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Ciccilla. La soria della brigantessa Maria Oiverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva
Ciccilla. La soria della brigantessa Maria Oiverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva
Ciccilla. La soria della brigantessa Maria Oiverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva
E-book415 pagine4 ore

Ciccilla. La soria della brigantessa Maria Oiverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva

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Info su questo ebook

l brigantaggio fu guerra civile? Oppure una reazione alla conquista del Sud da parte dei Mille di Garibaldi e, quindi, una conseguenza, nefasta e negativa, della guerra per la nostra indipendenza nazionale? Sono punti di vista differenti che partono da presupposti e sistemi di valori diversi, che hanno influenzato e influenzano grandemente le interpretazioni dei fatti, ma sono due facce della stessa medaglia.
Il libro si inserisce in questo contesto, offrendo un terzo elemento di analisi. Non più lotta filo-borbonica contro gli stranieri invasori o lotta per l'Italia unita contro la reazione borbonica, ma il tentativo da parte di un gruppo organizzato di banditi o briganti di imporre la propria egemonia nell’uso della forza in concorrenza con quella del potere costituito in un ambito territoriale limitato a gran parte dei paesi presilani e al territorio della Sila, in Calabria.
Pietro Monaco e Maria Oliverio sono stati al centro dell’attenzione di importanti studiosi e letterati come Nicola Misasi (scrittore verista cosentino) e Vincenzo Padula (sacerdote, patriota e scrittore. Contemporaneo dei due briganti). Il primo, nel suo romanzo La Magna Sila scritto nel 1883, racconta la vicenda di Maria Oliverio all’apertura del libro; il secondo, sul suo giornale, Il Bruzio, scrive del brigante Monaco in diversi trafiletti, nonostante fosse già morto quando il giornale iniziò le sue pubblicazioni. L’eco delle gesta di Monaco fu argomento di molti suoi articoli. Giuliano Manacorda, nel 1981, alla fine gli anni di piombo, riprendendo gli scritti di Padula paragona, arditamente, i briganti, compreso Pietro Monaco, alle Brigate Rosse.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2013
ISBN9788868220440
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    Anteprima del libro

    Ciccilla. La soria della brigantessa Maria Oiverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva - Peppino Curcio

    Peppino Curcio

    Ciccilla

    La Storia della brigantessa Maria Oliverio

    del brigante Pietro Monaco

    e della sua comitiva

    In Appendice il racconto storico inedito:

    Pietro Monaco sua moglie Maria Oliverio

    ed i loro complici

    di Alexandre Dumas

    Tratto dal giornale L’Indipendente, Napoli, 1864

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione Ebook 2013

    ISBN: 978-88-6822-044-0

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

    Sito internetwww.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mailinfo@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Cesare, Paride e Anita

    Introduzione

    Nel mio libro Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, appena uscito da Mondadori, ho scritto che, nel capitolo su Ciccilla e Pietro Monaco, mi sono potuto valere della ricerca d’archivio – accurata quanto appassionata – di Giuseppe Curcio: il suo lavoro, ancora inedito, merita di essere pubblicato presto. Sono felice che il mio augurio abbia avuto buon esito, tanto che Ciccilla viene pubblicato, pochi giorni dopo il mio, da Luigi Pellegrini Editore.

    Nelle sue preziose ricerche, Curcio ha scovato carte processuali, fotografie e gli scritti – ormai dimenticati – di Alexandre Dumas. È affascinante la teoria per cui il grande scrittore, affascinato da Monaco, ne rimase deluso: e che, probabilmente, Monaco fu l’ispiratore a rovescio del successivo romanzo di Dumas, scritto nel 1864 e tra i suoi più famosi: Robin Hood.

