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La giostra della vita
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E-book515 pagine7 ore

La giostra della vita

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Info su questo ebook

Dalla nascita del Regno d’Italia agli anni ’60 del Boom economico.
La storia di quattro generazioni di una famiglia nel cuore delle terre emiliane.
Dopo aver conquistato i lettori con Siamo come le farfalle torna Lisa Beneventi con una nuova saga familiare.

La giostra della vita è la storia della famiglia Colombo che vive nelle terre emiliane, lungo le rive del Po. Cent’anni e più di eventi, vicende che hanno come sfondo la storia del Regno d’Italia e della Repubblica italiana fino al secondo dopoguerra e agli anni del boom economico.
Nelle pagine di questa saga familiare la vita quotidiana di quattro generazioni si intreccia con storie e fatti straordinari, successi e fallimenti, lotte, guerre e rappresaglie.
Tra alti e bassi, ricchezza e povertà, indifferenza verso i fatti politici o di partecipazione attiva in un campo o nell’altro, i personaggi si muovono su piani diversi, su e giù, proprio come sui cavalli di una giostra, trascinati da eventi più grandi di loro.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2023
ISBN9791281026100
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    Anteprima del libro

    La giostra della vita - Lisa Beneventi

    1

    DOMENICO COLOMBO

    ÄL FORASTÉR

    Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.

    J.-P. Sartre

    Si svegliò di soprassalto come se un forte boato avesse scosso all’improvviso l’aria intorno a lui.

    Si guardò attorno.

    No, non era stato un boato.

    Era stato il rumore del silenzio, un silenzio tombale che dopo il fragore della notte era calato sulla vallata avvolgendola in una coltre di fumo, di nebbia e di vapore, che velava l’orizzonte come un drappo funebre.

    Era ormai l’alba.

    I fucili e i cannoni avevano smesso di sparare. Le grida dei soldati si erano spente. Il rullo dei tamburi era cessato. Il tintinnio delle baionette non riecheggiava più nelle valli e lungo i pendii delle colline. Anche i cavalli si erano arresi e non nitrivano più.

    Sebbene si fosse alla fine di giugno e le giornate fossero già calde e afose, a causa dei frequenti acquazzoni, la notte era stata molto umida.

    Domenico aveva dormito all’addiaccio, al riparo nel bosco, dietro un folto cespuglio, coperto solo dal suo tabarro: ora si sentiva tutto intirizzito.

    Si alzò, si stirò, bevve un sorso d’acqua, mangiò l’ultimo tozzo di pane che gli restava, poi issò il suo sacco sulle spalle e s’incamminò verso la vallata.

    Non si aspettava di vedere quello spettacolo raccapricciante.

    Rimase allibito.

    Lo scontro doveva essere stato tremendo.

    A mano a mano che penetrava in quella coltre di fumo e di nebbia, sentiva levarsi da terra i gemiti sommessi e insistenti dei feriti, in tutte le lingue: francese, piemontese, tedesco, croato, sloveno, ungherese. Ovunque cadaveri di soldati, con divise diverse, e corpi di cavalli sparsi sui campi di grano calpestati, nei fossati, sui pendii delle colline, nei boschi.

    Un mare di cadaveri…

    Qualche ferito cercava di rialzarsi barcollando, per ricadere di nuovo a terra, stordito, qualche metro più in là. Un gruppo di persone, certamente gli abitanti dei villaggi vicini completamente distrutti, cercava di aiutare i feriti portandoli di peso presso un casolare ai bordi del bosco. Tra loro un signore distinto, ben vestito, si dava da fare per organizzare i soccorsi. Sentì che lo chiamavano Dunant ¹.

    Domenico si chiese cosa ci facesse un francese lì. La sua presenza gli sembrava fuori luogo, quasi sconveniente.

    Come era sconveniente, anzi immorale e ignobile, quello che stavano facendo lontano dai soccorritori alcuni uomini che, senza alcuna pietà, frugavano nelle tasche dei cadaveri per cercare qualche lira o qualche centesimo, piemontese o francese che fosse; andavano bene anche i fiorini austriaci.

    Sciacalli!

    Accaparravano tutto quello che poteva servire loro, perfino i resti del pasto che quei soldati non avevano fatto in tempo a consumare prima dello scontro. E poveracci anche loro, questi sciacalli, che, pur di mettere qualcosa sotto i denti, non avevano rispetto per nessuno, nemmeno per i morti, nemmeno per loro stessi.

    Domenico decise di proseguire il suo cammino verso sud-est, limitandosi a raccogliere qualche frutto caduto per terra.

    Aveva ormai attraversato tutta quella vallata di morte quando si accorse di essere seguito ormai da un’ora. Si fermò e si volse indietro.

    «Alura, ça vöt da mì, Biunda?» disse in un dialetto misto tra il lombardo e il piemontese.

    Anche la mucca si fermò e lo guardò.

    Era una varzese dal mantello formentino, una buona mucca da latte.

    «Sèt sula anca ti? Ma ti te parlat no² Per tutta risposta la mucca muggì.

    «Alura, su andùma. Andiamo.» E insieme proseguirono il loro cammino come fossero vecchi amici.

    La prima intenzione di Domenico, quando aveva lasciato Montù Beccaria nell’Oltrepò pavese, era stata quella di andare verso Genova per imbarcarsi su una qualche nave e fuggire verso il Nuovo Mondo. Era stanco della sua vita di bracciante presso la grande fattoria agricola dove lavorava ormai da qualche anno, dopo avere trascorso una triste infanzia in un orfanotrofio vicino a Milano. Voleva qualcosa di meglio.

