Il mistero della bicicletta abbandonata
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Anteprima del libro
Il mistero della bicicletta abbandonata - Pietruccio Montalbetti
Nota dell’autore
Qualcuno, leggendo questo mio racconto, di fantasia ma scrupolosamente preciso nel riportare gli avvenimenti accaduti durante il secondo conflitto mondiale, si domanderà qual è stato il motivo che mi ha spinto a cimentarmi con un argomento così impegnativo. La risposta è: diversi.
Sono nato all’inizio della Seconda guerra mondiale, esattamente il 16 aprile del 1941. Le mie prime memorie risalgono circa al 1945, quando avevo quattro anni e avevamo lasciato Milano, dove sono nato, per trasferirci a Soncino in provincia di Cremona, nella grande casa della zia di mia madre, che abitava in una sorta di palazzo, adiacente al castello di Soncino. Eravamo io, mia madre, mio padre e mio fratello Angelo, di cinque anni più vecchio e figlio del primo matrimonio di mio padre, che aveva perso la moglie malata di tubercolosi.
I tedeschi, da nostri alleati, dopo la caduta del regime fascista l’8 settembre 1943 erano diventati nostri nemici. A Soncino, stazionavano su un ponte sul fiume Oglio, con lo scopo d’impedire agli alleati d’impadronirsene. Imponevano alla gente delle regole ferree, come limitazioni negli spostamenti e il coprifuoco durante la notte.
Noi ci eravamo trasferiti a Soncino per diversi motivi. Dopo l’8 settembre, gli aerei americani spesso bombardavano Milano, mentre Soncino, essendo un piccolo paese immerso nella campagna, non era soggetta alle incursioni, se non a quelle con cui cercavano di distruggere il ponte sul fiume. L’altro motivo era che lì il cibo non mancava. Per questo, molti si erano trasferiti nei paesini dalle città industriali come Milano e Torino.
Durante la giornata, senza preavviso, i militari tedeschi che stazionavano in paese facevano delle perquisizioni. Io ogni volta avvertivo una sorta di apprensione nella casa in cui alloggiavamo, ma senza capirne il motivo.
Me lo spiegarono solo in seguito. Nelle cantine che comunicavano direttamente con il castello, la zia di mia madre aveva dato rifugio a tre famiglie di ebrei, sfamandole ogni giorno, ma impedendo loro di mettere piede all’aperto.
Inoltre spesso da una botola uscivano durante la notte degli uomini armati, che loro chiamavano «partigiani». Non sapevo cosa facessero, ero troppo piccolo per capire, però sentivo i miei genitori e mia zia elogiarli come i liberatori dal regime fascista.
Stranamente nella mia testa, anche se avevo solo quattro anni, sono rimaste impresse alcune cose.
Di fronte alla casa c’era uno spazio, delimitato da una linea gialla dipinta sul terreno. Al di là della linea c’era il contingente tedesco, ed era assolutamente vietato oltrepassarla.
Un pomeriggio di primavera io e altri bambini del paese stavamo giocando con un pallone fatto di carta bagnata. La strada era un po’ in discesa, e un calcio maldestro lanciò inavvertitamente la palla oltre la linea gialla.
Io, ignaro del divieto, mi precipitai a recuperarla. Come varcai la linea, un militare tedesco con una certa violenza mi afferrò per i capelli.
Mia madre, che non mi perdeva mai di vista, essendo una donna impulsiva si scagliò subito verso il militare e gli mollò un sonoro ceffone sul viso. Il militare, colto alla sprovvista, spianò il fucile verso mia madre, evidentemente con l’intenzione di spararle.
A poca distanza, c’era un suo superiore, che prontamente intervenne, redarguendo con severità il militare. Poi in un buon italiano disse a mia madre: «Le chiedo scusa, purtroppo la guerra ci rende tutti insensibili. Anch’io che ho due figli piccoli in Germania, avrei fatto la stessa cosa. Perciò le rinnovo le mie scuse.»
Il secondo episodio fu molto più tragico. In una mattina di primavera del 1944, mentre eravamo sfollati a Soncino, mia madre mi caricò sul sellino appoggiato sul manubrio della bicicletta, e a forza di pedali attraversò il ponte sul fiume Oglio, che era praticamente deserto.
Lo scopo era raggiungere una cascina nella campagna, abitata da contadini, ai quali la zia di Soncino che ci ospitava, essendo molto abbiente, aveva donato del terreno. I contadini, per riconoscenza, fornivano cibo: ortaggi, pollame, salami e uova.
Ci accolsero con grande gioia. Per me, ricordo, era una festa. Mi aggiravo nel cortile con altri due bambini scalzi, figli dei contadini, e provavo gioia nel vedere gli animali, galline, tacchini, maiali. Ma quelli che preferivo erano le mucche. Mentre mia madre metteva in un cesto il cibo, io mi avventurai nelle stalle, proprio mentre si svolgeva la mungitura.
Terminati i convenevoli e caricate le provviste dentro uno zaino che mia madre si pose sulla schiena, iniziammo il viaggio di ritorno.
Come arrivammo sul ponte sul fiume Oglio, avvertii l’ansia di mia madre, che iniziò a spingere sui pedali, accelerando. Dopo pochi istanti sentii il rumore di un aereo.
Erano due caccia inglesi, che si abbassarono e iniziarono a mitragliare, per fortuna senza colpirci. Poi ripresero quota, con l’intento di rifare la stessa cosa sul ponte ben visibile. Potevano scorgere solo noi e nessun altro.
Avevamo oltrepassato più della metà del ponte. Mia madre, in preda al terrore, sentendo di nuovo il rombo dei due caccia inglesi, disperatamente accelerò al massimo.
Nel frattempo, i due velivoli si erano rimessi in posizione. Alla fine del ponte arrivammo appena in tempo. Mia madre, con un ultimo scatto, portò al sicuro me, lei e la bicicletta, nell’attimo in cui i due aerei di nuovo scaricavano le loro mitragliatrici. Ci salvammo.
Terminata la guerra, nel 1945 rientrammo a Milano, ma trovammo la nostra casa occupata abusivamente. Chi risolse il problema fu mio zio Antonio, fratello di mia madre, che aveva militato in un gruppo di partigiani e che in breve, non so con quale metodo, ci riconsegnò la nostra casa in via Stendhal, dove sono nato.
Un altro motivo che mi ha spinto a scrivere questa storia è che molti, anzi troppi, stanno dimenticando un periodo del nostro Paese che purtroppo potrebbe ripetersi. Per confermare le mie supposizioni, è necessario gettare un breve sguardo su come e perché in Italia è nato e si è sviluppato il regime fascista.
Il fascismo ha avuto origine nel nostro Paese, come reazione e conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla Prima guerra mondiale.
La classe dirigente, erede dello stato liberale post-Risorgimento, aveva voluto spingere l’Italia nel conflitto del 1915-18, senza prevedere le gravissime perdite umane. Così, dopo la conclusione vittoriosa delle Guerre d’indipendenza, si era trovata improvvisamente costretta a fronteggiare una situazione difficilissima e ricca di tensioni e contrasti interni, e una situazione economica in cui gli interessi dei gruppi sociali previlegiati si scontravano con le aspirazioni della maggioranza della popolazione, sino ad allora tenuta ai margini della vita di Stato.
Il ritorno alla normalità non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa. Ad alimentare il malcontento, oltre al dissesto delle finanze, si aggiunse anche l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e il diffondersi della disoccupazione. Così nacque il movimento fascista, uno stato di cose che, oggi come ieri, si basa sul malcontento della gente comune.
Mussolini capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione