Il traditore della mafia
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Il maxi processo di Palermo si conclude con 19 ergastoli e oltre 2665 anni di condanna alla detenzione. Alla base del gigantesco dispositivo giudiziario per la prima volta apertamente in lotta contro Cosa Nostra, ci sono le rivelazioni di un solo uomo. Questa è la storia del boss pentito più famoso al mondo: Tommy Branciforte. La sua testimonianza ha la forza dirompente di una bomba atomica all’interno dell’organizzazione mafiosa, ormai completamente nelle mani degli stragisti corleonesi, colpevoli – secondo Branciforte – di aver tradito lo “spirito” mafioso. Dopo che i suoi familiari vengono massacrati, Tommy sceglie di mettersi nelle mani di un magistrato, svelandogli la complessa struttura della cupola e profetizzando la morte dello stesso giudice. Questo romanzo traccia un ritratto vivido e originale del protagonista, perché lo ritrae nella vita quotidiana, sia nelle sue vesti di boss che in quelle di marito, amante e padre. Il tradimento di Tommy Branciforte non verrà mai dimenticato e una caccia spietata e instancabile lo perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni.
Il boss pentito che fece tremare cosa nostra con le sue rivelazioni
Hanno scritto di Vito Bruschini:
«Uno scrittore formidabile.»
Il Giornale
«Vito Bruschini ancora una volta confeziona alla perfezione una trama tessuta di personaggi ambigui, omicidi eccellenti, intrighi politici e servizi segreti deviati.»
Silvana Mazzocchi, la Repubblica
«Il verosimile spesso è più autentico del vero. Vale per l’ultimo libro di Vito Bruschini, che ha già attinto alla storia e all’attualità per raccontare, in forma romanzata, la storia del nostro Paese.»
Il Tempo
Vito Bruschini
giornalista professionista, dirige la «Globalpress Italia», agenzia stampa per gli italiani nel mondo. Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, The Father. Il padrino dei padrini; I segreti del club Bilderberg; I cospiratori del Priorato; Rapimento e riscatto e Miserere. Il papa deve morire. Il suo ultimo thriller è Il traditore della mafia, nella finzione del romanzo si nasconde una storia vera. I suoi libri sono tradotti all’estero.
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eNewton Narrativa Un tempo per amare un tempo per morire Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
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Anteprima del libro
Il traditore della mafia - Vito Bruschini
1
1984. L’INCONTRO CON IL GIUDICE
«Prima mi chiamavano il Pacificatore
, poi sono diventato per tutti il Traditore
, oggi il mio nome è Tommy Branciforte. Sono nato a Palermo e ho rinnegato quella che oggi voi chiamate mafia. Non mi voglio più confondere con quella gente, perché loro hanno tradito l’onore, mentre io sono un uomo d’onore. Sono un uomo di Cosa Nostra, quando però Cosa Nostra era l’organizzazione che difendeva i deboli dai soprusi dei potenti. Signor giudice, ci tengo a precisare che non sono un pentito perché non mi riconosco più in coloro che attualmente sono i capi di questa organizzazione spietata e crudele. Quelli della mia generazione avevano il senso della dignità. Rispettavamo l’amicizia, le donne, i bambini, la famiglia. Questi di ora non rispettano più nemmeno i santi in paradiso. Offrivamo rispetto e sostegno ai più deboli. La nostra parola era considerata vangelo, gli accordi si chiudevano con una stretta di mano. Nessuno di noi si sognava di raccontare quello che avveniva all’interno della famiglia. Il silenzio e l’omertà erano i pilastri su cui basavamo l’intera nostra esistenza. Per questo Cosa Nostra con le proprie strategie, gli accordi con i politici, gli intrallazzi con gli imprenditori, ha potuto proliferare in tutti questi anni senza che le istituzioni ne sospettassero l’effettiva consistenza. Poi qualcosa si è rotto. Sono arrivati i viddani con i loro imbrogli, le doppie facce, il tradimento degli antichi valori, la corruzione, la violenza fine a sé stessa. Quel corleonese è stato la nostra rovina. Con lui sono venuti meno tutti i valori che facevano di noi dei veri uomini d’onore. Ora questi valori sono stati sepolti sotto una montagna di fango. Io ho deciso di spalare quel mucchio di merda, sotto cui il corleonese ha sepolto gli ideali di Cosa Nostra. È per questo motivo che sono qui, signor giudice. Ed è per questo motivo che non mi considero un traditore. Non sono una spia. Tengo a precisare che le rivelazioni che farò non le dirò per propiziarmi i favori della legge. E, come dicevo, non voglio essere considerato neppure un pentito, perché non prevedo di ottenere dei favori dalle mie rivelazioni. Quando appartenevo a Cosa Nostra ho commesso errori per i quali ora sono pronto a pagare il giusto prezzo, senza pretendere sconti o conseguire benefici per la mia collaborazione. Le racconterò, signor giudice, quello che è a mia conoscenza di quel cancro che è questa mafia affinché possa essere sradicata e le generazioni future possano vivere la loro esistenza in modo più dignitoso e umano».
