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Mi racconto ... raccontando
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E-book395 pagine5 ore

Mi racconto ... raccontando

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Info su questo ebook

Sono racconti, dialoghi e narrazioni in parte fantastici, in parte orientati sul nostro tempo.

Sono scritti di evasione ma anche di riflessione.

Toccano tematiche religiose, psicologiche e esistenziali.

Costituiscono una sorta di caleidoscopio: come l’epoca che ci tocca vivere.
LinguaItaliano
Data di uscita2 dic 2019
ISBN9788831649544
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    Mi racconto ... raccontando - saltas

    633/1941.

    PRE

    ho bussato

    alle bronzee porte

    del cielo

    hanno risuonato

    di cupi

    tonfi

    vuoti

    ho picchiato

    fino a far

    sanguinare le nocche

    nessuno

    mi ha degnato

    di un cenno

    le ho prese

    a calci

    fino a sfondare

    i robusti scarponi

    da trekking

    la muraglia cinese

    sarebbe stata

    più loquace

    ho urlato

    ho invocato

    ho inveito

    ho implorato

    ho minacciato

    ho blandito

    ho pianto

    ero solo

    sul ciglio

    dell’abisso

    ero solo

    nella tremolante

    indistinta

    notte

    degli spazi

    ero solo

    al cospetto

    dell’universo

    ero solo

    nell’opalescente

    oceano

    della materia

    non materia

    le porte

    sghignazzavano

    mute

    sulla mia smania

    incontenibile

    sulle mie brame

    insaziabili

    sui miei pensieri

    sfrenati

    sulla mia immaginazione

    senza confini

    solo

    nell’immensa

    brulicante

    sorda

    fucina

    del tempo.

    TIPI

    Il cavaliere pallido

    Sono il giustiziere.

    Lo dico subito, a scanso di equivoci.

    Mi avete conosciuto nel cinema americano ma esistevo da prima.

    Oggi mi muovo dentro i grandi centri urbani.

    Un tempo vivevo soprattutto nei villaggi.

    Persino nelle foreste.

    La legge mi perseguita.

    Perché non vuole che io la surroghi

    Non accetta che qualcuno renda evidenti i suoi limiti.

    Che io sottolinei la sua impotenza.

    Ma io non sono contro la legge.

    Sono la legge nella sua massima estensione.

    La legge che arriva dappertutto.

    Sono la legge che agisce con tutta la sua forza implacabile.

    Io sono nato con la legge.

    Sono figlio dello stato di diritto.

    Non esisto là dove non c’è legge.

    Dove manca la legge regna solo l’arbitrio.

    E l’arbitrio non offre termini di paragone.

    Non permette di distinguere il giusto dall’ingiusto.

    La legge è indispensabile alla mia azione.

    Soltanto quando c’è la legge si può misurare l’entità della violazione.

    Si può soppesare la portata di un torto.

    Si può giudicare l’intensità di un dolore.

    Si può gridare l’ingiustizia patita.

    E tutti possono constatare la prevaricazione e lo sfregio.

    Sotto la legge sono invocato a gran voce dai più deboli.

    Un grido che i prepotenti non odono.

    Che solo la mia sensibilità può captare.

    Non esistevo nella società schiavile.

    L’antichità non mi ha conosciuto.

    Non perché la legge fosse così forte da rendere inutile la mia presenza.

    Semplicemente perché, di fatto, la legge era ininfluente.

    Tanto era prepotente il potere dei potenti.

    Tanto era niente la massa dei sudditi.

    Nell’antichità i giustizieri trovano posto solo nel mito.

    Sono eroi e più che con gli uomini hanno a che fare con gli dei.

    L’eroe eponimo è Ercole.

    Uccise il leone che divorava le greggi dei pastori.

    Neutralizzò la mostruosa idra di Lerna che tutti ritenevano immortale.

    Uccise Caco, il ladrone che terrorizzava le popolazioni dell’Aventino.

    Molti di questi eroi vennero puniti dagli dei proprio per aver aiutato i più deboli.

