Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Un Cavaliere a Bellavista
Un Cavaliere a Bellavista
Un Cavaliere a Bellavista
E-book601 pagine7 ore

Un Cavaliere a Bellavista

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L’autore ripercorre la sua infanzia per spiegare alle figlie le difficoltà affrontate dalla famiglia, tutta unita a superare al meglio il difficile periodo storico a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. La suddivisione dell’opera in tanti specifici episodi consente di focalizzare la lettura nel contesto di quel tempo, tanto dissimile dalle condizioni tecnologiche e informatiche attuali. Un secondo intento dello scritto è di consentire un confronto obiettivo fra il benessere e la scolarizzazione attuale con la diffusa miseria e l’ignoranza culturale della popolazione d’allora, prevalentemente contadina, da cui proviene orgogliosamente Remo, il protagonista. Parte dei racconti descrivono la vita faticosa in campagna, ma anche il suo tranquillo e salutare avvicendarsi quotidiano. L’ambiente naturale dove si svolgono gli episodi sono i poderi sulle colline bolognesi, prima del grande esodo dei giovani verso la città. Oltre alla testimonianza diretta, lo scritto si propone di conservare la memoria di un tempo ormai lontano, non più ripetibile. La memoria del passato è utile e necessaria a formare una coscienza illuminata nei giovani di tutte le epoche.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2020
ISBN9788831655217
Un Cavaliere a Bellavista

Correlato a Un Cavaliere a Bellavista

Ebook correlati

Biografia e autofiction per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Un Cavaliere a Bellavista

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Un Cavaliere a Bellavista - Remo Tossani

    633/1941.

    PREFAZIONE

    Nel pensare Storie di bocca per la piccola Greta, i ricordi mi hanno preso la mano e ho inserito una serie di fatti vissuti intensamente, meritevoli a mio avviso di essere ricordati, ma che avevano poco a che fare con il titolo di base.  Pertanto, mi sono trovato una raccolta non solo eccessiva per un solo libro, ma in buona parte anche poco attinente al tema iniziale.

    Ho deciso così di raccogliere sotto il titolo Storie di Bocca (libro già pubblicato a maggio del 2017) principalmente gli episodi che mi sono accaduti e ho effettivamente raccontato a Greta per divertirla. Mentre ho convogliato sotto il titolo:

    UN CAVALIERE A BELLAVISTA

    Romanzo Famigliare dal 1938 al 1953

    Rione Barbianello - Bologna

    gli eventi che, pur intersecandosi nel tempo con la prima raccolta, mi hanno consentito di rappresentare un quadro più autentico e veritiero del periodo trattato, cioè dalla mia nascita nel 1938 alla terza media nel 1953.

    Chi avrà trovato interessante e gradevole la lettura del primo libro Storie di bocca, potrà approfondire la vita e le situazioni vissute in quel difficile periodo, seguendo le movimentate vicissitudini della mia famiglia e narrate in questo secondo libro.

    Ho deciso di arricchire i miei ricordi dell’infanzia con le date e gli avvenimenti più importanti avvenuti dalla mia nascita alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per far capire meglio, alle figlie e alla mia nipotina e così pure ai volonterosi lettori, le circostanze in cui si sono susseguite le mie piccole vicende famigliari, rapportate alla tragedia del conflitto planetario scatenato dalla follia nazifascista.

    Ho corredato il libro di alcune decine di fotografie di famiglia in bianco e nero d’epoca e una ventina più recenti a colori, per contestualizzare meglio le vicende narrate.

    Ho attinto liberamente da Wikipedia, siti Internet e da libri di storia contemporanea le date precise dei fatti storici elencati.

    Devo spiegare, inoltre, che ho utilizzato la scrittura in corsivo per raccontare i miei fatti personali, mentre, per distinguere meglio le narrazioni, ho usato la scrittura in stampatello per riferire la cronaca di Bologna e le vicende riportate di quel tempo, comprese le date e gli avvenimenti della Seconda guerra mondiale.

    BOLOGNA, mercoledì 27 aprile 1938:

    All’Istituto Maternità di Via D’Azeglio, la mia mamma Maria Franceschini, moglie di Alfredo Tossani, partorisce il suo 6° figlio, terzo maschio, al quale sono conferiti i seguenti nomi:

    Remo Benito Mario, quasi un discutibile e ossequioso atto di rispetto al dittatore di Predappio, nel XVI anno dell’Era Fascista.

    Ecco, prendendo lo spunto da questa terna di nomi affibbiatami dai miei genitori, identificherei il mio secondo romanzo proprio in tre parti, corrispondenti a tre periodi ben precisi del mio vissuto, precisamente:

    Prima parte: i ricordi della Seconda guerra mondiale, il periodo dalla mia nascita alla fine della guerra Nazi-Fascista.

    Seconda parte: racconti sulla diffusa miseria del dopoguerra - la fondazione della Repubblica Italiana;

    Terza parte: la ripresa economico-sociale del Paese, episodi dal 1950 in poi.

    Nella vita da adulto ho avuto inoltre l’onore d’indossare tre prestigiose Sciarpe Azzurre, che documenterò con fotografie all’inizio di ciascuna delle tre parti:

    Prima Sciarpa Azzurra: Ufficiale dell’Esercito Italiano

    Seconda Sciarpa Azzurra: Cavaliere di Malta

    Terza Sciarpa Azzurra: Moschettiere d’Armagnac.

    Prima Sciarpa Azzurra

    Ufficiale Sottotenente al 40° Rgt. di Fanteria Trieste nella Caserma Mameli di Bologna a partire dai primi giorni di gennaio 1960.