Furono queste le prime parole che Tommy disse, incontrando il giudice istruttore, la mattina di un giorno di luglio del 1984 nella questura di Roma. Tommy era un uomo psicologicamente provato e fisicamente molto debole per la stricnina che aveva ingerito qualche giorno prima, dopo aver saputo che dal Brasile, dove viveva, sarebbe stato estradato in Italia. Aveva dolore ai denti e veniva colto da tremori improvvisi. All’epoca aveva 56 anni e la sua vita era arrivata a una svolta decisiva: aveva iniziato a collaborare con lo Stato. Lui, uno dei padrini più influenti di Cosa Nostra, per intelligenza, perspicacia e visione strategica, aveva deciso di diventare un confidente della polizia.
Prima di lui soltanto un altro mafioso, Leonardo Vitale, esattamente dieci anni prima, spinto da una crisi religiosa, aveva deciso di rompere il ferreo patto di omertà per collaborare con gli inquirenti, raccontando la storia criminale della sua cosca mafiosa. Purtroppo per lui, non venne creduto, le prove furono ritenute insufficienti dagli inquirenti e fu rinchiuso in un manicomio. Più tardi, quando venne rilasciato, i sicari di Cosa Nostra pensarono di farlo tacere per sempre sparandogli due colpi di lupara alla testa.
A Tommy dunque spettava il primato di essere considerato il primo boss mafioso a collaborare con le istituzioni. Quella sua scelta fu molto sofferta, ma arrivò perché ormai Cosa Nostra aveva finito di essere quella repubblica democratica del crimine
che la distingueva dalle altre associazioni criminali, per trasformarsi in una sorta di dittatura feroce e sanguinaria detenuta da una famiglia di bifolchi contadini originari di Corleone.
Tommy aveva sempre disprezzato le spie e i confidenti della polizia. Li considerava uomini senza dignità perché avevano rinnegato un sacro giuramento fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’organizzazione. Ma ecco, ora proprio lui, che si considerava un uomo d’onore, stava per fare il passo fatale e valicare quell’immaginaria linea di confine che, per i mafiosi, separa l’onore dall’infamia. Tommy stava per diventare un delatore.
Da quando aveva preso quella decisione, veniva spesso colto, durante il giorno, da momenti di grave depressione. Il senso di vergogna era insopportabile. Poi però pensava che lui non apparteneva più a quella categoria di persone. Aveva fatto quella scelta perché costretto dal comportamento disonorevole di coloro che stavano smantellando tutti i sacri princìpi su cui fino a quel momento si era fondata Cosa Nostra. Ecco il motivo per cui non si sentiva un traditore. Questi contrastanti sentimenti tormentavano il suo animo. Un momento era sereno della scelta fatta e un istante dopo veniva assalito dai rimorsi che lo saturavano di sensi di colpa fino a indurlo a esaminare una via di fuga estrema: il suicidio.
