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Trick, storia di un cane
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E-book84 pagine1 ora

Trick, storia di un cane

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Info su questo ebook

L'amicizia fra bambini e animali trascende ogni altra cosa!Gemma e Nino sono una giovane coppia desiderosa di allargare la famiglia con la nascita di un figlio. Al prolungarsi dell'attesa, però, i due sembrano perdere la speranza di poter coronare il proprio sogno. Si ritrovano così ad adottare un cucciolo di cane, Trick, che per un po' riporterà la serenità in casa. Paradossalmente, sarà proprio l'inaspettato arrivo del piccolo Aurelio ad alterare definitivamente l'equilibrio così raggiunto! Ben presto il povero Trick si vede messo da parte, dimenticato dai suoi amati padroni. Almeno fino a quando Aurelio, una volta diventato più grande, riscopre nell'amicizia del fedele quadrupede un bene impagabile... Nata come favola per bambini, ma dotata di quel manto di malinconia che la rende adatta a qualunque lettore, "Trick. Storia di un cane" è non soltanto uno dei libri più celebri di Tomizza, ma anche uno dei più commoventi. -
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2023
ISBN9788728560532
Trick, storia di un cane

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    Anteprima del libro

    Trick, storia di un cane - Fulvio Tomizza

    Trick, storia di un cane

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1975, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560532

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    TRICK

    storia di un cane

    a mia figlia Franca

    e a quanti amano gli animali

    PARTE PRIMA

    Erano una giovane coppia che non poteva aver figli.

    Consultati i quattro medici della città che andavano per la maggiore, si rivolsero ai nomi più illustri di Padova e Milano, di cui parlavano i rotocalchi e le riviste specializzate. Soltanto per le interurbane la bolletta di un bimestre superò la quota del condominio comprendente l’ultima rata del riscaldamento.

    Stava ormai per finire la stagione buona e chiamarono Milano, l’abitazione di un ginecologo che faceva miracoli. Fu loro dato il numero di una clinica di lusso.

    Il dottore era in sala operatoria. Avrebbero voluto rinunciare, ma una voce femminile aveva detto di attendere. E attesero, mezz’ora col cuore in gola, nell’assurda speranza, come il tempo via via passava, di avere questa volta il responso dell’oracolo, ma col timore anche di sentire l’importunato montare su tutte le furie. Fu invece gentile e, cosa quasi incredibile, fissò l’appuntamento per l’indomani pomeriggio.

    Bastò per far loro perdere la testa. In un traffico di valigie e vestiti strappati dagli armadi, il lindo appartamentino rivisse le ore di scompiglio intercorse tra l’entrata in abito da cerimonia e la partenza per la luna di miele.

    Lui dovette chiudersi nello studiolo per ultimare le vignette del supplemento del quotidiano che usciva tutte le domeniche con la sua firma sotto la testata. Ed ecco che sotto la lampada sospesa sull’alto tavolino quadrato, si sentiva ricco di idee e soprattutto di umori: in luogo dei panciuti o allampanati uomini politici che in quegli ultimi mesi di sconforto si sfogava d’imbruttire oltre il necessario, a conferma che la propria natura era al massimo dispettosa gli veniva ora di disegnare impettiti animaletti avventuratisi nel bel mezzo di un vociferante congresso o in un’austera aula consiliare.

    Scese in macchina al centro e, insieme alle lodi, ebbe al giornale un buon anticipo sulla retribuzione mensile.

    All’alba erano sul rapido. Costretta la loro intimità a controllarsi come nel giorno in cui finalmente soli correvano verso un paese del sud, nasceva spontaneo fare un bilancio dei tre anni succedutisi e angustiati soltanto dalla perfetta e quindi — così vogliono le cose della vita — irregolare normalità di lei. Ma perché desideravano tanto quel figlio se, giovani com’erano, non ne sentivano affatto l’urgenza? Non lo volevano solo nella misura in cui avvertivano l’anomalia del caso, ossia la sterilità di lei, divenuta eccentrica e perfino impudente nella cerchia di amici e conoscenti, ambire a una certa particolarità di destino?

    Lui la sbirciava nel viso fresco, un po’ sventato e in armonia con la snella personcina che nei suoi modi ancora acerbi pareva da sé sottrarsi a una condizione di responsabilità. Quasi leggendogli il pensiero, lo sguardo sospeso su un pioppeto in corsa, disse piuttosto forte sul chiacchiericcio della carrozza: « Ti do tanti grattacapi ».

    Le prese la mano abbandonata sul grembo: « Cosa dici? » e la distolse indicandole le prime case di Verona che, intravista un paio di volte dal treno, per loro restava la città di Giulietta e Romeo.

    Il medico, inaspettatamente giovane, aperto, nonostante i capelli tutti bianchi, attendeva quella sola visita e all’ora indicata. Li trattenne davanti alla scrivania esaminando con minuzia la cartella di prescrizioni, ricette e reperti di laboratorio che la sposa gli aveva porto. Li accomiatò con parole di fiducia sostenute da uno sguardo fermo e appena mosso, nel fondo, da un’ombra di simpatia. Non aveva sparato la cifra che si attendevano e, soli sulle scale, si guardarono increduli, imbarazzati.

    Rinviarono la partenza per concedersi una serata nella metropoli industriale e una notte non minacciata dal suono della sveglia in una vecchia camera d’albergo dove non filtrava un filo di luce.

    L’appartamento, a Trieste, era al secondo piano di una palazzina sul colle di Scòrcola. Nei pomeriggi di sole i due giovani sposi erano come spinti a uscire di casa, arrampicarsi per l’erta lastricata di cubetti di porfido, appoggiandosi col fiato mozzo al passamano di ferro che scorreva lungo il muraglione per le giornate di bora. Dopo un centinaio di metri di ardua salita, si trovavano nel fitto del boschetto di Villa Giulia, a riparo anche dalle casette costruite dagli angloamericani, in un intersecarsi di viottoli ghiaiosi con panchine quasi sempre deserte. Più avanti si dipartiva un sentiero ancora ripido, formato da gradini di sassi e di terra battuta seminascosti tra i cespugli, che sbucava sulla provinciale. In attesa di poterla attraversare per infilare la strada di Conconello, era quasi d’obbligo voltarsi: la città si stendeva sotto insolitamente larga da Muggia a Miramare, fumosa e reboante, eppure raccolta e ferma davanti al vasto specchio d’acqua, come in un’antica stampa. Costeggiando la casa cantoniera, percorrevano l’ultima balza del colle fra le colorite case del paesetto ed erano in un umidore di bosco senza panchine né ghiaino, con funghi infraciditi nella macchia.

    « Sai », disse lei un giorno sedendosi con moto calcolato su una roccia, « ho rinunciato ad avere figli. Non è poi la fine del mondo non averne. Guarda gli altri… » e citò due o tre coppie di colleghi che da un po’ di tempo e con sempre maggiore frequenza venivano in visita il sabato sera in luogo dei prolifici, ed anche un po’ monotoni, amici di sempre.

    Il giovane non rispose, sapendola insincera e al colmo dell’abbattimento. Eppure riuscivano strane quelle parole dette in un luogo deserto, la voce già arrochita da una stringente complicità, quasi fossero del tutto estranee al possibile abbandono giovanile, divenuto

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