    Inviato in congedo anticipato e illimitato il 15 marzo 1961, dopo nove mesi di rafferma volontaria.

    Promosso al grado di Tenente con decorrenza dal 1° gennaio 1964.

    Richiamato in servizio nei mesi di luglio e agosto 1969 per la promozione a Capitano.

    Ha soggiornato temporaneamente al 40° Rgt. di Fanreria a Bologna e alla Scuola di Fanteria di Cesano, quindi inviato per tre settimane al campo estivo per le Esercitazioni a Fuoco della Divisione Lupi di Toscana nel poligono di Fonni-Mamoiada in Sardegna.

    Purtroppo, non possiedo alcuna fotografia con la Sciarpa Azzurra sulla diagonale indossata nelle parate celebrative o nei turni di Ufficiale di Picchetto alla Caserma Mameli di Bologna

    Foto Archivio Tossani.

    PRIMA PARTE: dalla mia nascita alla fine della Seconda Guerra Mondiale - periodo dal 1938 al 1945

    1) Mio padre Alfredo.

    Pare che mio padre avesse finito per essere anche lui influenzato dalla martellante propaganda fascista e, fra le tante riserve, nutrisse una certa ammirazione per l’ex socialista di Predappio.

    Era risaputo che egli era d’idee progressiste, tanto che una sera dopo cena subì un’intimidazione sull’aia di casa da parte di una squadraccia venuta dalla bassa, la pianura padana tra le province di Ferrara e Rovigo.  Con l’affermarsi del fascismo, gli episodi di prepotenza delle squadracce crebbero in maniera esponenziale  durante il ventennio.

    Una sera d’inizio estate, un manipolo di sei o sette camice nere si presentarono minacciose sull’aia davanti alla porta della cucina. Saltarono giù dal camion brandendo i famigerati manganelli e i  fiaschi d’olio di ricino ben in vista.

    Forse la squadraccia fu mandata dal fattore, che tempo addietro aveva tentato di fare una vigliaccata alle famiglie di Alfredo ed Enrico Tossani, che assieme coltivavano in affitto il podere La Sampiera, fin dall’anno 1923.

    Il fattore si era presentato al nonno Leopoldo esigendo proditoriamente, per conto del padrone Prof. Vitali, una partita di grano, non documentata e sicuramente non dovuta.

    Alle giuste rimostranze dell’allora capo famiglia, Leopoldo Tossani, l’arrogante fattore cominciò a insultare e minacciare presto una ritorsione a lui e a tutti i famigliari.

    Foto Archivio Tossani.

    Mio padre Alfredo è ripreso, non ancora ventenne, qualche mese prima della chiamata sotto le armi, nel dicembre del 1915.

    In disparte, mio padre Alfredo, allora quarantenne, aveva udito tutto e, senza indugio, gli si avvicinò in modo determinato e minaccioso, brandendo al rovescio al parpignàn, la frusta di rami di vimini intrecciati, gli mise sotto il naso il manico nodoso:

    Adès at’ la dagh me la tò pèrt, sò e zà par la vétta!

    Adesso te la do io la tua parte, sul groppone!

    Mio padre era un uomo molto corretto e rispettoso delle regole di civile convivenza, ma, se qualcuno osava offenderlo, gli venivano i fumèn, le ire, diventava furioso, lui non era capace a trattenersi più di tanto.  Diciamo che sapeva farsi rispettare.

    Vista la mala parata, il fattore non ci pensò due volte e scappò via correndo dall’aia, inseguito da mio padre fin sulla strada di Via degli Scalini. La lezione era servita, perché non ebbe mai più il coraggio di ritornare al podere la Sampiera!

    Il proprietario del fondo, Prof. Vitali, fece sapere, a mio nonno Leopoldo, che aveva esonerato quell’uomo dall’incarico di rappresentarlo.

    Tornando alla spedizione fascista, mi raccontarono che il caporione nero non ebbe il coraggio di infierire subito su mio padre, al cospetto delle donne e dei bambini strettisi attorno a lui, come per proteggerlo.

    Papà Alfredo, colto di sorpresa dall’imboscata, si tolse la cinghia dei pantaloni e si mise sulla difensiva, pronto a reagire coraggiosamente all’evidente provocazione della squadraccia.

    Nel frattempo, erano accorsi sull’aia i nonni paterni e materni muniti di nodosi bastoni, fiancheggiati dai due salariati armati di forche, sopraggiunti di corsa dai loro giacigli nel fienile e pronti a dar man forte alla Famiglia Tossani.

    E’ risaputa la vigliaccheria dei manganellatori fascisti di allora: pronti ad accanirsi sui poveracci indifesi  e lesti a scappare di fronte a reazioni altrettanto violente.

    Vista la piega non prevista dell’incursione, i bravacci risalirono frettolosamente sul mezzo ostentando minacciosamente i fiaschi della mancata purga e inveendo contro I fanatici rossi. Quindi, rincarando la dose d’insulti e minacce a tutti i presenti, si allontanarono nel buio della notte cantando a squarciagola una nota canzone fascista:

    "All’armi, all’armi siam fascisti, abbasso i comunisti, ecc. 

    Del fattaccio non ho una data certa da riferire, penso sia avvenuto nel 1936 o 1937, quando lo zio Enrico si era  già trasferito al podere Il Monte.  Infatti lui non era presente.