Al terzo piano della questura centrale di Roma, il vicequestore della Criminalpol aveva fatto predisporre dai suoi uomini, in un angolo del suo ampio studio, un tavolino con due sedie che si fronteggiavano. La postazione era destinata agli incontri che, per i prossimi mesi, il giudice istruttore della sesta sezione del tribunale di Palermo avrebbe avuto con Tommy.
C’era grande attesa per le sue dichiarazioni.
In teoria soltanto gli agenti della Criminalpol addetti alla sua sorveglianza e quelli della squadra omicidi della questura sapevano della sua presenza nell’edificio. Il buono pasto, che gli consentiva di usufruire della mensa, figurava assegnato a un anonimo ospite del vicequestore. Ma era impossibile tenere un segreto di quella portata con tanta gente che circolava per i corridoi della questura. Ben presto i giornalisti vennero a sapere che il famoso boss dei due mondi
si trovava a Roma, nascosto nella questura di San Vitale e iniziarono ad assediare i responsabili dell’ufficio stampa per ottenere almeno un incontro con il pentito.
Il giudice, prima di Tommy, aveva istruito i processi Spatola e Màfara che gli avevano consentito di affacciarsi nei meandri di Cosa Nostra. Con l’aiuto di quel pentito sperava di avere conferme o di rettificare ciò che fino a quel momento aveva appreso da autodidatta della mafia.
Tommy non si era ancora ripreso dall’avvelenamento. La cura a base di micro-dosi di curaro gli procurava un malessere generale che si manifestava con dolori alle arcate dentarie, in tremori e sofferenze muscolari, ma anche con improvvisi vuoti di memoria.
Il pentito fu condotto nello studio dai due agenti incaricati della sua sorveglianza. Tommy si avvicinò e salutò il magistrato e il vicequestore.
«Buongiorno. Come sta oggi?», il commissario gli fece cenno di sedersi. Tommy, ancora malfermo sulle gambe, non se lo fece ripetere.
«Un po’ debole. Ma bene, tutto sommato», disse al vicequestore. Poi si rivolse al giudice: «Immagino che si dovrà spostare continuamente da Palermo a Roma».
«Ci sono abituato», rispose il giudice accendendosi una sigaretta. Si sedette davanti a Tommy, mentre il commissario restò in piedi.
Il giudice studiò il pentito e notò che in silenzio seguiva le volute di fumo che salivano dalla brace. Allora prese il pacchetto e glielo porse per fargli pescare una sigaretta. Tommy la sfilò dall’involucro e il giudice l’accese, lasciandogli il pacchetto iniziato.
All’inizio dell’interrogatorio il magistrato chiese a Tommy se poteva utilizzare il registratore per raccogliere la sua deposizione. Ma il mafioso aveva subito fatto capire, con un deciso diniego, che non gradiva essere registrato. «Vede, signor giudice», aveva tentato di spiegare, «uno come me, un uomo d’onore, fa una grande fatica a parlare. Per noi è imperativo il silenzio. Ma quando siamo costretti a parlare, sapere che le nostre parole potranno essere ascoltate mille e mille volte ci paralizza. Perciò preferirei che prenda degli appunti».
«Così mi può sempre smentire», commentò il giudice.
«È un rischio che le chiedo di correre», sorrise il mafioso.
Il giudice comprese le sue intenzioni e le accettò. Poggiò sul tavolo un blocco notes. Poi prese dei fogli in carta da bollo e li depose sul blocco e si preparò a scrivere.
«Signor Tommy, deve dirmi nome, cognome e tutto il resto… capisce, è la prassi».
Tommy dettò pazientemente le sue generalità, poi iniziò a raccontare cos’era la mafia. La sua confessione, raccolta parola per parola dal giudice, si prolungò fino a oltre dicembre. Sei lunghi mesi, per tre o quattro giorni a settimana, per dodici ore al giorno, a parte le pause pranzo, durante le quali il magistrato trascrisse personalmente le informazioni del padrino di Cosa Nostra.
«Allora signor Tommy, vogliamo parlare di mafia?», gli chiese.