    La presenza massiccia di truppe francesi che scendevano in Italia coi loro moderni cannoni a canna rigata lo aveva spinto a deviare verso sud-est con l’idea di raggiungere il porto di Livorno. A un certo punto si era ritrovato alle spalle anche le truppe piemontesi con i loro estrosi cappelli piumati.

    Che fare?

    Si era nascosto, li aveva lasciati passare, poi aveva deciso di seguirli, in lontananza. Avrebbe approfittato così dei ponti che il Genio piemontese avrebbe costruito su canali e fiumi che abbondavano in quella regione o di quelli che gli austriaci non avevano distrutto nella loro ritirata verso Mantova, dopo la sconfitta di Magenta.

    Le truppe francesi, comandate da Napoleone III, si erano mosse verso est e avevano passato il fiume Chiese. L’esercito piemontese, guidato da Vittorio Emanuele II, era rimasto più a nord dello schieramento alleato, costituendo la sua ala sinistra. Aveva passato anch’esso il Chiese. E così fece pure Domenico che aveva continuato a seguire le truppe osservando da lontano i loro movimenti.

    Era stanco e aveva fame. Ormai le scorte che aveva preparato per la sua fuga si stavano esaurendo. Non aveva previsto di finire nel bel mezzo di quelle manovre militari e di dovere modificare giorno dopo giorno il suo percorso.

    La notte del 23 giugno si era svegliato bruscamente: le truppe francesi, più vicine alla sua postazione, si stavano muovendo, precedute da una considerevole avanguardia pronta a espugnare eventuali punti ancora occupati dagli austriaci. Con ogni probabilità si stavano spostando anche le truppe piemontesi.

    Verso l’alba, quasi inaspettatamente, franco-piemontesi e austriaci si erano venuti a trovare gli uni di fronte agli altri. Un incontro inatteso, non previsto. Nessuno conosceva le intenzioni dell’avversario.

    Così era iniziata la battaglia sui territori di Solferino, San Martino, Medole, Guidizzolo e Pozzolengo, tra i fiumi Chiese e Mincio, una battaglia feroce, brutale, che si sarebbe protratta per oltre diciotto ore.

    Era, quella, una zona caratterizzata da una serie di piccole alture, culminanti nel villaggio di Solferino, la cui torre, per la sua posizione strategica, era chiamata la spia d’Italia. Poi, verso sud-est, il paesaggio proseguiva con alture digradanti fino a raggiungere la grande Pianura Padana.

    Domenico si era nascosto nel bosco su una di quelle alture e da lì osservava la strenua difesa degli austriaci all’interno della rocca e del cimitero di Solferino, che era diventato il punto nevralgico della battaglia. Fino a quando un generale francese aveva deciso di aggirare il paese e ordinato l’assalto generale alla baionetta. Al grido di Viva l’Imperatore! le truppe francesi avevano accerchiato gli austriaci che cominciavano a vacillare. Lentamente questi retrocedettero e finirono per ritirarsi.

    Il sole era già alto quando i francesi occuparono la rocca e le colline circostanti.

    Ma la battaglia non era ancora terminata. Per ore i francesi e gli austriaci si contesero villaggi, campi, colline, mentre i piemontesi combattevano strenuamente presso San Martino.

    Esausto, Domenico si era addormentato. Neppure il forte temporale che era scoppiato nel tardo pomeriggio era riuscito a svegliarlo. Ma, grazie a esso, vi era stata una pausa negli assalti, facilitando la ritirata degli austriaci che, per ordine di Francesco Giuseppe, dovevano riprendere le loro posizioni sulla riva sinistra del Mincio.

    Non tutti i comandanti, però, ubbidirono al loro imperatore. Gli scontri continuarono fino a notte quando ebbe termine una delle più sanguinose battaglie dai tempi delle guerre napoleoniche.

    Poi, il silenzio, il brusco risveglio, la visione di morte.

    Quando Domenico riprese il cammino seguito dalla sua Biunda, si sarebbe aspettato che le truppe francesi inseguissero il nemico sconfitto. Non fu così. Dopo tante ore di battaglia, anche i vincitori erano stremati. Trascorsero diversi giorni di inattività, fino a che, inaspettatamente, Napoleone III, seguito poi da Vittorio Emanuele II, decise di incontrare Francesco Giuseppe a Villafranca. Lì, firmarono un armistizio che pose fine alla Seconda Guerra d’Indipendenza.

    Ma a quel punto Domenico era ormai lontano.

    Aveva deciso di dirigersi verso sud per evitare di scontrarsi con le retrovie austriache.

    Seguito dalla sua mucca, percorreva sentieri, attraversava campi, tenendosi lontano dal fiume Mincio, oltre il quale supponeva si trovassero le truppe dell’imperatore, e lontano da Mantova ancora occupata dagli austriaci.

    Dovette camminare a lungo prima di abbandonare la vallata della morte. Attraversò boschi, campi, canali, osservando con un certo stupore l’arretratezza delle coltivazioni e la miseria delle case rurali. Un paesaggio ben diverso da quello della regione in cui era cresciuto, caratterizzato da vallate ordinatamente coltivate a vigneti e da grandi poderi abitati da gente laboriosa.

