica circolò rapidamente nel quartiere suscitando un’ondata di simpatia e di partecipazione, come se ognuno pensasse: «Oddio, e se fosse capitato a me?».
All’uscita dal ricovero le donne trovarono un clima un po’ diverso. Molte persone cominciarono a salutarle rispettosamente chiamandole signora Carmela
e signora Giuditta
. Il fruttivendolo, poi, si offrì di portare a casa la spesa.
F24 Delirio Condiviso [297.3]
FIGLIA E MADRE
Paola e Maddalena, figlia e madre, avevano un gatto, Teodorico, che era un po’ come un loro figlio o nipote, un delizioso soriano di età imprecisata, ma sempre dignitoso e composto.
Paola era, come è naturale, la ragione di vita di Maddalena non solo perché le era rimasta quell’unica figlia di una famiglia esigua e striminzita, un albero genealogico rachitico e secco che già al primo sguardo sembrava comunicare: «Mi sto estinguendo».
Ma, soprattutto, Paola soffriva di una malattia della vista che, diagnosticata quando aveva solo due anni, sembrava non lasciare molte speranze. Si trattava di un cheratocono che avrebbe potuto portare la bambina alla cecità. Quell’antica diagnosi era caduta come una maledizione e, effettivamente, Paola era molto miope e astigmatica, ma la madre si era da subito preparata a considerarla come non vedente.
La sua tragica convinzione aveva fatto presa sulla commissione per l’attribuzione dell’invalidità civile: molto presto, sin dalla età di otto anni, Paola aveva avuto dei sussidi e, infine, a diciotto anni, le era stata riconosciuta l’invalidità del 100% con in più l’assegno di accompagnamento. E come si poteva fare diversamente? Con quella madre vedova che, magra magra, sembrava, come si dice dalle mie parti, in Lombardia, la rapresentant de la mort improuvisa
.
Terenzio, il marito, un ometto slavato, era morto di consunzione
quando Paola non aveva nemmeno un anno e sia lui che Maddalena erano figli unici di genitori molto anziani.
La granitica convinzione delle due donne era che tutto dovesse ruotare intorno alla presunta cecità di Paola.
A stento erano stati completati gli studi elementari, ma, del resto, su otto mesi di scuola era tanto se Paola riusciva a frequentarne tre. Non che fosse stupida, al contrario! Ma era come se ogni sforzo fosse teso a costruire un’immagine di persona fortemente handicappata. I neuropsichiatri infantili scuotevano la testa e, alla fine, si arrendevano.
Maddalena non era mai in grado di accompagnare la figlia, neppure una volta la settimana, per la psicoterapia o per la riabilitazione o anche solo per gli esercizi dall’ortottista, cosa che, anche se inutile, era stata proposta al fine di stabilire un rapporto con una situazione famigliare tanto povera e immiserita.
È proprio così: in molti casi non è tanto la gravità del quadro psicopatologico che condiziona il trattamento e la prognosi quanto la stoffa di cui è fatta una famiglia, le sue risorse e il permesso che può essere dato alla cura.
È per questo che noi psichiatri pensiamo di agire con la massima delicatezza, salvo, poi, accorgerci che siamo stati dei veri e propri elefanti in un negozio di porcellane. Nella nostra carriera avviene di vergognarci retrospettivamente molte più volte di quanto si possa immaginare e, certamente, più dei nostri colleghi medici, internisti o chirurghi che siano.
Comunque, Paola e Maddalena conducevano la loro povera esistenza senza grandi strappi, né entusiasmi ed erano finite a ruotare intorno al Centro Diurno del loro quartiere. Partecipavano a qualche gita, anche se molto raramente, e una sola volta a una festicciola all’aperto. Era venuto Sparagna con i suoi organetti e sembrava si fossero molto divertite.
Con grande sorpresa, ci segnalarono che si erano asserragliate in casa e che non rispondevano a nessuna scampanellata, non aprivano neppure più le tapparelle.
Si dovette ricorrere, anche questa volta, ai vigili del fuoco che abbatterono la porta, peraltro molto fragile, e con una serratura che forse io stesso avrei aperto con un cacciavite, ma tant’è: i pompieri mostrano sempre di avere fretta e spesso hanno la tendenza a compiere gli interventi più plateali, sarà forse per via del residuo narcisistico che rimane in questa scelta professionale.
Molti bambini, del resto, vorrebbero, da grandi, fare i pompieri e anche nell’ultimo concorso, leggo sui giornali, i partecipanti per un centinaio di posti reali (gli altri erano per sanare
i precari) sono stati più di centoventimila.
Paola e Maddalena facevano veramente impressione: i pochi giorni di reclusione le avevano ridotte come la madre e la sorella di Ben Hur che, però, mi pare fossero lebbrose. Paola indossava un paio di occhiali scurissimi, da sole, come sono soliti fare i ciechi; Maddalena sembrava una novantenne, invecchiata di venti anni in un colpo solo; pareva dovesse portare sulle sue spalle tutto il dolore del mondo. Non riuscivamo proprio a capire cosa fosse