«Dottore, in questo momento le mie condizioni di salute sono precarie. La mente fa fatica a inseguire i ricordi. Le chiederei, se possibile, un po’ di tempo per potermi riprendere e iniziare quindi l’interrogatorio vero e proprio tra qualche giorno».
Il giudice fu comprensivo. Lo spronò a rimettersi in salute e prima di andarsene fece un patto con lui: «Facciamo così. Quando lei si sente in grado di iniziare i nostri incontri, lo dica al signor commissario. Lui mi avviserà e io da Palermo prenderò il primo volo per venire qui da lei, siamo d’accordo?».
Tommy si sforzò di sorridere, malgrado i dolori muscolari che lo tormentavano. Lo ringraziò e, sorretto dai suoi due angeli custodi, venne riaccompagnato ai piani superiori.
2
L’INIZIO DELL’INTERROGATORIO
Tommy era affascinato dalla personalità del magistrato. Era un uomo leale, che non prometteva se non poteva mantenere; che agiva senza doverlo rimarcare; che non si vantava di ciò che otteneva, perché lui era un uomo di straordinarie qualità umane e professionali.
Il giudice era nato nel centro storico di Palermo. Fin da bambino aveva respirato aria di mafia, di violenza, di estorsioni e omicidi. Aveva giocato con coetanei che poi sarebbero diventati temuti uomini d’onore. Dopo la laurea in giurisprudenza e il concorso, gli fu assegnato l’ufficio di pubblico ministero al tribunale di Marsala e il suo primo caso fu un’inchiesta su un’intera famiglia mafiosa accusata di aver commesso dieci omicidi. In quel periodo nella cassetta della posta trovava cartoline e lettere minacciose, con disegni di bare e croci con le date di nascita e di morte. Conosceva bene quella tattica utilizzata dalla mafia nei confronti dei magistrati alle prime armi, ma non si fece intimidire. Portò davanti alla corte quelli che considerava i responsabili degli omicidi. Purtroppo i giudici non furono altrettanto coraggiosi. Anche loro furono minacciati di morte e così mandarono assolti tutti gli imputati.
Imparò sulla propria pelle quanto la mafia fosse potente con la sua forza d’intimidazione, e che non andava assolutamente sottovalutata o ignorata, come purtroppo ancora accadeva anche tra le più alte cariche dello Stato. Nell’estate del 1978 passò alla procura di Palermo dove per un anno si occupò di reati finanziari. Poi avvenne l’omicidio del giudice Cesare Terranova, nemico giurato di Luciano u’ Tignusu e dei corleonesi. Quell’infausto evento lo spinse a chiedere il trasferimento alla sezione del magistrato ucciso. Il procuratore che sostituì Terranova, il giudice istruttore Rocco Chinnici, un giorno lo convocò e gli disse: «Questo caso è molto delicato e voglio che sia tu a seguirlo».
Da quel momento il giudice s’immerse in un oceano del tutto sconosciuto. Inaugurò un nuovo metodo d’indagine, esplorando i percorsi tracciati da assegni sospetti. Inondò le banche palermitane di richieste di informazioni su transazioni ritenute ambigue, su operazioni con l’estero, confrontando le fotocopie degli assegni con i tabulati delle registrazioni per cercare eventuali collegamenti o incongruenze. Cercava prove concrete, affinché gli abili avvocati difensori non potessero confutarle. Per i giudici fu una rivoluzione. Fece condannare settantaquattro mafiosi, cosa che non era mai accaduta in Sicilia dove le sentenze dei processi per mafia terminavano invariabilmente con un verdetto di assoluzione per insufficienza di prove.
Un giorno il presidente della corte d’appello volle incontrare Chinnici, il superiore del giudice istruttore, e accusò il suo subordinato di mettere a repentaglio l’economia stessa dell’isola. In definitiva consigliò a Chinnici di frenarlo e di seppellirlo sotto una montagna di piccoli processi, così da distoglierlo da quelli più impegnativi e pericolosi di Cosa Nostra.