    Come Prometeo che fu inchiodato ad una rupe e dato in pasto alle aquile per aver portato agli uomini il fuoco, ritenuto sacra ed esclusiva proprietà degli dei.

    O Tantalo che per aver fatto assaggiare agli uomini il nettare e l’ambrosia degli dei, fu sprofondato nell’Ade e costretto per l’eternità a spingere un immenso macigno su per un’erta ripidissima.

    Come Bellerofonte che dopo aver ucciso la Chimera, in groppa al cavallo Pegaso tentò la scalata all’Olimpo venendone ricacciato dagli dei.

    E Laocoonte il gran sacerdote che voleva, contro Athena, salvare i troiani dall’inganno di Ulisse: per questo venne ucciso sulla spiaggia dai serpenti marini mandati dalla dea protettrice dei greci.

    O Dedalo che per aver dato ad Arianna il gomitolo che permise a lei e a Teseo di salvarsi, fu condannato da Minosse a restare prigioniero dentro il Labirinto.

    Potrei ricordare mille altri benefattori, non necessariamente tragici.

    Come i Dioscuri che proteggevano i navigatori e favorivano l’ospitalità.

    Potrei parlare anche di Ulisse, vendicatore dei torti e restauratore della giustizia nella sua patria.

    O lo stesso Teseo, uccisore di Fea, la scrofa che terrorizzava le popolazioni dell’Attica e del Minotauro, che divorava le vergini Ateniesi.

    Mi piace concludere con Mitra, antichissima e benefica divinità, dio del sole e della fertilità, ultimo dio pagano a cadere sotto l’attacco del cristianesimo.

    Ma, come ho detto, non si tratta di veri e propri giustizieri, se mai di progenitori, di lontani ascendenti.

    Io nasco nel Medio Evo, al tempo dei cavalieri e dei crociati, quando comincia a farsi strada il diritto dei barbari, delle genti libere che coltivano una diversa consapevolezza dell’essere persona, una voglia di riscatto, un desiderio di rivalsa, una pulsione di vendetta contro la tracotanza e la prepotenza.

    Mio fratello maggiore è Robin Hood.

    È una leggenda, lo so, ma rende l’idea.

    Nella versione moderna sono nato nel Far West.

    Più precisamente nel cinema del Far West.

    La frontiera mi ha invocato, mi ha desiderato, mi ha sognato.

    Ma mi ha visto molto di rado.

    Qualche volta non mi ha riconosciuto.

    In qualche caso mi ha addirittura impiccato.

    Qualcuno dice che io sono odio allo stato puro, una reificazione della vendetta.

    Altri mi vedono come l’angelo protettore: quello che ha trattenuto la mano di Abramo o quello che ha indicato a Lot la strada della salvezza.

    C’è chi mi ha scambiato per un inviato dell’Altissimo.

    E chi mi ha preso per satana redivivo.

    Io preferisco pensarmi come l’incarnazione della giustizia.

    La giustizia ...

    Quante parole si sprecano sul suo conto!

    Quante falsità si accreditano in suo nome!

    Quante definizioni devianti sono state coniate!

    Spesso si confonde la giustizia con l’amministrazione della giustizia.

    I credenti hanno rinunciato a battersi per la giustizia.

    Hanno affidato la sua amministrazione a Dio stesso: che, tuttavia, si mette all’opera dopo la morte delle persone.

    Che darà ciò che spetta a ciascuno alla fine dei tempi.

    Il Dio dei monoteisti è, tra l’altro, il più potente giustiziere entrato nella storia degli uomini.

    È il Cavaliere Pallido per eccellenza.

    Io sono nato per tutti coloro che non intendono aspettare il giudizio di Dio.

    Per coloro che dubitano della sua esistenza.

    Per coloro che ritengono questo giudizio un po’ troppo lontano ed aleatorio.

    Non tale, in ogni caso, da riparare i sanguinosi torti subiti.

    La giustizia umana, come detto, è nata con la legge.

    Là dove non c’è legge, si dice, non ci può essere nemmeno giustizia.

    E si tira in ballo il mondo animale.

