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I fantasmi della Fabbrica Alta
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E-book230 pagine3 ore

I fantasmi della Fabbrica Alta

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Info su questo ebook

Il giovane Alex, per completare la sua tesi di laurea in Archeologia Industriale, si reca a Schio per fare un sopralluogo alla Fabbrica Alta dell'ex Lanificio Rossi. Tra i ruderi di quel grande edificio abbandonato scopre vivere la Betina, una bambina di un'altra epoca, vittima di un incantesimo. È l'inizio di un'avventura che travalica il tempo, tra la seconda metà dell'Ottocento e i giorni nostri, a cui prendono parte personaggi alquanto bizzarri. Tutti sembrano avere identità e ruoli mutevoli, che cambiano da un piano temporale all'altro. Tutti nascondono dei segreti e sono in cerca di qualcosa, ma per trovarlo devono fare i conti con quello che accadde a Schio in un giorno ben preciso del passato. Un mistero impalpabile aleggia nell'aria, e i pezzi che compongo il puzzle sembrano ricondurre a un enigmatico giaguaro di pietra, dagli occhi di un verde fosforescente e messo a guardia di una grotta.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2022
ISBN9791222037646
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    Anteprima del libro

    I fantasmi della Fabbrica Alta - Massimo Bernardi

    QUEL RAMO DEL LAGO

    (Appunti provvisori per un eventuale pubblico)

    Sono sempre stato attratto dai luoghi abbandonati, che fossero vecchi ruderi del passato o edifici nuovi ancora in costruzione. Da ragazzino mi avventuravo con la bici da cross nelle zone proibite dei cantieri, agli estremi confini della periferia di Bologna, dove stavano sorgendo come avamposti urbani in mezzo ai campi le nuove palazzine del piano PEEP. Erano terre di nessuno, dove finiva la città. Ma finiva davvero, diversamente da oggi che i villini bifamiliari, i condomini, i nuovi svincoli, le nuove rotonde, gli impianti sportivi, le stazioni ecologiche, i distributori di benzina, i capannoni, gli ipermercati, le palestre, le concessionarie penetrano nel territorio circostante senza soluzione di continuità, tanto che non è mai chiaro dove finisca la città e dove comincia la campagna. Mi davo delle belle sbucciate sui gomiti e sulle ginocchia con quella scassatissima bici di seconda mano, eredità di mio fratello; altro che le MTB superaccessoriate di oggi. Tornavo a casa con la pelle graffiata e sanguinante, e mia madre puntualmente si metteva a snocciolare il suo rosario di santi e madonne. Di giri in bici ne ho fatti tanti, con gli amici di allora: esplorazioni e avventure di ogni genere, mentre lentamente - quasi non ce ne rendevamo conto - crescevano quei tristi palazzi a cinque, sette o undici piani. E poi in un batter d’occhio, appena fuori dalla pista da cross, apparve il primo tronco della tangenziale; apparvero le prime rotonde al posto dei semafori; e via di questo passo. La città si trasformava sotto i nostri occhi mentre a noi, da un giorno all’altro, ci spuntavano i peli sulle gambe e ci cambiava la voce.

    Tutto ciò per dire di come li annusassi fin da piccolo, gli spazi urbani. Avevo questo interesse, o predilezione, o per meglio dire attrazione fatale per tutto quello che era edile, che era forma architettonica o infrastruttura inserita nella città. Sia che fosse un bilocale con giardino sia che fosse un palazzo popolare, una piscina comunale, una scuola, un cinema, un tempio monumentale o una stazione dei treni. Ma anche binari, tralicci dell’alta tensione, pali della luce, semafori, segnali stradali, cartelloni pubblicitari, parcheggi, piazzole di sosta, monumenti ai caduti, chioschi di edicole. Insomma, tutto.

    E, in modo particolare, le fabbriche.

    Quelle nuove, certamente, che spuntavano come funghi nelle zone periferiche. Ma ancora di più, anzi, molto di più quelle antiche, quelle che cadevano a pezzi e magari già allora erano sepolte, nascoste sotto metri di erbacce e di piante infestanti, cresciute nel frattempo come una giungla urbana dopo decenni di abbandono.