    Alla fine di quella difficile giornata, Domenico si fermò per la notte a Marcaria, un villaggio di quattro case attorno alla Chiesa parrocchiale. La Biunda fu la sua salvezza. In cambio di un mezzo secchio di latte fresco ottenne dai bottegai e artigiani del villaggio pane, formaggio, un pezzo di polenta e di saracca, e il rifugio per la notte per lui e la sua mucca in una casa semiabbandonata.

    All’osteria del paese i paesani gli offrirono un bicchiere di vino in cambio di notizie fresche. Le voci si erano diffuse con la rapidità del vento e a Marcaria sapevano già dello scontro che vi era stato vicino al Lago di Garda. Volevano altre informazioni, e Domenico li accontentò, raccontando tutto quello che aveva visto.

    Lo ascoltarono ammutoliti, increduli. Qualcuno si fregò gli occhi non riuscendo a trattenere le lacrime. Pensavano ai figli o ai nipoti che erano partiti per unirsi ai rivoluzionari. Sì, perché da Marcaria, come da tutto il Mantovano, molti erano stati i giovani che avevano impugnato le armi, spinti non tanto dall’ideale di un’Italia unita – non sapevano neppure cosa fosse questa Italia – ma dal bisogno irrinunciabile di migliorare le loro condizioni di vita.

    Negli ultimi tempi, infatti, la situazione nelle campagne si era aggravata: le autorità austriache avevano aumentato le tasse per sostenere il mantenimento delle truppe, senza contare che i raccolti erano stati scarsi, provocando un considerevole aumento dei prezzi. E i salari erano rimasti invariati.

    Dai discorsi di quei paesani Domenico intuì che il dominio austriaco, rispetto a quello sabaudo della sua terra, doveva essere stato molto più opprimente ed esigente. Un sistema poliziesco, un governo che pretendeva tasse senza investire niente nell’agricoltura, che faceva di tutto per mantenere la popolazione nell’ignoranza e nell’obbedienza, avevano portato a questa arretratezza. E questo era il risultato: la popolazione si stava ribellando.

    Dopo un primo momento di angoscia, i paesani si ripresero alla notizia della sconfitta degli austriaci. Esultarono. Ora se ne sarebbero andati, finalmente! La speranza di un futuro migliore si riaccendeva nei loro animi.

    Dopo qualche giorno di sosta a Marcaria, Domenico riprese il suo cammino verso sud: Gazzuolo, San Matteo delle Chiaviche, Cavallara, Villastrada, finché non arrivò al Po, dopo aver attraversato fossati, canali e fiumiciattoli. Chiese a dei contadini dove poteva trovare un passo con barca per attraversare il grande fiume. Gli indicarono un traghettatore che si trovava un po’ più a nord di Villastrada, sulla sponda mantovana. Lì, il letto del fiume era meno ampio e la corrente più lenta.

    Vi era un servizio di trasporto di persone e merci su una grande chiatta attaccata con una fune a un cavo che attraversava il fiume unendo le due sponde. Dall’altra parte si arrivava vicino a San Rocco, tra Suzzara e Luzzara.

    Domenico dovette aspettare diverse ore perché il barcaiolo voleva fare la traversata a pieno carico per potere guadagnare qualcosa di più. Ne approfittò per contrattare il prezzo del trasporto. Il passaggio costava parecchio e per la mucca doveva pagare più ancora che per se stesso.

    Le ore passavano e cominciava ad imbrunire. Domenico era inquieto. Non sapeva cosa lo aspettava di là dal fiume.

    Quel tempo d’attesa però non fu speso invano.

    Il barcaiolo era abituato a vedere degli stranieri, dei tipi di ogni sorta: militari, giovani in fuga, commercianti, contrabbandieri, ma quel giovane alto, dai bei lineamenti, con due baffi ben curati, leggermente rivolti all’insù, che gli davano un aspetto quasi nobiliare, lo incuriosiva.

    «Da dove venite?» gli chiese.

    «Dal nord.» Domenico non si fidava troppo degli estranei e preferiva rimanere nel vago.

    «C’è stata una battaglia, mi hanno detto, e gli austriaci hanno perso. Cosa ne sapete?»

    «Non molto.» Senza sbilanciarsi troppo, Domenico raccontò quel poco che bastava per accontentare il barcaiolo.

    «Ma voi non avete combattuto, non siete un soldato.»

    «No.» Fu la lapidaria risposta.

    Il barcaiolo intuì che quel viaggiatore dagli abiti modesti e sporchi, gli nascondeva qualcosa.

    «Su questo lato del fiume governano ancora gli austriaci, ma di là ci sono gli estensi. Occorre un salvacondotto.»

    «E se qualcuno non ha questo salvacondotto, come può fare?» gli sussurrò Domenico.

    Ecco, il barcaiolo aveva avuto la conferma che c’era qualcosa di losco sotto.

    «Beh, con qualche soldo potrebbe avere delle informazioni utili…»

    Domenico gli si avvicinò e, senza farsi vedere dalle altre persone in attesa, gli allungò alcune monete. Il traghettatore si sedette su un masso poco distante e si accese un sigaro. Domenico lo seguì e si mise accanto a lui, come se niente fosse.