    La minaccia non raggiunse mai il suo scopo: dalle carte e dai ricordi dei famigliari non risulta che mio padre si sia mai iscritto al Partito Nazionale Fascista.

    ANNO 1939

    In quell’anno muoiono ben tre nonni, quasi sicuramente di vecchiaia, o, volendo meglio precisare, per il logorio fisico dovuto alla vita faticosa da contadini:

    -21 gennaio Franceschini Agostino di anni settantuno.

    - 23 aprile    Tossani Leopoldo di anni ottantadue.

    - 5 novembre Giardini Virginia vedova Tossani, settantasei anni.

    I fatti più importanti dell’anno 1939 furono:

    - Marzo: il cardinale Eugenio Pacelli fu eletto Papa Pio XII.

    - Aprile: l’Italia fascista conquista e annette l’Albania.

    - Maggio: è sottoscritto il Patto d’Acciaio fra l’Italia fascista di Benito Mussolini e la Germania nazista di Adolf  Hitler.

    -Agosto: firma del patto di non aggressione fra la Germania di Hitler e la Russia di Stalin

    -L’11settembre la Germania invade la Polonia, di fatto dando così inizio alla Seconda Guerra Mondiale in Europa.

    ANNO 1940

    2) L’Italia entra in guerra.

    La possente macchina da guerra della Germania e le sue pretese territoriali portate avanti con importanti annessioni, nonostante gli inutili richiami della Società delle Nazioni, stavano incendiando tutta l’Europa.

    Così i venti di guerra cominciarono a soffiare sempre più forti anche in Italia. Mussolini, sopravalutando le vittorie tedesche ottenute in breve tempo nella guerra lampo, timoroso di arrivare tardi al tavolo dei negoziati alla cessazione delle ostilità, si autoconvinse che era giunto il momento di dar man forte all’alleato, partecipando attivamente alle operazioni di guerra. Gli otto milioni di baionette mal equipaggiate, senza un supporto adeguato di armamenti moderni e mezzi militari efficaci,  utilizzate improvvidamente, porteranno invece l’Italia alla rovina.

    La mamma mi ricordava che, negli ultimi mesi di vita, il papà le parlava di frequente degli stenti e delle atrocità che aveva patito durante i suoi cinque anni da coscritto, nella prima guerra mondiale. Era molto preoccupato per l’incolumità della sua famiglia, la sua grande ragione di vita.

    Gli sembrava impossibile che i governanti fascisti non avessero tratto un insegnamento saggio e razionale dalla tragedia del primo conflitto mondiale.

    E’ il 10 giugno 1940: papà Alfredo e mio fratello maggiore Vittorio, mentre sono intenti a falciare l’erba nel campo del podere la Sampiera, proprio di fronte al Ristorante Birreria Bellavista, ascoltano sgomenti il discorso del Duce, che dichiara guerra alla Francia, all’Inghilterra e ai suoi alleati:

    "Combattenti di terra, di mare, dell’aria.

    Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.

    Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania.

    Ascoltate.

    Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria.

    L’ora delle decisioni irrevocabili.

    La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.

    Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano". Eccetera.

    窗体顶端

    窗体底端

    Foto tratta da una cartolina promozionale in Internet.

    La bella cartolina promozionale, del gestore negli anni trenta, ritrae il Ristorante Birreria Bellavista, dove erano installati gli altoparlanti della propaganda fascista il 10 giugno 1940.

    Da sinistra a destra si riconoscono: la carrareccia bianca Via di Barbiano – la Villa Tarozzi in alto – alla sua destra la polveriera militare – il Ristorante Birreria Bellavista al centro - l’abitazione delle Famiglie Serra e Albertazzi, nella foto sulla destra in basso. Nel loro orto, situato fra la carrareccia verso la polveriera e la casa, il caporione fascista Dall’Omo nel 1944 guidò con sicurezza una spedizione di fascisti e tedeschi alla ricerca di armi da guerra sepolte nel loro terreno.

    Ne parlerò diffusamente nel successivo 11° capitolo.

    Nel campo a sinistra, da metà ottocento alla Prima Guerra Mondiale, sgorgava la Fonte di Barbianello e alla fine degli anni quaranta su quel terreno edificarono una costruzione a tre piani da noi chiamata il Palazzino, per distinguerla dal più corposo e antico  Palazzone.

    Gli altoparlanti del regime all’esterno della trattoria trasmisero a tutto volume quel tragico annuncio. La mamma mi disse che il babbo rincasò inquieto la sera, turbato e insolitamente nervoso, si sedette accanto al camino ed esclamò:

    E adès? E ora?. Sottinteso, cosa succederà?

    In quel frangente papà cominciò a maturare la convinzione che non sarebbe stata opportuno rinnovare l’anno successivo il contratto di affitto del podere La Sampiera per altri nove anni.

    I figli maschi erano ancora ragazzini e la mano d’opera maschile sarebbe diventata difficile da trovare, a causa della guerra appena dichiarata. 

    I maggiori avvenimenti bellici del 1940:

    -Aprile – Maggio, con la Guerra lampo, la Germania invade e sottomette uno dopo l’altro cinque Stati europei: Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

    - il 5 giugno inizia l’invasione italiana della Francia.

    - il 10 giugno 1940 l’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, al fianco della Germania.

    - l’8 ottobre i tedeschi invadono la Romania.

    - il 28 ottobre, dall’Albania, già colonia italiana, scatta l’aggressione dell’Italia fascista alla Grecia.

    ANNO 1941

    3) Il podere La Sampiera.

