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Tramonto Verde - #2: Il Castello
Tramonto Verde - #2: Il Castello
Tramonto Verde - #2: Il Castello
E-book326 pagine4 ore

Tramonto Verde - #2: Il Castello

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Info su questo ebook

Il primo libretto di questo romanzo narra di un'antica tribù in fuga e della sua tragica fine. Abbiamo lasciato Paxma, il suo colto sciamano, seduto al capezzale di Quilen, il capotribù moribondo e suo vecchio amico. Paxma allevia il dolore di Quilen mediante potenti farmaci, la cui azione può essere regolata al bisogno. Durante i periodi di remissione del dolore, Paxma racconta all'amico una storia appresa da un'entità viaggiatrice nel tempo, storia che si snoda in un futuro pressoché corrispondente al tempo in cui noi oggi viviamo. Quilen saprà che due catastrofi avvenute in epoche e luoghi molto lontani, inaspettatamente avranno avuto in comune alcuni spettatori misteriosi ed oscuri.
La storia di Paxma è l'oggetto del presente opuscolo (il secondo), e dei successivi; si estende su diversi continenti, e i suoi protagonisti sono i membri post-Catastrofe di un Centro di Scienziati situato a Borgo Castello, una città lacustre della fittizia nazione di Cordigliera, situata alla stessa latitudine dei villaggi dell'Italia settentrionale ubicati sul confine italo-svizzero. In tale Centro, fra i Maestri delle Divisioni Botanica e Fisica, ha luogo una competizione per il primato nella fornitura energetica al nuovo mondo, contesa che si arroventa per gli accesi battibecchi sorti al tavolo del biliardo. La combattività del botanico supera ogni limite e, nel suo esplicarsi, svelerà gli autori di una Catastrofe che ha quasi spazzato via la razza umana.
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2019
ISBN9788835338888
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    Anteprima del libro

    Tramonto Verde - #2 - Adriana Pertile

    Ringraziamenti

    Dedica

    Alla memoria dei miei bimbi Riccardo e Riccardo, mai dimenticati.

    Alla memoria di mio padre, Umberto Pertile.

    Presentazione

    Il primo libretto di questo romanzo racconta di un'antica tribù in fuga da un nemico, così come l'antefatto di quella ritirata, e la sua tragica conclusione. Abbiamo lasciato Paxma, lo sciamano della tribù, uomo dotato di cultura ben superiore a quella del loro tempo, mentre, seduto al capezzale di Quilen, capo moribondo della tribù e suo amico di lunga data. Paxma fa del suo meglio per alleviare il dolore di Quilen con l'uso di potenti farmaci, la cui azione può regolare a seconda del bisogno. Così, durante i periodi di remissione del dolore, Paxma racconta al suo amico una storia che ha imparato da un'entità che viaggia nel tempo, storia che si snoda in un futuro più o meno simile al tempo in cui viviamo oggi. Quilen imparerà che due catastrofi avvenute in epoche e luoghi molto lontani, inaspettatamente avevano alcuni spettatori comuni e oscuri.

    La storia di Paxma è il soggetto del presente opuscolo (il secondo) e i sequel; si estende su diversi continenti, e i suoi attori sono i membri post-Catastrofe di un Centro di Scienziati situato a Castle Burg, una città lacustre del paese fittizio delle Cordigliere, che si trova alla stessa latitudine della maggior parte dei villaggi del nord Italia che si trovano sul confine svizzero. In tale Centro, una lotta per il primato nell'alimentazione elettrica del mondo ha luogo fra i Botany e i Physics’ Masters, ed è reso incandescente da alcuni battibecchi insignificanti sorti sopra il tavolo da biliardo. La combattività del botanico supera ogni limite e accidentalmente svelerà gli autori di una Catastrofa che ha quasi spazzato via la razza umana.

    Fuga da Roma

    Era scesa nella desolazione di una strada che per la prima volta vedeva deserta e, non riuscendo a mettere in moto la macchina, ne aveva provate parecchie altre. Ce n’erano dappertutto, chiavi in cruscotto, panni di ogni sorta afflosciati sui sedili,sul pavimento; ma nessun motore s’era avviato. Avrebbe poi saputo che, nella generale sciagura, lo Stivale era stato tra i più sfortunati; sia in fatto di vittime che di crisi idrocarburi. Quasi dappertutto nel mondo i motori avrebbero continuato a funzionare, bene o male, anche per più di una settimana: ma lì, accidenti, proprio niente da fare ... da subito. Prese a vagolare per una Roma spopolata sotto il solleone.