    «A San Rocco, di là dal fiume, si trovano la dogana estense e quella austriaca. Lungo un fosso, chiamato Po Vecchio o Zara, vi è uno steccato che impedisce il contrabbando e la fuga dei giovani renitenti alla leva. Passato il posto di blocco, le guardie fanno avanzare i viandanti lungo la Strada Zamiola che segna il confine tra le terre di Suzzara, austriache, e il territorio estense di Luzzara. Alla fine della strada c’è una casa, un altro posto di blocco, che consente ai doganieri di controllare il transito.»

    Domenico ascoltava con attenzione.

    «Voi non dovete seguire questo percorso. Appena sceso dalla barca dovete nascondervi subito tra gli alberi e la boscaglia della riva e allontanarvi al più presto nella direzione opposta, verso il bosco di Luzzara.»

    «Ci sono molte guardie?»

    «Non tante, e poi siete fortunato perché oggi ci sono altre bestie che devono passare e questo creerà un po’ di confusione. Buona fortuna!»

    Poi, rivolgendosi al gruppo di persone in attesa, gridò: «Alura, andommia! Sîv prunt? Un a la volta, monté inséma a la berca. Via, andòm

    L’attraversata durò una buona mezz’ora. La chiatta era piena di uomini, donne, bambini, animali, tutti immobili e timorosi. I cavalli nitrivano come se anche loro avessero paura, mentre la Biunda se ne stava buona buona: probabilmente capiva che la situazione era molto delicata.

    Domenico studiò la riva opposta e intravide sulla destra una fitta boscaglia. Sarebbe stato il suo rifugio.

    A mano a mano che i passeggeri scendevano sulla riva, le guardie li indirizzavano lungo il sentiero che portava a San Rocco. Domenico era appena sbarcato con la sua mucca quando, sulla barca, un cavallo inciampò in una corda, cadendo in acqua con le zampe anteriori e facendo oscillare pericolosamente la chiatta. Quelli che non erano ancora scesi cominciarono a gridare, a chiedere aiuto, ad aggrapparsi l’un l’altro, mentre il traghettatore cercava di calmarli e di rialzare il cavallo. I passeggeri che erano già a terra si fermarono a guardare, mentre le guardie accorrevano per bloccare la chiatta e aiutare il traghettatore.

    Domenico approfittò di quell’incidente e della distrazione delle guardie per dileguarsi nel bosco e allontanarsi il più possibile.

    Trascorse la notte protetto dai pioppeti, dai salici e dai cespugli di ginestra e betulla che crescevano rigogliosi.

    Ripensò all’incidente del cavallo, ringraziando in cuor suo il traghettatore che, ne era sempre più convinto, aveva provocato intenzionalmente quel diversivo per dargli una mano. Esistevano ancora le brave persone!

    All’alba, quando i raggi del sole incominciarono a filtrare tra gli alberi, Domenico si svegliò. Era ora di riprendere il cammino.

    Dovette stare molto attento perché non vi erano sentieri e i folti cespugli ostacolavano la marcia. Si accorse ben presto che vi era un’altra minaccia, per lui e la sua mucca: le lanche, zone paludose che si formavano vicino al fiume durante le piene, costeggiate da felci e coperte da ninfee. In quella stagione non vi era molta acqua, ma il fondo doveva essere melmoso, pieno di radici, e sarebbe stato un vero disastro se la Biunda vi fosse caduta dentro.

    Procedette lentamente, con cautela, fino a quando vide le prime case di Luzzara. Si diresse alla fontana della piazza per fare rifornimento d’acqua.

    Quale direzione avrebbe preso ora?

    Dove lo avrebbe portato quella nuova giornata?

    2

    DOMENICO

    DETTO ANCHE PICÂJA

    Noi siamo da secoli

    Calpesti, derisi,

    Perché non siam popolo,

    Perché siam divisi.

    G. Mameli

    «C osì siete riuscito a sfuggire alla dogana.»

    Domenico si voltò di scatto, sorpreso nell’udire quelle parole.

    Chi era quella ragazza che sembrava essere a conoscenza della sua avventura?

    Prima ancora che Domenico potesse rispondere, fu lei a giustificarsi: «Vi ho visto ieri sulla chiatta. C’ero anch’io. E ho visto come siete sgattaiolato via con la vostra mucca approfittando dell’incidente del cavallo. Eravate d’accordo, voi e il traghettatore?»

    «Volete denunciarmi?»

    «Perché mai dovrei denunciarvi?»

    «Non so. Perché non ho pagato il dazio, forse.»

    «Ne paghiamo anche troppe di tasse al Duca!»

    «Al Duca?»

    «Sì, Francesco V, il duca di Modena e Reggio. Ora siete nel Ducato estense, non lo sapevate? Anche se dicono che il duca è scappato a Mantova dopo la sconfitta degli austriaci. Ma voi, da dove venite?»

    «Da lontano.» Come al solito, Domenico preferì tenersi sul vago.

    «E ora che intenzioni avete? Dove andrete?»

    «Verso sud.»

    «Allora… buon viaggio!» rispose la ragazza, delusa dalla reticenza del giovane pellegrino.

    «No, aspettate! Come vi chiamate?»

    «Maria,» fu la secca risposta.

    «Maria… sapete se c’è del lavoro qui per un bracciante?»

    «Presentatevi al fattore del podere San Giorgio. Forse può darvi delle informazioni.»

    «Grazie.»