    I fratelli Enrico e Alfredo Tossani, con le loro famiglie e tutti e quattro i nonni, a San Martino dell’anno 1923 presero in affitto con un contratto di nove anni il podere La Sampiera del Prof. Vitali. Ora stimo che il terreno fosse di una quindicina di ettari, metà del quale, la maggior parte situato al confine con il fondo Battivento, era incolto e coperto da boscaglia.

    Al rinnovo del contratto nel 1932 la tenuta era stata quasi completamente dissodata, piantumata con centinaia di alberi da frutta, olmi e gelsi, due vigne nuove di uva bianca e nera. Le viti erano di pregiata uva da tavola e da vino.

    Le capezzagne erano ben disegnate e battute, i solchi dei fossati di scolo disegnati obliqui alla pendenza del terreno, per convogliare le acque piovane lontano dal terreno a semina.

    Ad un centinaio di metri dall’antica Fonte di Barbianello, una piccola conca del suolo fu trasformata in una pàzza, una buca d’acqua, per dissetare i bovini lontani dalla stalla o immergere a macerare la stròpa o vànc, ramo di vimine o giunco. Serviva per ammorbidirli e farli più resistenti nella legatura dei vitigni; ancora, nella stagione invernale, usarli, dopo la macerazione, per intrecciare i cesti di vimini di varie misure.

    Il proprietario fu ben contento di prorogare il contratto agli stessi affittuari, che avevano trasformato il fondo, nove anni prima parzialmente in abbandono, in un moderno podere coltivato a frumento, erba medica, vigneti con uve da vino e da mercato. 

    Il terreno era attraversato da capezzagne in terra battuta e i campi disseminati di alberi da frutta, olmi e gelsi.

    Foto Archivio Tossani.

    Aprile 1941, al podere La Sampiera tutta la Famiglia Tossani festeggia il Battesimo di Renato, avvolto nella culla bianca, la cònna, in braccio a mamma Maria.  Da sinistra a destra presento la figlia maggiore Albertina, papà Alfredo, la secondogenita Laura, il terzogenito Vittorio, davanti Adriano Remo, che guarda dritto il fotografo a differenza dei fratelli maggiori, infine Anna.

    Conservo nella memoria un flash della stessa primavera, che, forse più che vero, penso sia il frutto dell’immaginazione, scaturito forse dai racconti di famigliari:

    Mi vedo sull’aia, davanti alla casa colonica Sampiera, seduto su di una gabèna, casacca dismessa, impegnato a giocare con un grosso cane, dal pelo lungo e rossiccio, di nome Lampo.

    Il cagnone mi scodinzola attorno, poi comincia a correre in cerchio abbaiando festoso a tutti i presenti. Se la visione fosse un ricordo autentico, sarebbe un bel prodigio della memoria, perché allora io avevo circa tre anni di età.

    Riprendo la cronistoria con una data ben precisa: 11 novembre 1941 S. Martino. Quel giorno scade il secondo contratto di nove anni di affitto al podere la Sampiera. L’Italia è entrata in guerra da oltre un anno, il figlio maschio più grande ha appena quattordici anni, il podere richiede molta mano d’opera e mio padre Alfredo decide di non rinnovare il contratto di affitto del fondo agricolo che, nel corso di diciotto anni, aveva trasformato in una tenuta agricola esemplare.

    Dovete sapere che, negli anni di maggiore resa fondiaria, a tavola per pranzo e cena si sedevano oltre venti persone: la nostra famiglia, quella dello zio Enrico, fratello del babbo, i nonni paterni e materni, saltuariamente alcuni altri parenti e un paio di salariati fissi, addetti alle stalle e ai lavori più pesanti.

    Tutti gli uomini sedevano attorno alla grande tavola rettangolare con il posto assegnato in base alla gerarchia condivisa in famiglia: la consuetudine contadina prevedeva a capo tavola (di fronte alla porta d’ingresso) il nonno e la nonna paterni, alla sua destra il figlio maschio maggiore e alla sua sinistra il secondo figlio, entrambi con le rispettive mogli. Gli altri commensali sedevano in ordine decrescente d’importanza verso i nonni materni, all’altro capo della tavola.

    Tutti i bambini mangiavano a un’altra tavola più piccola e le altre donne, attente a servire con premura la tavolata principale, mangiavano a rate, tra una portata e l’altra, sedute accanto al focolare del camino, acceso tutto l’anno. 

    Questa rappresentazione fa intendere che il tenore di vita della nostra famiglia è stato più che dignitoso per quasi vent’anni.

    Al podere la Sampiera in quell’anno subentrò, con un contratto a mezzadria la famiglia Cocchi, che aveva una figlia e un figlio adulti (non ricordo i nomi), poi Olga una diciottenne, un ragazzino di nome Gianni e una bambina chiamata Teresa. 

    Quanto non espressamente convenuto e pagato dai subentranti, fu venduto: così tutti gli attrezzi in buono stato, i carri, il barroccio e il barroccino, l’aratro, l’erpice, la treggia o ilza, i finimenti e i gioghi, il fieno e la paglia; idem per il bestiame bovino, il mulo, i maiali e gli animali da cortile. 

    Con una parte del ricavato, mio padre Alfredo aprì alla Cassa di Risparmio di Bologna due libretti a lui intestati di circa £ 10.000 (diecimila) lire ciascuno. Questa provvidenziale provvista finanziaria, dopo la prematura morte di papà, consentirà a mia madre di superare i terribili ultimi due anni di guerra. 