    Avevo questa insolita attrazione per le cose morte, finite, dismesse, e ce l’ho tuttora. Fabbriche, mulini, magazzini, frantoi, segherie, filatoi, setifici, lanifici, caseifici, capannoni a shed, ciminiere e quant’altro. Oggi, che non sono più un ragazzino che si sbuccia le ginocchia in MTB, mi documento sui libri e sul web; e vado a cercare questi siti anche lontano da casa, mi sposto in macchina e faccio i miei sopralluoghi. Oltrepasso cancelli arrugginiti, entro nei corpi di fabbrica abbandonati, salgo le scale di cemento, cammino tra le sterpaglie, prendo appunti su un taccuino, scatto immagini che poi posterò su Instagram e su Facebook come altrettanti reportage fotografici. Ma, in fondo, sono solo uno dei tanti. Il popolo degli appassionati di ferraglia arrugginita - i cosiddetti urban explorers, o più semplicemente urbexer - è in vertiginoso aumento in tutto il mondo, a giudicare dai like che ricevo e dai numerosi hashtag sul tema, che mi rimandano a centinaia di migliaia di altre foto.

    Se tornassi indietro ai miei vent’anni, non avrei dubbi: sceglierei di imboccare quel ramo. Non quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti eccetera eccetera, ma quello che porta dritto all’archeologia industriale. Partendo magari dalla Facoltà di Lettere o Architettura, con specializzazione in Beni Culturali e tutti gli annessi e connessi. Così da dare un senso e un valore a quella vocazione nata per strada, ai tempi in cui vagabondavo nei cantieri in bici da cross con la banda degli amici, e mi sbucciavo le ginocchia.

    Ma, visto che indietro non si torna, non mi resta che inventare un personaggio in cui incarnarmi, e con lui una storia che per me sia in qualche modo catartica. Mettiamo che costui viva a Casalecchio di Reno, e che abbia suppergiù venticinque anni. Mettiamo che sia un cazzone fuori corso con il pallino della fotografia, che più che studiare preferisce divertirsi e perdere tempo sui social. Mancano solo quattro mesi al giorno della sua laurea in Beni Culturali, ma la tesi giace ancora incompiuta sul tavolo della sua camera, a centottanta chilometri dal posto dove si svolge questa storia. Si è arenato su certi cavilli tecnici, perdendo il senso complessivo di quello che stava scrivendo. I capitoli che ha stampato sono tanti fogli A4, ammucchiati in disordine su un tavolaccio di legno ereditato dal nonno falegname. Sudore e fatica del nonno non trovano corrispondenza in quello sfaticato di suo nipote che, anziché dedicarsi anima e corpo ai suoi studi, si trastulla in mille inutili distrazioni. Il massimo del suo impegno accademico è stato partire per una gita culturale sul luogo della sua tesi; per vedere di rimediare qualche spunto, se non proprio la fatidica ispirazione.

    E allora eccolo qua, lo studente cazzone fuori corso, in missione speciale nella città di Schio. La Manchester d’Italia, come era stata ribattezzata nell’Ottocento per la sua operosità e le sue tante ciminiere fumanti, innalzate verso il cielo. Gli appare dimesso e decadente, quello che fu un tempo il più grande polo di produzione laniera d’Italia, se non dell’intera Europa. È arrivato qui da Casalecchio per trovare risposte alle sue domande irrisolte, soluzioni ai cavilli tecnici che ostacolano la sua tesi. E soprattutto per vederla dal vivo quella grandiosa astronave dell’industria: l’opificio di proporzioni mastodontiche che ai tempi d’oro, nei visitatori, suscitava fascino e ammirazione. E che oggi giace tristemente silenzioso e vuoto, nel più totale abbandono.

    La Fabbrica Alta dell’ex Lanificio Rossi, a Schio, è il tema centrale della sua ricerca. Era quindi doveroso che venisse fin qui. Perché un conto è informarsi e cercare documenti sul web restando in casa propria, o tutt’al più in biblioteca, un altro conto è toccare con mano la realtà.

    Dall’archeologia industriale al turismo delle fabbriche. Il caso di Schio: è questo il titolo della sua tesi in alto mare, da concludere entro quattro mesi. Riuscirà il nostro eroe nella difficile impresa?

    Questo, naturalmente, è solo il punto di partenza.