    San Giorgio era una grossa proprietà appena fuori dal centro abitato di Luzzara. Era un bel complesso che sorgeva in mezzo a una vasta pianura. Ma, per quanto grande e imponente fosse, non aveva niente a che vedere con i poderi di Montù Beccaria. Sulla destra vi era la casa padronale, che non aveva un gran bell’aspetto e, di fronte alla strada, vi erano le stalle e le abitazioni dei contadini. Come nel mantovano, anche qui le case erano in condizioni miserevoli, trascurate, segno di evidente povertà.

    Domenico andò a parlare col fattore, un certo Martini. Questi fu molto chiaro con lui e non gli nascose le difficoltà del momento.

    «Sì, abbiamo bisogno di braccianti, soprattutto in questa stagione. Molti dei nostri giovani sono stati presi dall’entusiasmo rivoluzionario e sono partiti, nonostante i controlli ai confini, per arruolarsi nell’esercito sardo. E voi, da dove venite?»

    «Dal nord.»

    «E non volete combattere con i piemontesi contro gli austriaci?»

    «Piemontesi, austriaci, francesi… sono tutti padroni, tutti uguali. Non mi fido di nessuno.»

    La risposta dovette piacere al fattore, visto il modo in cui gli sorrise.

    «Qui, invece, sono partiti in trentaquattro come volontari, tutti poveracci eh, muratori, contadini, trecciaioli, vetturali, carrettieri… Sperano di migliorare le loro condizioni, ma non capiscono che non cambierà mai niente qui. È cambiato qualcosa con Napoleone? Tutto è tornato come prima.»

    Domenico non raccontò della battaglia di Solferino, che molto probabilmente aveva portato via quei trentaquattro giovani volontari. Si limitò a osservare che forse qualcosa sarebbe cambiato anche lì, ora.

    «Non vi posso offrire molto come paga. La situazione è critica. Prima c’è stata la crisi della manifattura dei cappelli di truciolo, poi il governo ha raddoppiato l’imposta sul bestiame e aumentato la tassa sul reddito agrario, poi abbiamo avuto il colera… La vita è dura qui.» E non aggiunse che molta gente abitava in case misere che non rispettavano le più elementari norme igieniche, che le malattie ricorrenti e la scarsa alimentazione colpivano sempre più la popolazione, alimentando, di conseguenza, i fermenti di rivolta.

    Domenico accettò le condizioni del fattore. Dovevano però risolvere un problema: la Biunda. Il fattore era disposto ad acquistarla per duecentoventi lire. Contrattarono un po’, poi arrivarono alla somma di duecentocinquanta lire. Era un bel gruzzolo per Domenico che, aggiunti ai risparmi che aveva messo da parte a Montù Beccaria, veniva ad avere un tesoretto di trecentodieci lire.

    Si strinsero la mano. Il contratto era stipulato.

    Il fattore mostrò a Domenico il suo alloggio: misero, ma poteva andare per un po’. Non aveva intenzione di rimanere a Luzzara per molto. Giusto il tempo di vedere come si mettevano le cose dopo quella guerra.

    Sì, perché erano giorni di grande caos, quelli che avevano seguito la sconfitta degli austriaci a Magenta e la loro ritirata oltre il Mincio. Non era il caso di mettersi in viaggio proprio adesso, quando tutti gli stati del nord e del centro Italia erano in fermento. E col duca che era scappato con le sue truppe, ma che poteva tornare da un momento all’altro.

    Domenico salutò con un certo rimpianto la Biunda che era stata la sua salvezza in diversi momenti. Le parlò, le disse che si sarebbero rivisti ancora, che non l’avrebbe abbandonata… Mentre l’accompagnava alle stalle, intravide Maria con una cesta di panni da stendere. La guardò sorpreso mentre lei gli sorrideva soddisfatta con uno sguardo malizioso.

    Domenico lavorava ormai da diversi giorni al podere di San Giorgio e aveva cominciato a conoscere gli altri contadini. Con loro si trovava la sera attorno a un tavolo, sull’aia, per giocare a briscola. Domenico era furbo, buon giocatore, e ne approfittava per vincere qualche soldo, distraendo i suoi compari con le chiacchiere. Faceva loro mille domande e quelli parlavano, parlavano, raccontandogli tutto quello che lui voleva sapere.

    «Ho saputo che il duca è scappato a Mantova… e chi governa ora il ducato?»

    «Sè, ch’a’g vègna ‘n canchêr! È scappato con tutti i soldi!» esclamò con rabbia uno dei contadini, Michele.

    «Tés Michlein, tés! Stà ateinti!» lo mise in guardia un suo compare. Domenico aveva sollevato il coperchio del pentolone e ora tutti volevano dire la loro.

    «A Modena adesso c’è un reggente, un certo Giacobazzi,» disse un contadino.

    «C’è stato un gran va e vieni da queste parti nel mese di giugno,» commentò un altro.

    «C’era chi disertava per raggiungere i piemontesi e c’erano i fedeloni, i fedelissimi di Francesco che lo hanno seguito a Mantova. Si sono fermati due giorni a Guastalla con l’artiglieria accampata fuori dal paese verso il Po. Poi sono passati per Luzzara e hanno attraversato il fiume a Borgoforte sul ponte di barche,» precisò un tale che ne sapeva più di tutti.

    «Ma nessuno dei Luzzaresi lo ha seguito!» sottolineò con orgoglio Giuseppe, il più anziano del gruppo.

    «E speriamo che non ritorni!» aggiunse Michele.

    «Che se lo tengano gli austriaci!» ribadì Giuseppe.

    «At pias no c’al duca chì, am’par ¹,» commentò Domenico.