    Dove tutto ciò che avviene è dominato dall’istinto.

    Dove tutto è determinato dalla forza e dall’astuzia.

    Senza possibilità di scampo.

    Senza piagnistei né recriminazioni.

    Necessariamente e senza alternative.

    Per gli esseri umani le cose vanno diversamente.

    Abbiamo anche un barlume di intelligenza.

    Una capacità sia pure ridotta di pensiero.

    Abbiamo anche la possibilità di metterci dal punto di vista degli altri.

    Lo dice David Hume.

    E forse è davvero una caratteristica essenziale del nostro modo di sentire e di intendere.

    Nostro nel senso del genere umano.

    Se le cose stanno così allora possiamo affermare che sempre, a proposito dell’uomo, si può e si deve parlare di giustizia.

    Qualunque sia il grado di aggregazione sociale raggiunto.

    Anche in assenza di una struttura sociale organizzata.

    Se mai, ciò che manca ai tempi più remoti, è l’amministrazione della giustizia.

    Ma lascio da parte le disquisizioni filosofiche.

    Voglio accettare il punto di vista comune.

    Voglio parlare di giustizia soltanto in presenza di una qualche struttura sociale, di una legislazione e di organi preposti a far rispettare la legge.

    Qui sorge subito un problema: chi fa le leggi?

    Ci sono, a questo proposito, due grandi fasi nella storia dell’umanità.

    Due fasi che indicano due strade diverse alla mia azione.

    La prima va dall’origine delle prime società fino al ‘700 dopo Cristo.

    Qua le leggi sono fatte dai potenti.

    A proprio uso e consumo.

    Sono fatte dai pochi contro i molti.

    Le leggi si basano sull’idea di una radicale diseguaglianza tra gli uomini.

    Chi fa le leggi si crede superiore, in diritto di far valere su tutti i propri diritti.

    Fa le leggi per tenere a bada la maggioranza della popolazione che è considerata alla stregua di una mandria di bestiame.

    Un ammasso informe di non persone, senza diritti né dignità.

    Alla totale mercé dei propri padroni.

    Quanto a lungo mi hanno invocato quelle genti!

    Ma invano.

    Ero ancora di là da venire.

    Non sarei sopravvissuto a lungo in un simile contesto.

    Ma quanto avrei avuto da fare!

    Contro la legge.

    Che era tale solo di nome.

    In realtà erano norme di comportamento pensate dai nobili per far sapere ai più umili come dovevano agire per perpetuare la loro sottomissione.

    Pensate a tutti gli esseri umani che sono stati usati come schiavi: nelle istituzioni pubbliche e private; nelle miniere; a remare nelle galere; a costruire piramidi, strade ed acquedotti; a soddisfare nei modi più impensabili le voglie, le ubbie e gli istinti dei loro padroni.

    Penso in modo particolare a tutti coloro che sono stati impalati dai persiani.

    Che sono stati crocefissi dai romani.

    Che sono stati bolliti e squartati dai mongoli.

    Che sono stati venduti come schiavi dai loro fratelli.

    A migliaia, a decine di migliaia.

    Che spettacoli raccapriccianti!

    Quanto dolore!

    Gratuito ma atroce, immenso ed inutile nello stesso tempo.

    Non c’è solo intensità nella sofferenza.

    C’è anche la quantità.

    Che stordisce.

    Che annichilisce.

    Basta la punizione di Dio per simili atrocità?

    Se ne sarebbero accontentati coloro che, strettamente legati, erano costretti, sotto un sole cocente, a farsi penetrare lentamente da un palo acuminato?

    Che cosa avranno desiderato per i loro aguzzini?

    Centinaia di migliaia di persone sgorbiate e uccise secondo la legge.

    Mi dispiace di non essere vissuto a quei tempi.

    Di non aver potuto nemmeno nascere.

    Contro la legge sarei entrato di nascosto nei loro palazzi.

    Armato solo delle urla terribili dei condannati.

    Delle lacrime delle loro donne e del dolore indicibile dei loro bambini.

    Contro la legge mi sarei appostato in un luogo sicuro aspettando il momento propizio.