    Era stata una famiglia allegra e numerosa la sua, i genitori ancora alla guida di cinque figli allevati nel culto della libertà. Quattro fratelli e lei, unica femmina, che più affiatati di così non si sarebbe potuto. Nel giro di una notte, quella che poi avrebbero battezzato la Luce Scarlatta aveva spazzato via tutto. Avrebbe compiuto vent'anni dopo un mese; il fratello minore ne aveva compiuti diciassette, il maggiore venticinque. Si era riavuta dallo shock solo al mattino, disperata ma risoluta a incassare la nuova realtà: dei suoi era rimasto solo il ricordo.

    Entrò in un emporio di articoli sportivi attraverso la vetrina semi-bloccata dal SUV che l'aveva sfondata. Scelse una tosta mountain bike, sua grande passione dei tempi del liceo. Prelevò anche scarpe da trekking, zaino, borraccia e un binocolo piccolo e potente. Fu attratta da un coltellaccio da Rambo che pendeva dal suo cinturone e se lo mise ad armacollo, il manico di traverso tra i seni. Scambiò minigonna e canotta, che non s’era tolte dal giorno prima, con dei robusti short da scout e camicia dello stesso genere. Buttò nello zaino un poncio impermeabile, un paio di pantaloni da caccia e una maglia di lana. Uscì dall'emporio, passando a fatica con la bici nell'esiguo spazio concesso dal SUV incastrato nella vetrina. Fece tappa in una panetteria, che trovò aperta, e aggiunse al carico un po' di cibarie. Queste, avrebbe poi scoperto, non sarebbero mai state un problema.

    Attraversò Roma, spinta a est da un istinto che filtrava oltre il suo stato catalettico. Tutta la città senza vedere anima viva: indumenti, calzature, sparpagliati un po’ dappertutto, e la brezza che a tratti li faceva rotolare sull'asfalto. Verso mezzogiorno, trovandosi nel piazzale della sua Università, pensò che l’istinto l’avesse guidata lì e vi entrò, sia pure un po' tentennante. Nessuno: soltanto pochi abiti sparsi qua e lè. Nel laboratorio della sua Facoltà incespicò negli short, nella maglietta di Claudia, un’amica laureata con cui aveva fatto colazione la mattina avanti. Sgobbava su una ricerca importante quella, ed era stata lì a notte fatta, certo intendendo fare le ore piccole.

    A giudicare da come aveva reagito alla scomparsa dei suoi, temette di ripiombare in crisi nera. Invece … amen. Già un principio di cinismo? Difficile dirlo in quelle condizioni, ma sapeva che il cinismo le sarebbe germogliato dentro, tappezzandola tutta ben bene come un'edera. Struggente lasciarsi alle spalle il luogo dove s’era fatta onore, grandissimo onore. Prima indiscussa in ogni materia, era stata in corsa per una laurea in fisica che si prevedeva più che fulgida. Scrollò il capo, stringendosi nelle spalle, cacciò indietro le prime lacrime della giornata, pigiò sui pedali e, stavolta di proposito, girò attorno al Cimitero Campo Verano per imboccare l’Autostrada dei Parchi.

    Si aggiustò su una pedalata che prometteva di durare e, zigzagando tra veicoli inchiodati, giunse a vedere l’uscita per Castel Madama mentre l’oro pomeridiano arrossava nel porpora serotino. E lì, finalmente, un essere umano. Un ragazzino smilzo e rosso di capelli, in braghette, canottiera e sandali, con un cavallo grigio scuro pomellato, che per contrasto pareva un monumento.

    Lui l’aveva vista da lontano e si era piazzato ad aspettarla in mezzo alla carreggiata. Il cavallo, vestito soltanto della cavezza, brucava l’erba del bordo, sventagliando una coda bigia.

    Ciao giovane, lo apostrofò. Sforzandosi di sembrare allegra perché, anche da lontano, quello gli era parso l’immagine dello sconforto.