Rocco Chinnici, magistrato di qualità morali e strategiche eccelse, ignorò l’esortazione del collega. Anzi più tardi rivoluzionò la sezione istruzione che fino a quel momento procedeva a compartimenti stagni. Ogni giudice istruttore svolgeva la sua indagine senza incrociare le proprie informazioni con quelle degli altri colleghi che magari svolgevano inchieste similari e dove spesso gli attori erano gli stessi. Fu lui a ideare il pool antimafia, l’ormai mitico gruppo di magistrati che iniziarono a indagare su più fronti come un unico cervello. Chinnici aveva capito che la struttura di Cosa Nostra era un organismo ramificato e molto articolato, unico e verticistico che obbediva a un gruppo dirigente. Per contrastarlo non era sufficiente un solo, volenteroso giudice, bensì un gruppo ben affiatato, grintoso e incorruttibile.
Il giudice istruttore pensava a quei giorni pieni di speranze, ma anche di sconfitte e smarrimenti. Ora però aveva davanti a sé l’uomo che avrebbe potuto fare la differenza e dare loro una chiave di lettura per aprire quella casa misteriosa dove nessuno prima, che non fosse stato un mafioso, era mai entrato.
La voce di Tommy lo fece tornare alla realtà. «Dottore, non deve farsi grandi aspettative. Non credo che questo Stato sia ancora in grado di comprendere e fronteggiare un fenomeno di così grandi proporzioni e così radicato nel territorio come la mafia. Ci vorranno anni e generazioni di giovani decisi a fare a meno di Cosa Nostra, per smantellarla». Tommy si sedette sulla poltrona e il giudice istruttore di fronte a lui su una sedia di legno. «Io le dirò fatti e responsabili di quelle azioni che le consentiranno di ottenere risultati come non ne avete mai ottenuti fino a oggi. Lei, signor giudice, dopo le mie rivelazioni diventerà una celebrità. Ma l’avverto, cercheranno di distruggerla professionalmente e fisicamente. Io ho fiducia soltanto in lei e nel commissario. Perché ho capito che siete due uomini d’onore. Non mi fiderò di nessun altro, non parlerò con nessun altro. Perché nello Stato italiano c’è gente che non vuole che la mafia venga sconfitta. Dal momento che comincerò a parlare, la mia vita non varrà più del valore della pallottola che Cosa Nostra mi ha già destinato. Il mio conto con la mafia si chiuderà soltanto con la mia morte e con la morte di coloro che avranno la sventura di starmi vicino. Sarà questo il mio modo di espiare per tutto il male che ho fatto. E ora, se e quando vorrà iniziare a interrogarmi, io sono pronto».
Quel giorno di metà luglio l’uomo di giustizia aprì il grande blocco notes e si accinse ad ascoltare la confessione di Tommy.
«Esiste la mafia?», domandò il giudice provocatoriamente.
Tommy si sistemò sulla sedia e iniziò la sua confessione. «La parola mafia
è una creazione letteraria», gli rivelò subito Tommy. «I veri mafiosi vengono chiamati semplicemente uomini d’onore
. Ognuno di loro fa parte di una borgata
, io per esempio ero di Porta Nuova. E ogni uomo d’onore è membro di una famiglia
. La famiglia è retta da un capo eletto dagli uomini d’onore. Il capo nomina un sottocapo e uno o più consiglieri. Se però la famiglia è molto ampia, allora anche i consiglieri vengono eletti, ma non sono mai più di tre. Il capo nomina anche un capo-decina. Questi comanda una decina di soldati
, lo dice la parola stessa. Vengono chiamati soldati i mafiosi che non hanno responsabilità dirette. Sono in pratica la manovalanza. Il capo della famiglia non viene chiamato capo, ma rappresentante di quella famiglia. Al di sopra delle famiglie, con funzioni di coordinamento, esiste una struttura collegiale chiamata Commissione
, composta da membri che rappresentano almeno tre famiglie territorialmente contigue. Queste nel loro insieme formano il mandamento. Sono i capi delle tre famiglie a eleggere il loro capo. Un capo mandamento può convocare la Commissione. Ai miei tempi i membri della Commissione duravano in carica tre anni. Ma non so se ancora oggi vengano rispettate queste regole perché nella pratica la Commissione, che doveva dare una parvenza di democrazia nelle decisioni che riguardavano la politica dell’organizzazione, se cade in mano a un gruppo dominante, questo impone la propria volontà e allora addio democrazia. Ecco, questa organizzazione si chiama Cosa Nostra, come negli Stati Uniti».