    Contro la legge avrei aggredito il mandante di quegli scempi.

    Avrei risparmiato la sua donna.

    Avrei risparmiato i suoi bambini.

    (È chiaro che se al mio posto ci fossero stati la moglie e i figli dei condannati non avrebbero avuto i miei riguardi.)

    Il responsabile di simili atrocità, ve lo giuro, l’avrei strozzato.

    Non amo la vista del sangue ma quelle urla e quelle lacrime sarebbero state più forti di tutto.

    Più forti del ribrezzo e dei conati di vomito; delle smorfie e dei contorcimenti della mia preda. L’avrei fatto soffrire per qualche ora, almeno, centellinando la mia azione.

    Dopo aver provocato tanto dolore, dopo aver causato una sofferenza che non si può dire con le parole né concepire con l’immaginazione, dopo aver inflitto un martirio con cui a stento i visceri riescono a sintonizzarsi, può un essere umano morire d’un colpo, in pochi secondi?

    Sarebbe peggio che lasciarlo morire di morte naturale nel suo letto.

    Perché le lunghe ore dell’agonia di solito portano alla mente ricordi inquietanti, fanno risuonare nella testa le urla lancinanti delle vittime, ridanno vita alle immagini di quei corpi straziati e contorti nelle terribili convulsioni del supplizio.

    Sicuramente l’inferno è stato pensato per questi individui.

    Solo l’inferno sarebbe adeguato ad una simile malvagità.

    Infinito come la loro spietatezza.

    Incommensurabile come la loro ferocia.

    Ineffabile come la loro iniquità.

    Inimmaginabile e inarrivabile come la loro brutalità.

    Qualche ora di lento supplizio; sarebbe stato il minimo che avrei potuto infliggere loro.

    E mi sarei dovuto trattenere.

    Per non diventare come loro.

    Perché, sono sicuro, avrei avuto voglia di aprirgli il petto per strappargli il cuore; a stento avrei resistito dal tagliargli la pancia e buttare tutto all’aria.

    L’età moderna ha cambiato le cose.

    Ha introdotto la legge, una legge degna di questo nome.

    Ha sancito l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

    Ha proclamato, per tutti, il diritto alla libertà.

    E, non contenta, si è spinta molto più in là.

    Ha benedetto la fratellanza universale.

    Ha consacrato il diritto di ciascuno alla felicità.

    Si poteva fare di più?

    Sembrerebbe di no.

    Eppure, eppure ...

    Gli esseri umani non sono diventati improvvisamente santi per il solo fatto di aver solennemente giurato certe parole.

    I potenti non hanno perso d’un colpo la loro protervia né ai prepotenti sono cadute a terra le unghie.

    Tutto è rimasto sulla carta, nelle enunciazioni e nei principi.

    Non è forse scritto già nei Vangeli: ama il prossimo tuo come te stesso?

    Eppure, che ne è stato?

    Chi era potente ha cambiato vestito e atteggiamenti ma ha conservato intatto il proprio potere.

    Che, anzi, ha saputo rafforzare proprio con la legge.

    E accanto ai potenti è cresciuta una vera e propria selva di taglieggiatori, di persecutori e di aguzzini che con la legge o contro hanno costruito, a danno dei più deboli, una loro personalissima fortunata esistenza.

    Da qui il mio atto di nascita.

    Che è più enfatizzato che reale.

    In realtà sono stati i fumetti a introdurmi nella vita quotidiana.

    Il cinema, poi, mi ha consacrato.

    Sono Zorro, Tex, Superman, l’Uomo ragno: tanto per citare alcuni dei più noti.

    Rare volte mi sono materializzato nell’esistenza delle persone.

    Molto poco rispetto a quanto avrei desiderato.

    Infinitamente di meno di quanto sarebbe stato necessario.

    Il fatto è che sono stato letteralmente demonizzato.

    Dai detentori del potere, dai potenti secondo la legge.

    Sono stato bandito e perseguitato senza pietà.

    In nome della legge.

    Di quel diritto che i potenti hanno saputo addomesticare.