    Si chiamava Remigio, dodicenne superstite di una famiglia di agricoltori benestanti dei dintorni di Tivoli. Anche loro una figliata numerosa e lui era stato il più giovane. Tutti andati. Anche i cani, due possenti bovari e un terrier ringhioso, spariti nel nulla. Ma che fosse stato così dappertutto?

    Ho paura di sì, almeno qui da noi: a quest’ora qualche aereo, che so, elicottero, avremmo dovuto veder … ma che dico, non c’è motore che funzioni … E poi era vero, accidenti, per tutta la giornata non aveva visto un cane nemmeno lei. Ma neanche un cavallo, né un asino, se era per quello. Era buona l’idea del cavallo, e lei un po’ ci sapeva anche fare. Ma loro avevano solo quel pomellato?

    No, disse Remigio cominciando a singhiozzare, ne avevamo anche uno più grosso, da lavoro, ma è sparito anche lui.

    Da lavoro?

    Sì, il nonno lo preferiva al trattore. Aveva avuto ottant’anni, il nonno, ma era in gamba e si riservava dei piccoli appezzamenti per coltivarseli alla vecchia maniera. Chissà dov’era adesso il nonno. Quanto a lui, tutto era accaduto senza che se ne accorgesse: il giorno prima era stato duro, nei campi, e il suo sonno era di pietra. Al risveglio, la casa era deserta e nulla funzionava più. Tirò su col naso. Ma tu almeno lo sai cos’è successo?

    Sì Remigio: saranno state le dieci e il cielo si è illuminato di rosso. Poi il rosso si è abbassato e per un attimo ci siamo stati tutti dentro, come in un acquario di sangue. I più sfigati (praticamente quasi tutti, avrebbe poi scoperto) hanno perso i sensi: bava alla bocca, tremito, convulsioni … Ma è durato poco: in pochi secondi la luce era sparita, lasciando un sottile strato di nebbia rosacea attorno ai cadaveri. Una nebbia che se li mangiava: hanno cominciato a rimpicciolire e prima dell’alba non era rimasto nulla.

    Aveva omesso il particolare più ripugnante: la nebbia era come viva, brulicante al suo interno di qualcosa di indistinto, un che di vermicolare, che lei non aveva osato indagare troppo da vicino. Tutto sommato, però, era andata giù troppo dura, come al solito, forse anche brutale. Ma non poteva farci niente, non era mai stata brava a indorare pillole. L’altro ci era rimasto di pietra. Anzi, pareva addirittura che di lui si fossero salvati solo gli occhi: spalancati su di lei come due fanali. Bisognava divagare: Va be’, disse, scorrendo l'orizzonte con finta noncuranza, prima o poi ne troveremo degli altri e la storia te la racconteranno meglio di me. Ma, e tu? Tu cos’hai fatto stamattina?

    Remigio si asciugò gli occhi con le nocche. Aveva perlustrato granai e stalle e, constatata la scomparsa dei cani e dell'altro cavallo, aveva cavalcato sino alla fattoria confinante. Solo per prendere atto che lì era successa la stessa cosa. Aveva liberato gli animali, era tornato a casa per fare altrettanto, e poi di nuovo a cavallo. Era lì sull’autostrada da un paio d’ore, non avendo idea di che fare. Scalciò via un ciottolo dall'asfalto. Mannaggia, ma cosa facciamo adesso? Che dici, torniamo a casa mia?

    Non mi pare una buona idea. Meglio muoversi, cercare altre persone. Andiamo su verso L’Aquila, diamo un’occhiata, poi se è il caso scendiamo a Pescara.

    Remigio si strofinò ancora gli occhi:

    Ma non sarebbe meglio girare qui attorno, liberare gli animali …

    Encomiabile, ma poco pratico. Dovremmo girare per tutto lo Stivale, allora. Senti, facciamo come dico io, e se per strada vediamo o sentiamo qualcuno, anche animale, in difficoltà, usciamo e ci diamo da fare. Lo tiene il trotto, il tuo cavallo?

    Dardo si chiama. Sì, trotta fin che voglio io.

    Com'è che non è sellato? E le redini?

    La domanda provocò un nuovo accesso di singhiozzi.

    Me lo diceva sempre anche la mamma. Ma io preferisco così: il cavallo è mio, me l’ha regalato il nonno, anche la sella. Ma l’ho usata poco.