    La famiglia si trasferisce allora in una casetta di sei stanze al piano terra e altrettante al piano primo in Via di Barbiano n.26, attigua al confine sud del podere appena lasciato, sempre di proprietà del Comm. Renato Dall’Ara, subentrato al Prof. Vitali, qualche anno prima, nella proprietà della Sampiera.

    Sembra che il valore commerciale della casa, con pozzo artesiano, giardino e orto di ca.1000 mq., a quel tempo fosse stimato di circa £. 36.000 (trentaseimila).

    Una somma alla portata delle disponibilità finanziarie di mio padre, con l’aggiunta di un ragionevole mutuo fondiario.

    Presumo che il modesto affitto convenuto per la casa (a memoria cento lire il mese), la guerra in corso, con le sue conseguenze imprevedibili, avessero consigliato a mio padre di prendere una decisione molto prudente, circa la conservazione o l’utilizzo del ricavato della recente dismissione agricola.

    Peccato: certamente la proprietà di quella casa avrebbe fatto proprio comodo a tutta la famiglia negli anni a seguire.

    Intanto infuria la guerra su decine di fronti in Europa, Africa e Asia.  La cronaca degli eventi più importanti dell’anno 1941:

    - il 1° marzo le truppe tedesche entrano in Bulgaria.

    - 21 giugno: la Germania di Hitler dichiara guerra all’URSS di Stalin e ne invade lo sterminato territorio con L’Operazione Barbarossa.  Su tre direttrici lancia circa 600.000 automezzi corazzati e blindati e un’Armata di quasi tre milioni di soldati, ripartiti in 170 Divisioni. I Russi si ritirano verso est, facendo terra bruciata, poi ci pensano le piogge autunnali e il gelo a impantanare e bloccare i mezzi corazzati tedeschi.

    - 22 giugno: Mussolini offre a Hitler la partecipazione dell’Italia all’invasione dell’Unione Sovietica con la spedizione ARMIR.

    - 5 dicembre: l’Armata Tedesca giunge a soli venti chilometri da Mosca. 

    - 7 dicembre: il Giappone attacca la base navale statunitense di Pearl Harbor. A quel punto, il conflitto dall’ambito europeo diventerà mondiale.

    - 11 dicembre: la Germania dichiara guerra agli Stati Uniti.

    ANNO 1942

    4) La casa di Via di Barbiano n.26.

    Con quel trasloco, cambiò completamente il modo di vivere per la mia famiglia di ex contadini.

    La primogenita Albertina, terminata la terza media alle Scuole Regina Elena, da un paio d’anni aveva trovato un impiego ai Grandi Magazzini La Nuova Italia dei fratelli Giuseppe e Dante Ambrosi, facoltosi commercianti fascisti bolognesi.

    Gli altri ragazzi, con tanta buona volontà, si applicavano nelle mansioni più disparate, in attesa di trovare un buon lavoro, correttamente remunerato.

    Il babbo era stato assunto all’Arsenale di Viale Enrico Panzacchi, dove una volta c’era il Laboratorio Pirotecnico, come falegname-carpentiere. Ovviamente, tutte le industrie di un certo peso, erano state convertite alla produzione bellica, per far fronte alle sempre più impellenti necessità della guerra, in corso ormai da quasi due anni.

    Da un po’ di tempo mio padre Alfredo soffriva di ulcera allo stomaco, con crisi sempre più dolorose e frequenti.

    Nel tempo libero si dedicava all’orto, al pollaio e a lavori di falegnameria, nei quali eccelleva per precisione e inventiva.

    Egli aveva adibito gli ambienti della casetta nel modo seguente:

    -al piano terra, nella prima stanza in angolo sul fronte strada, c’era la porta della cucina, con tavolo allungabile, le sedie impagliate, la vetrina, la madia, il focolare con piano di pietra attorno per sedersi e un’ampia cappa, dalla quale pendeva una fuligginosa catena con il gancio per il paiolo;

    - di fianco, sempre a sud, si apriva un grande portone d’accesso al cantinone, che aveva ai lati i calàster , ripiani in muratura e traversine di legno, per sostenere i tini, le botti e le damigiane;

    - seguiva a ovest, dopo la cucina, un ambiente con portone sul cortile, che fungeva da dispensa, granaio, legnaia, una gramola in disuso per mancanza del forno, una bascula e una stadera con piatto d’ottone;

    - nel lato opposto a est, c’era l’ambiente più grande della casa, un piccolo salone dove la mamma teneva la macchina da cucire Singer per i lavori di cucito e rammendo, c’era l’essiccatoio per i pomodori e la frutta secca. All’occorrenza poteva diventare un’ampia sala da pranzo.  Verso il cortile a est c’era una grande porta a due ante.  Alla sala si poteva accedere pure dall’interno, attraverso un piccolo corridoio fra la cucina e la cantina, in seguito trasformato in un gabinetto di decenza d’emergenza;

    - l’ultimo ambiente a ovest era adibito a falegnameria: ci si arrivava da porta interna, dal locale dispensa, oppure da porta esterna sul lato nord.

    Sotto la finestra, in piena luce, c’era un grande bancone di legno con più morse, il granchio per bloccare i legni e il cane di ferro per bloccare il pezzo in lavorazione. Poi il girabacchino o gàliga, la pialla da legno, la mola per affilare. Su di un piccolo scaffale a più ripiani c’erano delle stecche di colla pesce, chiodi e viti di tutte le misure.  Accatastate contro la parete esterna una selva di asse di svariate misure e tipi di legno, compensati e rotoli d’impiallacciatura, un paio di scale di legno. Sulla parete interna troneggiava un grande pannello di legno, cui erano appesi tutti gli attrezzi da falegname.