    Come?

    Creando un labirinto inestricabile di leggi.

    Assumendo un esercito di esperti conoscitori e manipolatori di regole.

    Il popolo?

    Rispetto al passato gode di una qualche maggiore garanzia.

    Non c’è dubbio.

    In genere non rischia la vita, se un potente si mette di traverso.

    Ma per il resto non ha molto altro di cui godere.

    Ciò che pesa, oltre all’impunità dei potenti, sono le angherie quotidiane.

    Sono i soprusi di cui i più deboli sono fatti segno.

    Da parte di quello sterminato sottobosco di vessatori che, come ho detto, in parte naviga dentro i recinti della legge, in parte scorrazza liberamente al di là.

    Al riparo dagli strali della legge.

    Il popolo mi invoca.

    Tifa per me in maniera spudorata.

    Pur conoscendo i miei problemi con la legge.

    Chiede insistentemente una giustizia più vera e profonda.

    Secondo o anche al di là della legge.

    Mi chiamano i genitori che vedono i loro figli uccisi dagli spacciatori: che vanno e vengono dalle prigioni ma che tornano sempre puntuali a seminar morte.

    Coloro che sono angariati dagli usurai, dalle bande organizzate, dai prepotenti di giornata.

    Le donne e i bambini vittime di parenti senza scrupoli, di ubriachi, di individui violenti per dna o per abitudine.

    Tutti coloro che sono costretti a subire in silenzio le mille prevaricazioni della burocrazia.

    Il popolo tutto quando, senza colpo ferire, è spogliato secondo la legge delle pubbliche ricchezze ... ... ...

    È un grido unanime che molti non sentono ma che a volte mi fa letteralmente impazzire.

    Si fa presto a dire che la mia azione è inaccettabile.

    Lo affermano ad alta voce tutti coloro che stanno al di là di ogni forma di vessazione.

    E, naturalmente, anche l’esercito di individui che vive di soprusi.

    Spesso gli uni si confondono con gli altri, così che per i più deboli non c’è proprio scampo.

    Quel che è certo è che molte cose non vanno per il verso giusto.

    Se non fosse così io non sarei mai nato.

    Sarei il primo a riconoscere che sono solo un volgare bandito.

    È facile dire ‘non servono i giustizieri, basta la legge con i suoi strumenti’.

    Ma quando tu vedi che lo spacciatore denunciato torna sempre e comunque ad insidiare i tuoi figli; che il protettore è sempre lì a costringerti al lavoro e a pretendere la sua parte; che il marito ubriacone e violento è rimandato regolarmente dentro la sua casa, dalla sua donna, tra i suoi figli; che il burocrate aguzzino è sempre là al suo posto a preparare le sue trappole; che i bulli di quartiere sono sempre nella zona ad imporre la loro presenza prevaricatrice ...

    Quando vedi tutto questo per giorni, settimane, mesi e anni, senza che mai nulla cambi veramente, quando la tua vita, condizionata da queste contingenze, diventa un vero e proprio inferno, allora tu non solo mi invochi ma desideri ardentemente che io intervenga, che faccia qualcosa.

    Chiameresti uno, cento, mille cavalieri pallidi.

    Perché la legge ti costringe a constatare che è inutile il ricorso alla legge.

    La legge ti spinge a desiderare che io agisca contro la legge.

    Il tessuto della legge è sacro.

    E la vita?

    Io do una prospettiva alla vita.

    Alle vite dei singoli.

    Anche a costo di strappare la trama della legge.

    La legge si può riaggiustare.

    E le vite?

    Che cosa raccontiamo ad una persona che ha vissuto un’esistenza infernale a causa di un violento o di un profittatore?

    Che gliene diamo un’altra?

    Me lo dica la società, me lo dica la legge: restituisce al disgraziato il maltolto?

    Gli dà un’esistenza nuova di zecca?

    Da vivere negli agi e in serenità?

    Mi si assicuri questo e io tornerò nell’avello.

    Come Dracula, anche senza aver bevuto sangue, tornerò per sempre dentro la tomba.