    Di nuovo: poco pratico. Non facciamo una scampagnata e la sella può venir comoda in mille occasioni. Per appenderci qualcosa, che so io …

    Hai ragione. A casa ho anche le borse. Tutto su misura, diceva il nonno. Ma oggi non mi è venuto in mente, volevo solo andarmene perché a star lì m’era venuta troppa paura. Ma se ci sei tu, allora … Che facciamo, torniamo a prenderla, sta roba?

    Quanto ci vuole?

    Un’ora e mezza, più o meno, disse Remigio.

    Lei ci pensò su. Si rigirò a considerare il percorso fatto, poi di nuovo in avanti, verso i monti. Dondolò la testa:

    Ma sì, dai. Anche se all’Aquila conosco un maneggio dove ne troveremmo certo di buone. Ma non su misura. Ok allora, mangiamo, dormiamo lì e domani torniamo in autostrada. E se troviamo un buon cavallo, mollo la bici e cavalco anch’io.

    Non so se lo troverai. Oggi un po’ ho girato, ma non ne ho visti. I vicini avevano un paio di asini e un cavallo, e stamattina non c’erano più.

    Va be’. Anche la bicicletta non è male. Vuol dire che ogni tanto mi aspetterai: ce n’è di salite da qui all’Aquila.

    Dormirono nella fattoria di Remigio. Il giorno dopo, passando per Tivoli, lo fece equipaggiare per bene, e le borse della sella si riempirono. Il Remigio che infine cavalcò con lei verso l’autostrada vestiva shorts di jeans, un gilet da caccia di tela kaki e le immancabili scarpe da trekking. Furono all’Aquila dopo una settimana. Un’eternità, ma quei cento chilometri si erano moltiplicati perché l’orecchio di Remigio captava ogni minimo suono di origine animale.

    Hai sentito? diceva.

    Qui stiamo girando in tondo, faceva lei, spaziando sul paesaggio uno sguardo rassegnato.

    Ma poveretti, diceva lui con una vocina, arrossendo e rattrappendosi tutto sulla sella.

    Be’, insomma. Meno male che fretta non ne abbiamo. Il traffico poi è così leggero ..., diceva ancora lei, giacché non si vedeva anima viva.

    E lo seguì per strade poderali, sterrati, prati e stoppie. Sentendosi surclassata quando doveva dimenarsi sui pedali attraverso un prato, anche se falciato di fresco. O, curva, spingere la bici tra le erbacce di un gerbido, con lui torreggiante ben ritto sulla sella: lui, che in quei frangenti si faceva Gengis Khan. Optarono per innumerevoli deviazioni e deviazioni di deviazioni, seguendo remoti belati, cori di muggiti, qualche raglio, un solo latrato e nessun nitrito. Liberarono decine di mucche, centinaia di pecore e capre, mezza dozzina di asinelli, una quantità di maiali, un solo cane, migliaia di volatili e non videro alcun cavallo. Il coltello da guastatore eccelse nel taglio di corde, legacci e collari.

    Le sue rimostranze si fecero ogni giorno più fiacche, ravvivandosi soltanto quando, a ogni nuova mucca liberata, Remigio attaccava una lagna perché, poveretta, come avrebbe fatto senza qualcuno che la mungesse? Allora spostava il discorso su un argomento qualsiasi.

    Mi sa che il tuo Dardo in questa nuova … situazione, avrà centuplicato il suo valore

    Il ragazzino si grattò la testa:

    Sì, ma che me ne farei dei soldi?

    Cristo se aveva ragione. Era sì un problema e ci si era arrovellata anche lei. Voleva sperare che prima o poi qualche Risparmiato lo trovassero ancora. Ma, facendo due conti sui dati attuali, poteva stimare in quanti fossero rimasti nello Stivale. Nelle loro peregrinazioni avevano coperto, valutava, un decimo dell’area di una provincia media: ed erano rimasti in due. Con un po’ di ottimismo, e considerando le centodieci province dello Stivale, si poteva pensare che il numero fosse di duemilacinquecento, tremila. Avrebbe scoperto di esserci andata molto vicina, e che ciò rappresentava una punta di gran lunga negativa, nel disastro globale subito dal pianeta. Sicché: la popolazione di un villaggio, spalmata su tutto lo Stivale. Con magazzini ovunque, traboccanti di prodotti alimentari e altri di prima necessità, molti a lunghissima conservazione. Per non parlare di tutto il resto: macchine, articoli tecnici e utensili che, con un po’ di accortezza, avrebbero potuto durare decenni. Che farsene del denaro?