    C’erano una serie di martelli, il mazzuolo, la sega a mano, il saracco, vari cacciaviti e scalpelli, la sgorbia, la lima da ferro, la raspa da legno, dei succhielli, le tenaglie e le pinze. Questa notevole attrezzatura spiega bene l’interesse di mio padre per la lavorazione del legno. 

    Nell’angolo a sinistra entrando, c’era il mio campo da giochi: un soffice mucchio di segatura di legno, dove ricordo, un po’ vagamente, di aver saltato a scavezzacollo e giocato spesso nelle giornate piovose.

    - l’ultimo locale a destra a nord-est, il più freddo, era adibito a cantina di conservazione per invecchiare le bottiglie di vino e tanti tipi di salumi, compresi i prosciutti e le vesciche gonfie di genuino strutto di maiale. Sui ripiani di un robusto scaffale di legno c’erano le pentole di terracotta ricolme di uova immerse nella calce bianca e i fiaschi impagliati pieni di conserva di pomodoro fatta in casa, colmati con un dito di olio per non farla irrancidire.

    Dal salone e di fianco alla cantina si accedeva con una scala interna di pietra, a due rampe contrapposte, al piano superiore, dove un lungo corridoio comunicava con le sei stanze da letto o altrimenti destinate.

    In fondo al corridoio c’era la più utile conquista da cittadino:

    Al cesso in cà! Il gabinetto in casa, con tazza W.C., catenella dello sciacquone collegata alla cassetta di scarico, lavandino, acqua corrente e serbatoio di lamiera zincata sospeso in alto al soffitto.

    La finestra si affacciava sulla Via di Barbiano, di fronte al grande complesso dell’Ospedale Vittorio Putti ed era orientata a mezzogiorno

    .

    Foto Archivio Tossani

    La facciata ovest della casa di Via di Barbiano n.26 oggi completamente restaurata, dopo che un incendio l’aveva semidistrutta negli anni settanta.

    A dx. c’era la cucina, a sx. la falegnameria, al centro la porta della dispensa, sopra la porta-finestra della sala da pranzo.

    Nel corridoio di fronte al gabinetto, nel muro in alto, c’era una piccola apertura, chiusa da una porticina di legno, attraverso la quale, appoggiandovi una scaletta di legno, si poteva accedere al solaio, immediatamente sottostante al tetto.

    Per anni è stata la mia mitica soffitta, da visitare quando in casa non c’era nessuno e dove erano custoditi oggetti abbastanza pericolosi o segreti, di cui parlerò in seguito. 

    La casa insisteva su un rettangolo di terreno di circa mille metri quadrati, cioè una quarantina di metri per venticinque.  Aveva un prezioso pozzo artesiano con vera di pietra, collocato vicino alla recinzione ovest e circondato da un orto famigliare, dove mio padre coltivava ogni genere di verdura e anche alberi da frutta.

    Due piccole baracche di legno e lamiere fungevano da pollaio per galline e anatre, l’altra riparava alcune gabbie di conigli.

    Nel cortile, davanti alla falegnameria, di fianco al pozzetto a dispersione delle acque piovane delle grondaie, c’era una piccola cisterna in calcestruzzo, completamente interrata. Vi si accedeva dall’alto sollevando una botola di pietra e si scendeva per un paio di metri tramite alcuni ramponi di ferro conficcati nel muro.

    Durante l’estate, se era convenientemente riempita di neve nel periodo invernale, diveniva una conserva o ghiacciaia.

    Dopo la morte di papà, consumata l’ultima pancetta arrotolata, cadde in disuso. Negli anni seguenti, mio fratello Adriano, quando abbellì il giardino con due belle aiuole rotonde, delimitate da pietre interrate obliquamente, riempì definitivamente la ghiacciaia di terra e sassi.

    Foto Archivio Tossani.

    Mamma Maria: 21 febbraio 1942,  quasi quarantenne.

    Ora termino la descrizione, precisando che si accedeva alla casetta da un cancelletto di ferro battuto, a fianco del grande cancello del palazzone sul lato sud.

    Oppure si poteva entrare sul cortile principale attraverso un grande cancello, a due battenti ad aste verticali terminanti a punte di lancia, di nostra proprietà e sempre aperto, mentre tutto il perimetro era recintato in sicurezza con rete metallica.

    Il motivo di questa precisazione? Perché allora, guardando ad altezza d’uomo, si poteva vedere l’interno di tutte le proprietà, anche se dotate di siepi che non superavano comunque mai il metro d’altezza.

    Era un godimento spaziare con lo sguardo a perdita d’occhio senza barriere, le proprietà erano tutte aperte, si potevano vedere anche terreni lontani, alberi o casolari isolati sui declivi delle superbe colline che circondano la mia bella città di Bologna. 

    Oggi la mia ex casetta, o qualsiasi altra proprietà recintata, a mio avviso per un eccesso di privacy, è circondata da siepi o piante sempreverdi alte più di due metri, che nascondono alla vista dei passanti quanto c’è di bello all’interno. 

    Queste barriere verdi che impediscono di dialogare con gli occhi chi sta dentro con chi è fuori, mi deprimono.  E’ un plateale stravolgimento di una giusta privacy, che andrebbe, a ragion veduta, rivista e ridimensionata dai proprietari più moderni, per consentire ai passanti di godere le bellezze di orti e giardini.