    Tornerò nella mia fossa, come il frate Antonio, anche senza aver prima ottenuto il saio.

    Docile come la principessa degli Altai rivestirò la mia camicia di seta, indosserò la pelliccia regale e tornerò dentro il mio tronco di larice, a dormire per sempre in mezzo ai sei veloci cavalli, addobbati con finimenti preziosi, pronti a volare oltre il firmamento per condurmi là dove mi attendono, beati, gli dei immortali.

    L’arrivato

    Infine l’ho spuntata.

    Sono assiso con pochi altri sulla vetta più alta.

    Non sono seduto, no: mai sedersi e voltare le spalle.

    Sono in piedi, solidamente appoggiato e con le spalle coperte.

    È come se fossi in cima ad uno dei grattacieli più alti del mondo.

    Penso all’Empire State Building.

    Dovrei dire le Petronas di Kuala Lumpur.

    O dovrei aspettare la torre di Shangai che sarà completata nel 2020.

    Ma dopo la sorte delle Twin Towers è meglio non esagerare.

    In realtà preferirei una montagna, l’Everest o lo spigoloso K2.

    Ma le montagne, quelle altissime in particolare, sono isolate in mezzo alla Natura.

    Svettano sul Nulla.

    A me serve qualcosa che si innalzi nel bel mezzo di una città.

    Che domini gli uomini e le loro opere.

    Perché la mia non è stata una scalata orografica.

    Ma un’ascesa sociale.

    E non saprei dire quale sia la più dura.

    Meglio: io lo so ma non voglio suscitare odiose diatribe.

    Voi non sapete cosa vuol dire cominciare da zero.

    È come pretendere di scalare l’Annapurna partendo dal Cabo de San Vicente.

    A piedi e senza altri strumenti che le scarpe e le mani.

    Per questo vi voglio dire un po’ di me.

    Di com’ero.

    Vi voglio far capire che cos’è lo zero sociale.

    Qualcuno non sa cosa sia.

    Sono pochi, quelli in buona fede.

    Altri fanno finta di non sapere ma sanno tutto.

    L’hanno sempre saputo.

    La maggior parte l’ha sperimentato sulla propria pelle.

    I più fortunati non capiscono, che cosa voglia dire esattamente.

    Anch’io, all’inizio.

    Tirano in ballo il destino, la mala sorte, la sfortuna ...

    Facezie per ignoranti.

    La cosiddetta gente non sa che si tratta di una legge ferrea imposta dagli uomini.

    Più dura degli ukase degli zar.

    Più spietata degli editti di Nabucodonosor.

    Più intangibile dei comandamenti di Dio.

    Io l’ho sentito sulla mia carne.

    Anche se alla fine ho vinto.

    Ma andiamo con ordine.

    Sono nato in un paesino di mezza collina.

    Tra il centro e il nord Italia.

    Una collina affacciata sul mare.

    Un posto incantevole.

    Dal punto di vista paesaggistico.

    Sono stato bambino negli anni ‘50.

    Anni di ristrettezze e di pensiero unico.

    Ma non voglio tediarvi con le solite lamentazioni.

    Non è più tempo.

    Noi ci siamo sorbiti in silenzio i nostri vecchi per ore, per giorni, per anni.

    Senza battere ciglio né emettere aria forzata.

    Quale giovane al giorno d’oggi se ne starebbe in silenzio ad ascoltare uno dei suoi nonni, anche solo per qualche minuto?

    Non si usa più.

    È meglio così?

    La mia è stata un’infanzia essenziale.

    Modesta e quasi povera dal punto di vista delle cose.

    Ma felice.

    È stato senza dubbio il periodo più felice della mia vita.

    Almeno nel ricordo.

    Ero un solitario.

    Amavo la compagnia dei miei coetanei ma non mi annoiavo nemmeno a star solo.

    A camminare dentro l’erba alta nella tarda primavera.

    A pestare le foglie secche nell’autunno inoltrato.

    Ad ammirare le albe frizzanti dal mare all’inizio dell’inverno.

    Ecco, il mare.