    Vedrai che saremo tutti obbligati a rinfrescare il concetto di equivalenza. L’avrebbe verificato lei stessa qualche mese dopo.

    Equivalenza?

    Ahi. In che classe eri?

    Ho fatto la seconda media.

    Allora dovresti conoscerlo. E andrà di pari passo con quello di baratto. Per il momento il cavallo non aveva prezzo, disse: bisognava tenerselo caro e basta. Ma, più avanti, il venir meno di qualsiasi genere apprezzato avrebbe fatto emergere personaggi abili nel produrlo, o comunque nel procurarselo. E loro avrebbero stabilito le condizioni: i prezzi, in poche parole. In termini di altri prodotti o servizi. Così sarebbe rinato il mercato. I cavalli, chi l’avrebbe mai detto, sarebbero stati più richiesti di qualsiasi super fuori strada del … tempo … era … periodo … Come definire ciò che si erano lasciati alle spalle da tre giorni? E quanto facile vederlo come una cosa ormai andata, quanto logico considerare irreversibile la nuova situazione.

    Remigio aveva ascoltato annuendo in silenzio. Alla fine disse: Non credo che darò mai via il mio Dardo.

    Nel tardo pomeriggio si davano a cercare qualche casa isolata nei campi, dove era più facile trovare fornelli e doccia funzionanti a bombole di gas liquido. Così si ripulivano dalla polvere della giornata, poi lei cucinava. Che Remigio la sbirciasse un po' se l'era aspettato, e ne aveva avuta conferma la prima sera, al momento di coricarsi. Non c'era niente di male e poteva capirlo. Le era anche venuto l'impulso di abbracciarlo, farsi abbracciare: impulso materno, fraterno o che altro? Ma si disse che la loro società si sarebbe sciolta a breve e, all'atto del distacco, ciò che fosse potuto nascere da una buona intenzione, al ragazzino avrebbe fatto più male che bene. Dormirono in stanze diverse.

    All'Aquila girarono a vuoto per una mattinata, prima che le venisse in mente la Casa dello Studente. Era stata ricostruita dopo un terremoto di due secoli prima e la sapeva autonoma quanto a energia, disponendo di un intero tetto di pannelli solari. Ci trovarono una decina di persone, confluite dalle valli circostanti. Alcuni si erano accodati a un ingegnere che conosceva la struttura e sapeva maneggiare le apparecchiature. Si erano organizzati e per un paio di giorni avevano acceso un falò nel cortile, perché la colonna di fumo attirasse altri eventuali Risparmiati. Lì però li chiamavano Sopravvissuti, il termine destinato a essere poi universalmente adottato. Come mai oggi non avevano acceso il fuoco? Semplicemente, se n'erano scordati. Oziarono lì per un paio di settimane, poi le fu chiaro che la situazione non offriva sbocchi. C'era qualche radio trasmittente in città? Ce n'erano di sicuro nelle caserme lì attorno, diceva l'ingegnere. Il guaio era che nessuno le sapeva usare. Meglio scendere a Pescara allora, propose lei: sulla costa, con porto e strade importanti, era più facile che si formasse un buon gruppo. Ci fu chi tentennò ma infine si decisero e dopo un paio di giorni si avviarono tutti di nuovo a est.

    Altri si aggregarono strada facendo: tra loro uno steward di bordo, che si era trovato in ferie nelle campagne dell'Aquila al momento cruciale. Sosteneva che a Pescara sarebbero dovuti andare alla Capitaneria di Porto, luogo noto tra i marittimi e con una sala comunicazioni ben attrezzata. Ogni uomo di mare sopravvissuto in zona sarebbe finito lì: alla lunga qualcuno che s'intendesse di trasmittenti si sarebbe trovato. E se entravano in Pescara, bisognava pensare al foraggio per il cavallo, perché dalle parti della Capitaneria non ce n'era ombra. Lo trovarono in un consorzio agrario, nel centro assolato e silenzioso di una cittadina sul percorso. Dardo se ne trovò due sacchi in groppa.