    1. LE CONSEGUENZE DI UN SOPRALLUOGO

    L’erba alta fino alle ginocchia, vabbè sto esagerando. L’erba alta fino ai polpacci è più realistico. Che schifo quella lattina di Coca arrugginita, c’avrà dentro sicuro una malattia. AIDS, tetano, sifilide, gonorrea, non ci berrei neanche se morissi di sete. Passo sotto la rete verde di protezione strisciando come un marine, che fango e che schifo, c’è di tutto! Sembra di stare in Full Metal Jacket, sono un Palla di Lardo qualunque che arranca e suda e tutti lo pigliano per il culo. Che strano sogno stanotte, quella faccia in primo piano da film horror. Camminavo carponi come un infante in mezzo a siepi fiorite in un bel giardino, poi giro l’angolo e vedo un giaguaro di pietra bianca all’ingresso di una grotta. Appena mi avvicino per guardarlo meglio, gli occhi gli si accendono di una luce verde fosforescente. Spalanca la bocca mostrandomi una fila di denti aguzzi, ognuno con inciso sopra un ideogramma giapponese. Dallo squaglio mi son svegliato di colpo tutto bagnato di sudore.

    Completato mezzo giro della Fabbrica Alta, che strazio però a pensarci. Mattoni su mattoni che si sgretolano e cadono giù col tempo, con l’ingiuria degli anni, tanti anni. Sono centocinquanta suppergiù. Centocinquanta la gallina canta. Che poi non sono neanche così tanti: solo quattro o cinque generazioni di operai che figliano come conigli, nipotano e pronipotano. Qualche vecchio di oggi con un piede nella fossa avrà pure avuto una bisnonna o una prozia che l’ha vista costruire, mattone su mattone. E che poi lì dentro ci ha trascorso la vita a tessere e a filare. Cos’è, cos’è che fa andare la filanda? Chissà che vita là dentro, che splendide condizioni igieniche! Dovevano avere dei bei polmoni, respirazione azzerata, salivazione azzerata, occhi pallati. Fantozzi venduto a tranci al mercatino rionale. Tozzi Fan si butti giù dal suo Zero lei per primo, no prego dopo di lei; Tozzi Fan non si butta mai, fa andare a morire gli altri kamikaze al posto suo; finché non si lancia con il paracadute giù dritto su Hiroshima, il coglionazzo. Vitaccia dura anche per tutti quei poveri cristi, generazione anni Venti che han fatto la Seconda Guerra, tutti arruolati carne da macello, tutti in fila verso il vento del Duemila e noi a dare un senso a questi giorni, mille giorni di te e di me. Baglioni che mi vien su come un rutto, scherzi dello stomaco. Accuso un po’ di gonfiore, oggi, saranno stati i fagiolini con la cotica all’Osteria dei Sognatori. Il direttore ha mangiato pesante, mai mangiare pesante quando dopo hai la perlustrazione urbi et orbi della Fabbrica Alta.

    Nebbia in Val Padana, erba alta fino alle ginocchia, vabbè fino ai polpacci, qui nel vicentino. Esplorazioni notturne esplorazioni diurne, circumnavigazione di un’ex fabbrica operaia, oggi, nell’anno del Signore 2016. Centocinquant’anni dopo le lotte di classe, la filantropia dei padroni, il monumento al bravo tessitore, il lampo al magnesio dei dagherrotipi.

    Tiro fuori il mio Canon cannone, che bello ‘sto regalo! Ricordo ancora la disperazione quando gli ignoti bastardi mi avevano fottuto, aperto l’auto mentre correvo sull’argine del Reno. Fottuto lo zainetto con dentro la cara Panasonic Lumix, dopo appena due anni, maledetti stronzi! Faccio la collezione di fotocamere perse e/o rubate, c’ho l’abbonamento io all’ufficio oggetti smarriti.

    Quanta depressione in quell’autunno… sembrava più grigio del solito. Basta, non scatterò mai più un cazzo mi dicevo. Mai più foto e invece no, mi arriva il Canon cannone regalo di Natale. Molto meglio di tutte le altre macchine mai avute messe insieme. E via a ricominciare, primi scatti alle palle blu, rosse, gialle, dorate appese all’albero, ai pastori del presepe alle galline, alle rocce, al ponticello sulla carta stagnola, alla stella cometa. E poi via andar fuori mentre nevica, guarda come vengono bene anche col cielo plumbeo di gennaio e poi febbraio, marzo, april, giugno e settembre, tutti gli altri ne han trentuno. Eccomi qua col Canon cannone che mi fa da testimone silenzioso, non gli sfugge neanche un dettaglio.