    Molto di ciò che io sono, viene dal mare.

    Non come entità fisica, come massa d’acqua.

    Io non so nuotare.

    Non ho mai imparato.

    Ho sempre avuto paura dell’acqua.

    Parlo del mare come stimolo della fantasia.

    Motore dell’immaginazione.

    Come desiderio e sogno.

    Come culla e amaca.

    Come evasione.

    Correre, andare, fuggire ...

    Vivere in pochi istanti mille altre esistenze.

    Tutte avventurose, tutte gratificanti.

    Sedevo su un masso sporgente, poco lontano da casa, nascosto tra alte querce.

    Respiravo a pieni polmoni la brezza che montava su, verso la cima della collina.

    Scrutavo con attenzione la grande distesa luccicante.

    E spingevo il mio sguardo fino ai confini dell’orizzonte.

    Proprio là dove cielo e mare diventano dello stesso colore,

    Confondendosi.

    Mescolandosi l’uno con l’altro.

    E mi divertivo a lacerare quel sipario grigio – azzurro che chiudeva le prospettive.

    A gettarmi oltre.

    E al di là ero libero.

    Ero destinato a studi limitati.

    Un diploma tecnico.

    Giusto perché ero gracile.

    Non sembravo tagliato per la fabbrica o i campi.

    Gli studi tecnici non mi attiravano.

    Mi feci ancora più gracile.

    Assunsi l’aria da malaticcio.

    ‘Malaticcio’ fu la parola magica inventata da mia madre.

    Mi spalancò le porte del liceo classico.

    E di giurisprudenza.

    Superai di slancio anche l’esame da procuratore.

    Non avevo alcuna possibilità di aprire uno studio tutto mio.

    Lavorai per due anni per l’avvocato più noto di tutta la città.

    Quindi affrontai gli esami per entrare in magistratura.

    Ero sicuramente uno dei giovani più preparati e capaci.

    Nonostante tutto non centrai l’obiettivo.

    Primo degli idonei non vincitori.

    Fui sopraffatto dall’amarezza.

    Quando scorsi la lista dei vincitori fui quasi stroncato dallo sconforto.

    La mia vita era ad un bivio.

    Mi salvò l’avvocato, il capo dello studio dove lavoravo.

    ‘Se vuoi entrare in magistratura devi battere altre strade.

    Gli studi, la preparazione, le tue doti...; è tutto secondario.

    Devi trovare un aggancio, una chiave: allora tutto diventerà possibile.’

    Avrei potuto rinunciare ma non avevo guardato invano il mare per anni.

    La mia volontà si era cimentata con i duri venti dell’est.

    Mi feci assumere come usciere del tribunale.

    Non tardai a far la conoscenza di tutti i magistrati.

    Coltivai soprattutto quella del Procuratore Generale.

    Non fu una passeggiata.

    Non la augurerei ai miei figli.

    Sacrifici?

    Di tutti i tipi.

    Umiliazioni?

    A non finire.

    Non bastarono né gli uni né le altre.

    Dovetti anche sposare la figlia del Procuratore.

    Una bella ragazza di due anni più vecchia di me.

    Claudicante in seguito ad un brutto incidente stradale.

    Diciamo pure zoppa.

    Vistosamente zoppa.

    Qualcuno storce la bocca.

    Qualcun altro arriccia il naso.

    Alcuni alzano le sopracciglia.

    O mi commiserano con ampi gesti.

    Era proprio necessario?

    Era indispensabile.

    La questione era molto semplice: chi parte da zero rimane a zero, per tutta la vita.

    È una legge non scritta ma granitica.

    E io non volevo restare usciere del tribunale a vita.

    Decisi di buttarmi al di là.

    A costo di mettere a ferro e a fuoco la mia coscienza.

    Di fare terra bruciata dei sentimenti.

    Fino a dimenticare me stesso.

    Il passo era duro ma obbligato.

    Fu quello giusto.

    Da quel momento in avanti la strada fu spianata.

    Non sbagliai un colpo.

    Né lo sbagliò mio suocero.

    Non che non lo meritassi.