    A Pescara giunsero in diciassette. Lo steward ci aveva preso, perché alla Capitaneria trovarono un ufficiale dell'esercito.

    Braga. Maggiore dell'Esercito, si presentò.

    Marisa, disse lei.

    Era un ometto di mezza età, pancetta incipiente e baffetti grigi. Già istruttore del Genio Militare, si era insediato in sala trasmissioni con un tecnico radiotelegrafista e sondava l'etere l'intera giornata. Non erano soli lì, disse, con loro ce n'erano già una cinquantina, arrivati da ogni direzione. Al momento erano in giro a procurare cibo e quant'altro, ma per sera sarebbero tutti rientrati. L'ingegnere si mise a sua disposizione.

    Lei si tenne accanto a Remigio, restando col maggiore anche quando altri uscirono per sistemarsi in un albergo dei paraggi. E come stava andando con la radio?

    Dallo Stivale ancora nulla. Mi sa che qui da noi non si mette tanto bene, disse il maggiore, ma abbiamo un buon contatto con Colle dei Celti.

    Chi c'è lassù?

    Scienziati, tecnici. Hanno riattivato gli impianti elettrici per i bisogni della città (l'energia non gli manca, con quel colosso di centrale) e hanno in mente di organizzarsi alla svelta.

    Qualche nome?

    Parliamo con un ingegner Chizallet, elettrotecnico informatico, che già lavorava lì. Di giorno ha in mano lui la sala controllo e si occupa anche di ricerche alla radio. Come noi qui.

    Scusi maggiore, ha detto che vogliono organizzarsi?

    Eh figliola, ho paura che siamo restati così pochi che ognuno sarà ormai ugualmente importante: meglio darci tutti del tu. Chiamami maggiore, e dammi del tu, per favore.

    Ok, maggiore, farò così, disse lei, stringendogli la mano per la seconda volta.

    Ora, per rispondere alla tua domanda, pare che a Colle vogliano istituire un centro per la produzione di energia e il ripristino delle attività artigianali e agricole di base.

    Hanno trovato qualcun'altro in giro per il mondo, che tu sappia?

    Sì. E dappertutto scienziati, che trasmettono da centrali di energia rinnovabile.

    A Colle come stanno andando?

    Be', chiaro che sono ai primi passi. Il tentativo è quanto mai aleatorio, chiaro no? Comunque sono in attesa di una personalità importante.

    Sai di chi si tratta?

    Sì. Vuchich, il fisico.

    Il premio Nobel?

    Proprio lui. Vedo che sei al corrente.

    Altroché se era al corrente. Aveva letto i libri di Vuchich già da liceale e se n'era tanto appassionata che aveva poi optato per la facoltà di fisica, rinnegando all'ultimo momento una passione per la veterinaria che si portava dentro sin da bambina. Sì, ho letto tutti i suoi libri. Il suo sguardo s'era fatto assente: in quel momento s'era aperto il primo squarcio d'azzurro nel grigiore che l'avvolgeva dall'ultima notte trascorsa a casa. Di colpo aveva capito che si sarebbe anche dannata pur di raggiungere Vuchich e lavorare con lui, ovunque si trovasse.

    Be', se sei in grado di leggerli vuol dire che una preparazione coi fiocchi ce l'hai anche tu, disse il maggiore con un sorriso incuriosito.

    Eh sì. Quella formazione l'aveva avuta già al liceo: suo padre, un talento per la matematica, aveva coltivato precocemente le stesse doti in lei, che le possedeva in misura straordinaria.

    È vero, disse, tornando impassibile. Sono stata fortunata, ho avuto genitori eccezionali.

    Il maggiore la sogguardò ancora più perplesso. Comunque, disse, oggi mi hanno confermato che Vuchich è in viaggio da Porto delle Isole. La centrale nucleare si è spenta anche là, calma e tranquilla, come dappertutto.

    Questa era nuova.

    Spenta?

    Sì, e anche questo lo so grazie alla radio. Dicono che si sono fermate dappertutto. E anche la radioattività naturale ha cessato di esistere.

    Doveva raggiungere Vuchich al più presto. Già da ora la frustrazione la mordeva, di non potersi aggiornare a tamburo battente.