    La fabbrica sembra una grande cattedrale nel deserto di questa ghost town. Muri rossi di mattoncini Lego, uno sull’altro. Quanta fatica a metterli uno sull’altro, quanto tempo e sudore operaio, e tutto questo per cosa? Per arricchire un padrone, nutrire bocche affamate che poi sono andate in pasto ai vermi. Per far fare a me, il nostalgico Indiana Jones, una tesi di laurea più di un secolo dopo. E adesso niente, non vale più niente. Dimenticata, abbandonata, lasciata lì a marcire, a consumarsi come un cadavere in putrefazione.

    Dettaglio della grondaia, lato lungo. Non ci sta tutto neanche con il grandangolo. Dovrei uscire dalla rete verde di protezione, allora faccio il lato corto. Guarda che schifo qui, ci bivaccano! Chissà quanti tossici, alla sera, di notte, a bersi birre, a scoparsi al buio, e nessuno sa niente, tutto tace… Dettaglio delle finestre incorniciate dai mattoncini rossi. Dettaglio del tetto spiovente con davanti il palo telegrafico, un cipresso sullo sfondo. Dettaglio della porta con balconcino che dà sulla scala antincendio. Cazzo me ne farò di tutte ‘ste foto? Serviranno a ben poco. Non aggiungono niente. Cosa ci son venuto a fare fin qui? Tempo perso, soldi per l’autostrada buttati dal guard rail e neanche la benza è gratis.

    Tempo perso, sì. La Fabbrica Alta sui libri era molto diversa. Sapevo già che era malmessa, ma non pensavo fino a ‘sto punto. Qui c’è ben poco di nobile e glorioso: non c’è nessuna aurea magica in ‘sto cortile abbandonato, chiuso da un recinto che ne segna l’isolamento, il distacco dal resto della città. La grandiosa astronave dell’industria è solo un relitto che giace in fondo agli abissi, pallida ombra sfuggente di ciò che fu un tempo, quando dava il pane a ottocento e passa bravi tessitori. Insomma, ‘sta spedizione a Schio è come la Corazzata Potëmkin di Fantozzi, una cagata pazzesca! Me ne torno a Casalecchio con la coda fra le gambe, e una tesi malata terminale con le flebo attaccate, l’ossigeno quasi finito. Quasi bandiera bianca, sul ponte sventola. Prima di tornare, però, ci sta uno spritz. Magari mi infilo in un bar, mi rilasso e leggo il giornale. E nel frattempo chissà che non entri qualche indigena da urlo, una mona veneta che fa sangue, che attizza il fuoco nel camino! Da sbirciare senza dar nell’occhio sopra le pagine del Giornale di Vicenza. Leggo i quotidiani io, sono uno che si informa, mica inquadro chiappe sode e sculettanti quando mi passano innanzi.

    Esco da ‘sto mortorio di cortile che mi deprime, via, c’è uno spritz che mi aspetta. L’erba alta fino al ginocchio, vabbè fino ai polpacci.

    Al bar ristorante Due Mori, in pieno centro, dopo mezz’ora non è entrata neanche una mona veneta degna di questo nome. Niente di stuzzicante da spiare dietro il giornale, o da abbordare con la prima frase riciclata dal mio patetico repertorio. Ci sono solo umarells ottuagenari da un grappino dietro l’altro e partite a scopone scientifico, più qualche brufoloso ragazzotto incollato ai videogames. Una Luisona d’anteguerra mi fa l’occhiolino dal vassoio delle paste. Dopo chissà quanti anni che tutti le girano intorno vorrebbe essere finalmente inghiottita da una bocca affamata, ma decido che mi bevo il mio spritz e basta, al massimo due arachidi.

    Una manciata di arachidi.

    Finisco il piattino delle arachidi.

    Cazzeggio a lungo con tutte le app a disposizione del mio Samsung. Seguo su Facebook, senza appassionarmi, l’accesa disputa su quali ingredienti usare per fare una vera parmigiana di melanzane; faccio gli auguri di compleanno a due amici che manco so chi siano; controllo se i like del mio ultimo post su Instagram sono cresciuti di numero da quando sono entrato qui dentro; guardo su WhatsApp gli ultimi video degli Scoppiati, il gruppo dei miei colleghi all’università. Ce n’è uno, con un tizio obeso, che fa sputtanare: con in testa la cuffia da lavoro canta a squarciagola delle strofe scurrili prima di timbrare il cartellino. A pensarci fa anche un po’ pena. Cosa non si fa per due minuti di notorietà sul web. Ultimo goccio di spritz e giro completo delle app. Tiro fuori il Canon cannone e scorro sul monitor le foto che ho scattato mezz’ora fa alla Fabbrica Alta, vediamo se qualcuna è venuta abbastanza bene da postarla.