Tommy poi si dilungò nel definire i diversi mandamenti palermitani, specificando i loro capi e i rappresentanti delle famiglie associate.
«Tutto questo serve per tracciare un quadro dell’organizzazione. Poi scenderemo nel dettaglio dei fatti che stanno insanguinando la città. Le dirò di Scianchetta che ha ucciso il colonnello Russo, non so se da solo o con altri. Di Boris Giuliano che è stato ucciso personalmente da Leoluca, detto Sangunaru. Mentre Terranova è stato ucciso su mandato di Luciano u’ Tignusu. Mattarella su mandato della Commissione su indicazione d’u’ Nano, l’attuale capo dei corleonesi. Gaetano Costa è stato ucciso su mandato di Totuccio, conosciuto come Billizza. Il capitano Basile è stato ucciso dai tre arrestati dalla polizia su mandato d’u’ Nano. Non so nulla invece dell’omicidio La Torre. Anche l’onorevole Reina è stato ucciso su mandato d’u’ Nano. In ogni caso faccio presente che le vicende sono molto complesse e che diversi sono i responsabili di tali assassinii, su cui in seguito riferirò diffusamente. Infine per l’omicidio di Pietro Scaglione ho sentito dire che gli autori sono stati u’ Nano e due persone a me sconosciute. Infine riferirò anche dell’omicidio Dalla Chiesa che, per quanto è a mia conoscenza, è stato compiuto anche nell’interesse dei catanesi di Benedetto, che chiamavano il Licantropo per l’efferatezza delle sue esecuzioni, con il consenso unanime della Commissione in mano ormai ai corleonesi».
3
I CORLEONESI
Tommy sentiva di essere capitato nelle mani giuste. Il magistrato gli infondeva sicurezza. I suoi occhi erano buoni, la sua professionalità non era arrogante, non cercava mai di umiliare il suo avversario, ma gli dava sempre la possibilità di difendersi con dignità. Le sue parole emanavano un flusso di energia positiva. Non vestiva mai la toga del giudice vendicatore, ma quella dell’uomo giusto. Tommy capì che di lui poteva fidarsi.
«Ma chi sono questi corleonesi?», gli chiese il magistrato.
Tommy s’irrigidì, ma cercò di non tradire il suo odio per quelle persone. «A Corleone il capo è Luciano u’ Tignusu, anche ora che è in galera. In sua assenza i reggenti sono u’ Nano e Bernardo u’ Tratturi, con pari poteri, solo che u’ Nano è molto più intelligente e scaltro dell’altro e quindi ha maggior peso presso i suoi uomini. C’è poi Leoluca, detto u’ Sangunaru, che ha sposato la sorella d’u’ Nano e anche lui è tra i membri più autorevoli di quella feccia. Forse, ma non ne sono sicuro, fa parte della famiglia anche Salvatore, il fratello di Bernardo. Debbo far presente che la caratteristica della famiglia di Corleone è quella di non far conoscere alle altre famiglie i nomi dei propri affiliati e di ciò Tano si è sempre lamentato. Tano lo chiamavano Pisciacetu perché era sempre incazzato, con rispetto parlando. Ed è stato uno dei motivi di attrito tra lui e u’ Nano. Per concludere il quadro d’insieme, sappia che famiglie mafiose si trovano in tutte le province della Sicilia ad eccezione di Messina e Siracusa».
«La Commissione è unica?», domandò il giudice.
«No. Ogni provincia ha la sua