    Fu proprio durante una serata come quella che il gruppo dei giocatori fu sorpreso dall’arrivo di un giovane, Giovanni, il figlio di Michele. Giunse di corsa, ansimante, gridando: «Hanno firmato l’armistizio, i francesi hanno firmato! La Lombardia passa ai Savoia!»

    «Cosa? Csä dit?» gli risposero in coro i compagni di lavoro.

    E allora, dopo avere ripreso fiato, Giovanni raccontò che aveva sentito dire in paese che Napoleone III aveva firmato l’armistizio con gli austriaci a Villafranca.

    «Ma come? Stava vincendo, perché mai si è fermato?»

    «Avrebbe potuto ottenere anche il Veneto!»

    «Non ha senso!»

    «Traditor! Traditore!»

    «E adès? Csä succéd?»

    «E tutti i nostri giovani che sono andati a morire per la patria?»

    E cominciarono a fare mille ipotesi, ciascuno diceva la sua, approvava o disapprovava e, siccome a Domenico le guerre tra i potenti non interessavano, si alzò e chiuse il discorso.

    «Mì, vò a durmì. L’alba l’é chi c’la riva.» E, mentre si allontanava, borbottava tra sé: «Ma che patria e patria! Cosa vuoi che interessi ai Savoia o ai francesi la patria degli italiani, che neanche loro sanno cos’è!»

    Aveva ragione Domenico.

    I pochi patrioti italiani, i carbonari, gli illuminati che erano cresciuti nutriti con gli ideali di libertà della Rivoluzione francese e di Napoleone, si erano illusi. Il desiderio di un’Italia unita e libera da potenze straniere era solo nella loro testa, un’utopia, un miraggio.

    C’erano ben altri interessi in ballo.

    Domenico, che aveva vissuto nel Regno sabaudo, sapeva bene che dietro queste guerre c’era lo zampino del Conte Cavour che, con i suoi intrighi, i suoi incontri segreti con le potenze estere, mirava solo ad ampliare i territori dei piemontesi per meri interessi economici.

    Così va la storia!

    Ma Cavour non aveva fatto i conti con la Prussia che non vedeva di buon occhio l’espansione del Piemonte e dei francesi. La Prussia, infatti, si stava mobilitando sul Reno, cosa che cominciava a preoccupare la Francia già prima della battaglia di Solferino. E forse, già prima dello scontro, Napoleone aveva preso la decisione di non proseguire la campagna in Italia.

    Era stata quindi inutile, quella strage? Quella mattanza? Vane le speranze degli italiani dopo la sconfitta degli austriaci? Effimere le fantasticherie di liberare anche il Veneto?

    Napoleone III non nutriva certamente le stesse speranze degli italiani: sapeva che gli austriaci avrebbero potuto ricevere rinforzi, che la guerra in Italia suscitava molte inquietudini in Francia, che un ingrandimento del Piemonte poteva divenire pericoloso, che la Prussia, desiderosa di annettere l’Alsazia e la Lorena, cominciava a temere le sue numerose vittorie, così come lo zar e l’Inghilterra, gli eterni nemici della Francia.

    Come avrà reagito Vittorio Emanuele alla notizia dei preliminari di pace tra Francia e Austria? Si chiedeva Domenico. Avrà avuto l’intenzione di continuare da solo la guerra? O si sarà rassegnato di fronte al fatto compiuto e alle spartizioni territoriali che Napoleone e Francesco Giuseppe avevano deciso senza interpellarlo? E Cavour? Domenico immaginò il suo sdegno, la sua rabbia: non sarebbe rimasto lì a guardare.

    Sì, le cose andarono proprio così. Cavour pronunciò parole violente contro Napoleone e consigliò il suo Re di respingere i patti di pace, di non firmare un simile obbrobrio. Il loro incontro fu tempestoso e drammatico.

    Cavour vide crollare tutto l’edificio che per anni aveva costruito con tante difficoltà. Cosa contava la Lombardia se il resto dell’Italia restava sotto il dominio degli Asburgo? Meglio proseguire la guerra da soli e perire da prodi se proprio si doveva perire. O ancora, meglio abdicare.

    E come reagì il Re di fronte a queste proposte e a questo sfacciato che parlava come se fosse lui il vero sovrano, a quest’uomo megalomane che pensava che un giorno l’Italia avrebbe conquistato l’Europa mettendola a ferro e fuoco?

    Lo mandò al diavolo e Cavour presentò le sue dimissioni.

    Vittorio Emanuele firmò il trattato di pace ed emanò un proclama che venne diffuso in tutta la Lombardia giungendo anche nel territorio estense:

    Il Cielo ha benedetto le nostre armi. Con il possente aiuto del magnanimo e valoroso nostro alleato, l’imperatore Napoleone, noi siamo giunti in pochi giorni di vittoria in vittoria sulle rive del Mincio. Io oggi ritorno fra voi per darvi il fausto annuncio che Dio ha esaudito i vostri voti. Un armistizio, seguito da preliminari di pace, ha assicurato ai popoli della Lombardia la loro indipendenza secondo i desideri tante volte espressi. Voi formerete d’ora innanzi con gli antichi nostri stati una sola libera famiglia.

    Tutto questo non importava molto a Domenico che aveva deciso di riprendere il suo viaggio dopo l’estate.

    3

    MARIA

    DETTA MIMÌ

    La vita non è la festa che speravamo,

    ma finché siamo qui balliamo.