    C'è mezzo di passare di là, maggiore?

    Farsi traghettare in Cordigliera?

    Sì.

    Perbacco, figliola, sei arrivata adesso ... Almeno il tempo di prendere fiato.

    Eppure ... Come faceva a dirglielo, che tenersi in movimento era la sua ancora di salvezza, la diga che arginava lo sfacelo che aveva dentro? Soprattutto ora, che aveva saputo di Vuchich. Sperando, e forse s'illudeva, che si sarebbe smorzato ... quando avesse trovato lui. Sospirò.

    Tu devi aver preso una gran batosta, Marisa. Ma a chi non è toccata, tra quelli che sono qui? Il maggiore crollò il capo. Credimi, ho le carte in regola per capirti, se intendi ciò che voglio dire. La traversata era un'avventura molto incerta già prima, coi mezzi a motore: figurati ora. Lascia che si formi un minimo del nuovo quadro di vita. Sai ... potresti lasciarci la pelle. Si fermò soppesandola, un po' come aveva fatto suo padre sino a poche settimane prima. Ma un filo di speranza puoi permettertelo, continuò. Qui da noi c'è un altro piccolo gruppo. Stanno al Porto, abbastanza vicino. Il capoccia è un marittimo di qua. Si sono messi a pescare e lo fanno bene, riforniscono anche noi. Mi pare che qualcuno di loro dica di essere in grado di attraversare. Ma ti presenterò Claretta, stasera, lei è meglio informata.

    Intanto i componenti del gruppo avevano cominciato a rientrare alla spicciolata. Alcuni, dissero, si erano fermati all'albergo a preparare la cena. Lei e Remigio attesero ancora, seduti a una finestra, finché la luce del tramonto liberò un'arcana tavolozza di colori dagli yacht ondeggianti all'attracco, nel canale là avanti. Chissà quanto tempo doveva passare prima che qualcuno salisse su uno yacht con l'idea di farsi un viaggio di vacanza, di piacere ...

    All'imbrunire il maggiore spense le apparecchiature e uscirono tutti. Dardo aveva trascorso il tempo legato all'ombra, il muso affondato in una borsa di biada: lo ricaricarono dei sacchi del foraggio e lo condussero ad abbeverarsi alla piscina dell'albergo. Si ritrovarono in una sessantina, ai tavoli quasi silenziosi della grande sala da pranzo. Un ex posteggiatore aveva a suo tempo arrotondato gli introiti lavorando di sera in una pizzeria. Ora sballottava la sua panza, in canottiera attorno al fuoco, apostrofando quattro ragazzotti che gli si erano accodati risalendo dal Molise; ora fungevano da suoi aiutanti, alimentando forno e griglia con legna di recupero e correndo goffi tra i tavoli. Però quella sera produssero una spaghettata decente, e pesce grigliato con pomodori in insalata. Claretta era stata tra gli ultimi ad arrivare. Sulla cinquantina, alta e magra, capelli candidi, vestiva shorts e camicia militare. Era uno dei due medici presenti, l'altro era un quarantenne dello Stivale, che già aveva deciso di fermarsi lì. Si sarebbero resi conto solo dopo qualche anno che, salvo che per qualche incidente, i medici sarebbero serviti solo per i nuovi nati.

    Simpatizzarono all'istante e si raccontarono le loro storie prendendo il caffè a un tavolino in disparte. Attorno a loro l'atmosfera era sommessa: niente a che vedere con l'allegria che il vecchio mondo avrebbe riservato a una simile occasione. E sì che il cibo era stato ottimo e il buon vino non era mancato, come non sarebbe mancato nel futuro. Claretta aveva esercitato al Seminario, la Luce Scarlatta l'aveva sorpresa a un congresso, proprio lì a Pescara e in quell'albergo. A casa aveva lasciato il marito, e due figli appena fuori dall'adolescenza. Non ne aveva saputo più nulla e mascherava la sua disperazione dietro un'abbronzatura da tuareg, riuscendo perfino a ravvivarla di tanto in tanto con sprazzi di un sorriso folgorante. Che a un occhio attento si sarebbero rivelati strali di muta angoscia, di frustrazione, zannate lanciate dall'inconscio contro una situazione che

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