    I fatti salienti, del conflitto mondiale in corso, possono essere riassunti così per l’anno 1942:

    - gennaio/marzo: Stalin lancia la controffensiva invernale che determina un tragico bilancio di vittime nei due schieramenti. Dal 22 giugno 1941 ci fu un milione di morti tra i soldati della Wehrmacht e un milione e mezzo nell’Armata Rossa.

    - giugno: Operazione Blu decisa da Hitler per tentare di stroncare per sempre la resistenza dell’URSS entro l’anno.

    - 4-6 giugno: battaglia navale delle Midwey fra le flotte americane e giapponesi.

    -Nel mese di luglio 1942 Mussolini invia l’VIII° Armata Italiana in Russia o ARMIR, forte di circa 200.000 soldati, colpevolmente non equipaggiati a dovere, sia di armi sia di vestiario, non adatte ad affrontare i rigori dell’inverno in quella zona di guerra.

    - 17 luglio: inizia la prima sanguinosa battaglia di Stalingrado

    - 1-27 luglio: 1° battaglia di El Alamein.

    - 23/10-3/11: 2° battaglia di El Alamein, il generale inglese Montgomery sconfigge l’Afrika Korps del Generale Rommel.

    - 19 novembre: Stalin lancia l’offensiva planetaria dell’Armata Rossa contro la Germania. 

    - 19 dicembre: inizia la tragica ritirata del contingente italiano dal fiume Don, verso occidente. Inseguiti sulla neve ghiacciata dalle colonne corazzate sovietiche, ripetutamente colpiti sui fianchi dalle incursioni delle pattuglie russe dotate di sci, perdono la vita quasi 100.000 soldati italiani.

    Foto di Archivio/GBB/CONTRASTO - Focus.it – Wikipedia.

    La tragica ritirata dell’ARMIR italiana dal fiume Don.

    ANNO 1943

    Dall’undici al ventisei gennaio avvenne la ritirata lungo la steppa, più di 200 chilometri, dal fiume Don alla cittadina Nikolaevka. 

    Fu l’ultima epica battaglia degli Alpini della Divisione Tridentina, che, travolgendo l’accanita resistenza russa, permise di sfondare l’accerchiamento a tenaglia e consentire, alle stremate forze rimaste in campo, di ritirarsi per altri settecento chilometri, a piedi nella sterminata steppa, fino a Sebekino, dove le avanguardie giunsero a fine febbraio.

    A marzo i primi convogli riportarono i superstiti in Italia.

    Care Nicoletta e Silvia, con molta tristezza vi racconto l’ultima volta che ho abbracciato il mio tanto compianto papà.  Questo ricordo l’ ho rievocato tante volte durante la mia crescita, perché la nostalgia della sua assenza mi tornava prepotente ogni volta che mi trovavo in difficoltà o quando avrei voluto condividere con lui le mie piccole gioie.

    5) La morte di papà Alfredo

    Verso la fine di marzo, mamma Maria raccoglie i figli più piccoli, io Renato e Anna, e ci porta all’Ospedale Maggiore, dove nostro padre era ricoverato in attesa di essere operato all’addome.  Forse un oscuro presentimento la spinse a portare al marito, preoccupato e in procinto di fare quel delicato intervento, il sorriso spensierato e il chiacchiericcio insolente dei figli più piccoli. Un espediente per distrarlo e tranquillizzarlo.

    Ricordo, entrando, un grande atrio luminoso con il pavimento chiaro di marmo e alcune alte colonne che lo rendevano ancora più maestoso.

    Da un largo scalone di marmo, mio papà scende i gradini appoggiandosi al corrimano di un’imponente balaustra di legno chiaro. La camicia bianca, le maniche lunghe con i polsini abbottonati, le bretelle colorate che reggono i pantaloni scuri. Dapprima serio, il viso tirato, poi alla nostra vista si apre a un dolce sorriso allargando le braccia a me e ad Anna, che gli corriamo incontro.

    Non ci sono parole adatte e sufficienti a descrivere il forte amore che un padre sa trasmettere abbracciando i propri figli.

    Ecco, quella robusta stretta al petto, quella fisicità protettiva, mi è mancata tanto negli anni seguenti della crescita.

    Lo voglio gridare: non è giusto che un bambino sia privato tanto presto del suo sole! 

    Ricordo vagamente l’espressione pensosa della mamma, rammento che lui ci abbracciò più volte con ovvie raccomandazioni di essere buoni e ubbidienti durante la sua forzata assenza.

    La mamma ha più volte raccontato che papà Alfredo le ha ripetutamente fatto la seguente accorata supplica:

    Bada Maria di tenere sempre con te questi bambini, non te ne separare mai !. Noi bimbi non potevamo comprendere cosa sottendeva quell’implorazione, in quel momento eravamo felici di essere nuovamente tutti assieme, perché da alcuni giorni si cenava senza di lui e, a me, mancava il trillo del campanello della sua bicicletta.

    Fu l’ultima volta che vidi il mio papà!

    In ogni caso, un bambino che non aveva ancora compiuto i cinque anni, non poteva essere consapevole dell’immensa tragedia che aveva colpito la nostra famiglia.

    Così, mi ha raccontato sovente mia madre, poco tempo dopo il lutto, avvenne che mio fratello maggiore Vittorio, tornando a casa dal lavoro di meccanico con la bicicletta di mio padre, ebbe la malaugurata idea di suonare ripetutamente quel campanello, a me tanto famigliare.