    Anonimo

    Le cose andarono diversamente.

    Domenico non avrebbe mai lasciato Luzzara.

    Durante quel mese di agosto del 1859, il caos regnava nei piccoli stati del nord Italia. Tumulti ovunque. Sovrani che prendevano la via dell’esilio, patrioti che aspiravano all’indipendenza, agenti cavouriani che tramavano in segreto.

    A Luzzara si ebbero timori, dopo l’armistizio di Villafranca, che il duca potesse tornare sul trono. Alcuni irriducibili duchisti provocarono dimostrazioni a favore dell’antico governo; si ebbero sommosse in diverse località, moti che furono repressi con fucilazioni da parte della guardia civica.

    Domenico era preso da altri problemi.

    Più volte aveva incrociato Maria sull’aia della fattoria. Lo incuriosiva, quella giovane donna. Voleva sapere chi fosse. Voleva parlarle di nuovo, scusarsi, ringraziarla, conoscerla. Ma lei lo schivava, almeno questa era la sua impressione.

    Finché giunsero i giorni della mietitura e della trebbiatura. Erano momenti di grande lavoro per i contadini, uno dei più importanti dell’anno, ma erano anche l’occasione per ritrovarsi tutti insieme, uomini, donne, bambini, a lavorare e a cantare, per poi festeggiare sull’aia.

    Maria stava nel gruppo delle ragazze che avevano il compito di battere il grano col crivello per separare i chicchi dalle impurità. Agitavano il loro attrezzo con movimenti verso l’alto e poi in modo ondulatorio, con grazia, come se eseguissero un balletto, mentre cantavano la canzone popolare allora in voga: La bella Gigogin.

    Di quindici anni facevo all’amore:

    Daghela avanti un passo, delizia del mio cuore.

    A sedici anni ho preso marito:

    Daghela avanti un passo, delizia del mio cuor.

    A diecisette mi son spartita:

    Daghela avanti un passo, delizia del mio cuor.

    La vén, la vén, la vén a la finestra,

    L’è tutta, l’è tutta, l’è tutta inzipriada;

    La dìs, la dìs, la dìs che l’è malada:

    "Per non, per non, per non mangiar polenta

    Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza."

    Lassàla, lassàla, lassàla maridà.

    Maria era la più gioiosa, la più sorridente, nonostante la fatica, la più bella, nella sua camicetta chiara e nella sua lunga gonna azzurra protetta da un grembiulone rosa che le serviva di tanto in tanto per asciugarsi il sudore dalla fronte. Era una sinfonia di colori con la sua lunga treccia di capelli neri corvini raccolti sulla nuca.

    Domenico, che lavorava nel gruppo degli uomini che scaricavano le fascine dai carri, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso; era come ammaliato. Se ne accorse Giuseppe che gli sussurrò all’orecchio: «Dâm ammeint, lesla stèr! L’a’n fà mia par té.»

    Domenico lo guardò sospettoso: parlava perché era geloso? Anche il fattore sembrava osservare i suoi movimenti con diffidenza, mentre il vecchio padrone se ne stava all’ombra di una quercia a fumare il suo sigaro, beatamente, osservando anche lui con soddisfazione il gruppo delle ragazze.

    Al termine di quella faticosa giornata di lavoro, le rezdore prepararono due lunghe tavolate, una per gli uomini e una per le donne e i bambini. Furono serviti piatti di salame e gnocco fritto, mentre un giovane contadino allietava la compagnia col suono della sua fisarmonica.

    Poi, sgomberate le tavolate, si cominciò a ballare. La manfrina, il trescone, la furlana", che si eseguivano a coppie staccate con giri, salti e minuetti. Domenico rimase seduto a guardare. Erano balli tipicamente emiliani e, anche se erano molto simili a quelli che aveva conosciuto al suo paese, non gli piacevano molto: li riteneva superati. Tra le coppie che volteggiavano sull’aia, Domenico intravide anche Maria.

    I ballerini si disposero a coppie, in cerchio, ed eseguirono una passeggiata in senso antiorario. Poi il suonatore gridò: «Cambio!». Le donne avanzarono verso l’uomo che stava loro di fronte e insieme eseguirono una nuova passeggiata in coppia. Alla chiamata «Passo!» il senso della marcia fu invertito con una giravolta della coppia e una passerella: la prima coppia fece un ponte con le braccia e le coppie che le stavano dietro passarono a una a una, fino a quando la prima coppia rimase ultima. E tutto ricominciò da capo.

    Allegra e sorridente, Maria non si stancava di ballare. Si distingueva dalle altre giovani per la sua grazia, l’eleganza delle sue mosse, il suo sorriso.

    Poi arrivò il violinista, che era stato ingaggiato da alcuni contadini, e si passò ai balli moderni, sotto lo sguardo scandalizzato dei più anziani: il valzer, la polka, la mazurca. Erano balli che venivano da paesi lontani, da Vienna, dalla Polonia, dall’Ungheria. Grazie a Napoleone si erano diffusi in tutta Europa. Erano quindi i balli della libertà, i balli della Rivoluzione francese, i quali esprimevano una nuova filosofia di vita e che, per questo, erano osteggiati dalla Chiesa e dalle autorità civili.