    Ero molto più preparato della stragrande maggioranza di coloro che erano soliti vincere i concorsi.

    Forse un po’ meno di alcuni di coloro che ne restavano esclusi.

    Ma non aveva più importanza.

    La mia carriera fu una passeggiata.

    Non ho ancora 60 anni e sono Presidente di sezione alla Corte di Cassazione.

    Si può volere di più?

    Ci sarebbe ancora un gradino.

    Per il vertice assoluto.

    E solitario.

    Ma è un dettaglio.

    Questione di circostanze e di fortuna.

    Non mi è precluso.

    Potrei arrivarci oppure no.

    Non dipende da me.

    Pura casualità.

    In fondo mio suocero si è fermato molto al di sotto del mio livello.

    Sono all’apice e mi basta.

    Il mio onorario è tra i più alti distribuiti dalla Repubblica.

    Quasi da vergognarsene.

    Da non dirlo a nessuno.

    Le condizioni di lavoro sono invidiabili.

    Tanto che molto impropriamente si può parlare di lavoro.

    Il mio ufficio è degno di un imperatore.

    La mia scrivania è stata costruita nel settecento.

    È imponente e smisurata.

    Dirò soltanto che ha un piano di sette metri quadrati.

    Una comoda stanza per bambini.

    Non se ne fanno più, di questo tipo, da almeno un secolo.

    Non vi so descrivere l’emozione della prima volta.

    Mi dovetti appoggiare con i gomiti e chiudere gli occhi.

    Per le vertigini.

    Questo è lo Stato.

    Io so cosa significa stare ai vertici dello Stato.

    La soddisfazione più grande?

    Scrutare la faccia di mio suocero quando venne a farmi visita.

    Ci venne una sola volta.

    Era vecchio e vicino al trapasso.

    Si felicitò con me ma nello stesso tempo tremava.

    Quasi arrossì.

    Era talmente irrequieto che dopo appena dieci minuti dovette andarsene.

    L’usciere aveva sopravanzato il suo mentore.

    Di molte lunghezze.

    A che cosa avrà pensato?

    Alle umiliazioni che mi aveva inflitto?

    Le riceveva di rimbalzo in piena faccia attraverso il mio sguardo impietoso.

    Alla figlia che mi aveva imposto in matrimonio?

    Già avevo avuto modo di ripagarlo.

    Era pentito di avermi agevolato?

    Era sopraffatto dall’invidia?

    Forse c’era un po’ di tutto.

    Ma non gli feci sconti.

    Non mi sentivo debitore.

    Al contrario!

    E le sue condizioni non mi impietosivano.

    Mi facevano rabbia.

    Per quella scrivania avevo sacrificato molta parte di me.

    Avevo sposato la donna della mia carriera, non della mia vita.

    Pensavo che la sua menomazione, così evidente e invalidante, le avrebbe suggerito se non umiltà almeno una buona disposizione.

    Forte dell’appoggio della sua famiglia e consapevole della mia totale inconsistenza sociale, per 15 anni mi comandò a bacchetta.

    Infliggendomi senza pietà tutte le umiliazioni che suo padre mi risparmiava.

    Avevo temuto, subito dopo il matrimonio, di non poter sopportare la vergogna di andare in giro per il mio paese con una donna tanto segnata nel corpo.

    Illuso!

    Mi fece capire che la vergogna era tutta sua, nel portare a spasso una nullità par mio.

    Per quindici interminabili anni.

    Finché non raggiunsi una posizione tale da non aver più bisogno di mio suocero.

    Mi ero costruito una rete che mi permetteva di camminare con le mie gambe.

    Non solo.

    Avevo avuto più fortuna.

    Mentre suo padre era rimasto legato ad una corrente che, ad un certo punto, era diventata perdente, io avevo scelto il cavallo giusto.

    I magistrati a cui mi ero via via legato avevano preso in mano i vertici della struttura e disponevano di avanzamenti e promozioni a loro totale discrezione.

    Da quel momento il mio atteggiamento in famiglia cambiò radicalmente.

    Mi rifiutai di

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