    Alla mamma s’inumidivano ancora gli occhi nel raccontarmi che io, semiaddormentato nel suo grembo, abbi un sussulto, mi divincolai dalle sue braccia, che avrebbero voluto trattenermi, e andai di corsa alla porta gridando:

    Papà, papà!.

    Certo io provai una delusione immensa a non veder comparire il viso sorridente di mio padre!

    Ricordava la mamma che in casa era sceso un pesante silenzio, contrappuntato da sommessi singhiozzi delle mie sorelle, ancor più penosi per il riacutizzarsi del recente dolore. Non fu necessario redarguire Vittorio, che comprese subito la sciocchezza che aveva fatto e provvide in fretta a sostituire quel campanello.

    Riprendo la dolorosa cronaca di quei giorni per scrivere che il 28 marzo 1943, dopo un’atroce agonia, mio padre Alfredo spirava su quel letto d’ospedale: l’ulcera allo stomaco, più volte diagnosticata per errore, si rivelò essere un male per quel tempo purtroppo incurabile.

    Ripensando oggi alle strofe delle canzonette cantate appena due mesi prima, tornando dalla festa di S. Antonio Abate:

    Moretto o bel moretto, morirai, morirai, morirai….

    Ricordando ora anche il silenzio improvviso della mamma, mi viene la pelle d’oca!

    Da allora e fino ai dodici anni circa, io sono stato in pratica adottato dagli zii Adalgisa ed Enrico, fratello di mio padre, che coltivavano al Zrà, il Podere Ceres a mezzadria, sulla collina a ridosso della frazione di San Ruffillo.

    Ho trascorso lunghi periodi nella mia nuova famiglia, anche durante la frequentazione della Scuola Elementare G. Pascoli, trovando sempre un’accoglienza come un figlio. Ero trattato come un fratellino minore, anche dai cugini Ivo, Sergio e dalla giovanissima e tanto cara Norma.

    Nei primi anni Lei è stata la mia tata, mi ha coccolato proprio come fosse stata la mia sorellina più grande. Gli effetti nefasti della guerra si protrassero per oltre due anni dalla scomparsa di papà, ma furono superati egregiamente per l’abnegazione e la ferrea volontà dalla mia mamma e anche grazie alle sostanze economiche e alle tante provviste alimentari che ci aveva lasciato nostro padre. Papà è ricordato da tutti, come un uomo completamente dedito alla famiglia e alla crescita dei suoi figli.

    Per mia madre, certa del trattamento filiale che mi era serbato a casa degli zii, era anche un gran sollievo materiale non dovere accudire e sfamare un piccolino in tempo di guerra.

    Foto Archivio Tossani.

    La zia Adalgisa e lo zio Enrico fotografati nel giorno del loro matrimonio.

    Foto Archivio Tossani.

    Mia cugina Norma Tossani, forse a sedici anni. In famiglia era chiamata confidenzialmente Nina.

    6) L’esodo verso la campagna.

    Complici le quotidiane trasmissioni di Radio Londra in italiano, che le direttive fasciste avevano proibito di ascoltare, ma che erano comunque intercettate clandestinamente, in primavera cominciarono gli esodo dei bolognesi facoltosi verso la periferia e la campagna contigua alla città, ritenute più sicure. Radio Londra trasmetteva per ore dei messaggi cifrati in codice, poi faceva il resoconto delle vittime e delle distruzioni fatte dalle incursioni aeree alleate sulla Germania e sui paesi occupati dalle sue truppe.

    Poiché i bombardamenti sulle città erano effettuati in prevalenza di notte, chi poteva permetterselo, cercava in periferia un alloggio provvisorio, in cui pernottare con maggiore sicurezza.

    Il fenomeno si andò intensificando e diventò un vero esodo dalla città dopo i primi bombardamenti aerei del mese di luglio 1943.

    Poco prima, il 14 giugno, per la prima volta un aereo da ricognizione De Havilland Mosquito della RAF (Royal Air Force) sorvola Bologna e fotografa dall’alto gli obiettivi strategici della città.

    Questo velivolo bimotore era costruito interamente in legno, aveva impieghi polivalenti: come bombardiere era velocissimo e difficilmente intercettabile; come ricognitore era imprendibile, avendo una quota di crociera attorno agli undici mila metri di altezza. Per più di due anni, con le sue scorribande notturne, toglierà il sonno agli italiani, che lo battezzarono affabilmente con il nome di Pippo. Ne riparlerò più avanti.

    Anche la mamma fu sottoposta a continue e pressanti richieste, da parte di facoltose famiglie, di subaffittare qualche stanza in cambio di un interessante contributo in denaro, più che mai necessario, dopo la prematura morte di papà. Uno dopo l’altro, tutti gli ambienti divennero abitabili: la falegnameria, la cantina a nord, la camera-dispensa e lo stanzone a est.

    Progressivamente la nostra famiglia si ritirò  e si stipò su quattro camere al primo piano, dove affittò nel tempo seguente anche un altro paio di stanze.

    Pertanto la mamma diede in affitto tutto il piano terra, escluso il cantinone e la cucina, che sono stati messi a disposizione di tutti, così come i due servizi igienici.

    Le mie sorelle maggiori si ricordano che al primo piano c’erano: la famiglia di Alvaro Paterlini con la moglie (Marisa?) e il figlio Franco; la famiglia Valla con Trebisonda detta Ondina, la prima atleta donna italiana a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936: divenne campionessa olimpionica degli ottanta metri a ostacoli.

    I miei fratelli maggiori si ricordavano che l’ostacolista, nel 1944, per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1