    Alle prime note di un valzer di Strauss, Domenico si diresse verso Maria e, senza tener conto delle usanze che imponevano al ballerino di fare un inchino alla dama per invitarla a danzare, prese Maria tra le braccia con decisione e iniziò a volteggiare sull’aia in mezzo alle coppie più giovani, stringendola sempre più forte a sé. Era questa, infatti, la novità dei nuovi balli moderni: le coppie si abbracciavano e non avevano più bisogno di altri ballerini. E così, come se fossero soli al mondo, Domenico e Maria volteggiarono per tutta la notte, stretti l’uno all’altra, provando un’ebbrezza e un’eccitazione che nessuno dei due aveva mai vissuto. Non si parlarono. Si abbandonarono all’estasi dei volteggi, guardandosi di tanto in tanto negli occhi, stupiti essi stessi per quell’attrazione che stava conquistando i loro corpi e le loro menti.

    Poi Maria fu chiamata dal padrone.

    «Mimì! Vin chè, subitt!» Lei ubbidì. Lui le sussurrò qualcosa nell’orecchio, ma lei non rispose. Si voltò, guardò Domenico e scappò via.

    La serata era finita anche per lui, che se ne andò a dormire con la visione di Maria davanti agli occhi.

    Non la rivide per parecchi giorni.

    Cosa era successo? Si chiedeva Domenico.

    Perché il padrone aveva richiamato Maria? Aveva delle mire su di lei? Dove era finita?

    La sera, non giocava più a carte con gli altri contadini. Non si interessava più ai loro discorsi: il duca, le guerre, gli austriaci… Lui, che aveva vissuto nel Regno dei Savoia, ne sapeva molto di più di loro.

    Il duca era scappato? Ebbene che andasse a chiedere aiuto agli austriaci! E il tesoro estense? Veramente se l’era portato via? No, Domenico era convinto che ci fosse sotto lo zampino di Cavour, quel maneggione, e di Farini, il nuovo dittatore del ducato, il quale, molto probabilmente, si era accaparrato il tesoro per darlo ai Savoia.

    Garibaldi stava preparando nuove imprese per liberare tutti gli staterelli? Ma come? Da solo? E dove trovava le armi, i soldi, le navi? Chi c’era dietro di lui? L’America, l’Inghilterra, la Francia, la massoneria, lo stesso Cavour? E Garibaldi era proprio quel sano patriota, liberatore degli oppressi, che molti vedevano in lui? O un avventuriero, un approfittatore?

    E il povero Mazzini, che non riusciva ad affermare le sue idee repubblicane, le uniche forse che valeva la pena di appoggiare? Che falliva sempre nelle sue imprese?

    E Cavour? Che stava coi piedi in cinque staffe, che nascostamente appoggiava Garibaldi e ufficialmente lo osteggiava, e che faceva di tutto per ampliare il Regno del Piemonte?

    La realtà ha sempre due facce. E ciascuno porta la sua maschera.

    Dove stava quindi la verità? Si chiedeva Domenico.

    E poi, tanto, i discorsi dei contadini e dei patrioti non portavano a nulla. Non erano loro a decidere le sorti delle genti!

    Tutte le sere Domenico si appostava ai piedi di una grossa quercia, dietro la casa padronale, a fumare il suo sigaro, a meditare, a sperare di rivedere Maria.

    E una sera riapparve.

    La chiamò. «Mimì!»

    Lei si fermò, indecisa sul da farsi, poi si diresse verso di lui. Come gli fu davanti, si sentì prendere tra le braccia e non riuscì a resistere alla forza di quel giovane, alto, forte, muscoloso, che l’attraeva così tanto. Si baciarono: un lungo bacio, interminabile. Lei non aveva mai baciato nessuno e rimase stordita, senza fiato, ma felice.

    «Non posso!» si limitò a dire con un filo di voce.

    «Perché?»

    «Mio padre mi ha proibito di vedervi.»

    «Vostro padre?»

    «Sì. Mi ha detto che vi caccerà se continuate a importunarmi.»

    «Gli andrò a parlare io. Chi è vostro padre?»

    Maria esitò prima di rispondere.

    «È il padrone.»

    «Il padrone?»

    Non fece in tempo a dire nient’altro che Maria era già scappata via, lasciando Domenico confuso, frastornato, in preda allo sconcerto.

    Non si rividero più per parecchio tempo. Il padre di Maria aveva allontanato la figlia mandandola a trascorrere l’inverno da una sua sorella a Gonzaga.

    Il ricordo di quell’unico bacio, scambiato in una calda serata settembrina ai piedi della quercia, rimase l’unico filo a unire i due giovani. Nessuno dei due poteva dimenticarlo ed entrambi aspettavano con sofferente impazienza il momento di incontrarsi di nuovo.

    Domenico non pensò più di partire per il Nuovo Mondo. Il suo mondo ora era lì, in quel podere di Luzzara.

    Passarono i mesi.

    L’11 marzo del 1860 Domenico non andò a votare per l’annessione di Luzzara al Regno di Sardegna. Il voto era riservato ai soli possidenti.

    Così, dopo avere approfittato della partecipazione del popolo come forza combattente contro l’antico regime, i borghesi negavano a quello stesso popolo la possibilità di esprimere la propria volontà e di eleggere i propri rappresentanti.

    Non solo. Girava voce che a Reggio e Modena vi fossero state manifestazioni prima delle votazioni, organizzate dai piemontesi, per inneggiare all’indipendenza dell’Italia e a Vittorio Emanuele II. E girava voce che nei seggi la presenza

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