    E allora noto qualcosa di insolito.

    Un dettaglio che non dovrebbe esserci.

    A una finestra, vicino alla porta che dà sulla scala antincendio, c’è qualcosa che non dovrebbe esserci. Quando ho fatto la foto non ho visto niente, non c’era niente. O almeno, non ci avevo fatto caso. Invece adesso si vede qualcosa: una sagoma umana.

    Faccio zoom in avanti per ingrandire l’immagine. Affacciata alla finestra della Fabbrica Alta si vede una bambina di cinque o sei anni, con una cuffia rosa in testa. È in piedi e guarda dritto verso di me. Indossa una specie di grembiulino da asilo, con un largo colletto bianco. Però c’è qualcosa in lei che non mi convince. Non so, non sembra una bambina di questi tempi. Sembra una bambina antica. Tra le mani regge un foglio di carta con scritto sopra qualcosa. Aumento ancora lo zoom finché non riesco a leggere. È una parola sola, con una bella grafia in corsivo.

    La parola " Aiuto".

    da alexbraglia@gmail.com a a.furlan@unive.it oggetto: modifiche alla tesi di laurea

    " Gentile dott.ssa Furlan,

    oggi mi sono recato alla Fabbrica Alta per verificare dal vivo il contesto urbanistico dell’edificio all’interno della città di Schio. La fabbrica, come già saprà, versa in un pessimo stato di conservazione. Non ho rilevato elementi di particolare interesse correlati alla mia tesi di laurea. Tuttavia, mi preme segnalarle una mia osservazione: sono abbastanza sicuro che all’interno della ex fabbrica ci viva qualcuno. Presumo si tratti di sbandati, emarginati, forse anche famiglie sotto la soglia della povertà, che potrebbero aver trovato in questa sede un alloggio abusivo. Le chiedo perciò di valutare nella mia tesi l’inserimento di una breve appendice di natura sociale e antropologica, secondo me importante, su come spesso gli spazi industriali dismessi vengano fruiti e abitati dagli strati marginali della società.

    Sempre a sua disposizione per ulteriori chiarimenti e dettagli.

    La saluto cordialmente,

    Alessandro Braglia"

    da a.furlan@unive.it a alexbraglia@gmail.com oggetto: modifiche alla tesi di laurea

    " Signor Braglia, francamente non capisco la sua frenesia di recarsi in visita alla Fabbrica Alta. Una perdita di tempo di nessuna utilità. La sua appendice socio-antropologica nulla aggiungerebbe alla nostra ricerca ed è pertanto superflua. Le sconsiglio vivamente di ripetere certe sue iniziative in stile gita scolastica, che nulla hanno a che vedere con la stesura di una tesi.

    Distinti saluti,

    Dott.ssa Furlan"

    Cara Furlan, va’ a farti fottere. Lo sapevo che eri una stronza, oltre a essere brutta come una fogna di Calcutta. Chissà come mai tutti i miei colleghi universitari si sono precipitati a cercare ogni altro prof. che non fossi tu, schivandoti come la peste, e l’unico coglione che ti ha preso in considerazione sono stato io… Ma tu eri l’unica che potesse accettare una tesi di archeologia industriale come la mia, e giocoforza dovevo rassegnarmi. Mi vien voglia di assestarti un gancio sull’altra guancia, così ti pareggio la bocca. Ma guarda te che razza di una fogna di Calcutta!

    " Nulla aggiungerebbe alla nostra ricerca ed è pertanto superflua."

    A parte il fatto che qui mi sto sbattendo solo io. La nostra ricerca? Col cazzo, la mia ricerca! Posso farmela anche da solo la tesi per quel che ci aggiungi di tuo. E poi, quel gita scolastica, te lo potevi risparmiare. Mi sembra di stare nell’omonimo film del Pupi, e tu sei la nostra prof. illustrissima, che come premio di fine anno accompagna i suoi studenti del liceo nel lungo viaggio a piedi da Bologna a Firenze. Solo che tu sei esattamente l’opposto della prof. di Disegno strafiga che fa sballare di testa il prof. di Lettere,

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