    Ugualmente interessante e credibile è la teoria per cui le imprese della banda contro la famiglia Gullo finirono – la storia offre volentieri simili meraviglie – per avere una conseguenza benefica nella secolare questione meridionale. Fausto Gullo, nato nel 1887 e nipote della bambina rapita dai Ciccilla e Pietro venticinque anni prima. Socialista dal 1907, aderì al Partito Comunista d’Italia dalla fondazione, nel 1921; venne perseguitato dal regime fascista e nell’aprile del 1944 fu nominato ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Badoglio. Nel primo consiglio dei ministri fu lui a proporre la formazione di un’Assemblea costituente. Ma soprattutto fu lui – fra l’estate del 1944 e la primavera del 1945 – a emanare una serie di decreti per la concessione della terra ai contadini e per disciplinare, in senso più favorevole ai lavoratori, i contratti di mezzadria e colonici. È certo che la memoria del bandito Monaco, diventato tale anche per la promessa tradita di Garibaldi, sulla terra ai contadini, influì sulla sua decisione. Ottanta anni dopo.

    Conobbi Curcio, ormai per me l’amico Peppino, grazie alla magia di internet: magia nera, a volte, ma più spesso benigna, a usarla in modo accorto. In questo caso, due studiosi che lavoravano su argomenti complementari poterono incontrarsi e scambiare idee e materiale documentario.

    Riconosco volentieri che a guadagnarci sono stato io. Curcio, oltre a conoscere perfettamente il territorio di cui si parlava, mi fornì, con generosità e fiducia, documenti inediti che – doverosamente – ho citato solo in minima parte, e che quindi vengono pubblicati qui per la prima volta. Sono molti e rilevanti, per la ricostruzione storiografica di una vicenda rimasta finora nebulosa. Infatti, nella storia di Pietro e Ciccilla si fa fatica a separare la realtà dalle narrazioni fantasiose che fiorirono intorno a loro. Discernere il vero dal leggendario risulta un’impresa difficile, specie se i protagonisti sono meteore in pagine cancellate della storia nazionale.

    Adesso, grazie al lavoro di Curcio non è più così, un altro tassello della storia nazionale è finalmente al suo posto. Da questo libro dovranno partire tutti gli ulteriori studi e approfondimenti sull’argomento.

    Giordano Bruno Guerri

    Premessa

    Questo libro sui briganti Pietro Monaco e Maria Oliverio è frutto di un lavoro iniziato da mio zio, Pietro D’Ambrosio, agli inizi degli anni 90. Aiutai mio zio, maestro elementare in pensione, sia nella ricerca archivistica sia nell’uso del computer e condivisi con lui l’entusiasmo delle sue scoperte. Il libro fu pubblicato nel 2002[1].

    Il mio interesse per Ciccilla crebbe da allora. Lo stesso anno della pubblicazione del libro approfondii l’argomento andando all’Archivio Centrale dello Stato a Roma alla ricerca del processo che la vide protagonista, cercato invano a Cosenza da mio zio. Ritrovare il processo a Maria Oliverio (insieme a molti altri processi custoditi a Roma presso l’Archivio Centrale dello Stato) aumentò il mio interesse. Per brevi periodi lungo questi otto anni ho ripreso le ricerche. Scoprii, nel 2003, i vantaggi della foto digitale nelle ricerche d’archivio e approfittai di questa nuova modalità per esaminare comodamente a casa le centinaia di foto del processo e di altre fonti documentarie che trovai anche presso l’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma.

    Il mio lavoro non mi permise di approfondire e di dedicarmi a questi studi in modo continuativo. Verso la fine del 2005 avevo quasi terminato la ricerca sul processo a Maria Oliverio quando volli approfondire alcune fonti secondarie[2] che accennavano un interesse di Alexandre Dumas alla brigantessa. Sapevo che il noto scrittore era direttore del giornale L’Indipendente edito a Napoli al tempo delle vicende della banda Monaco e delle sue opere sui briganti calabresi, ma con nessun riferimento ai briganti contemporanei.

    Incuriosito, mi recai presso la Biblioteca Lucchesi Palli, sezione della Biblioteca Nazionale di Napoli. Sfogliai tutti i numeri del giornale cercando le parole chiave che potessero ricondurmi a Pietro Monaco o Maria Oliverio.

    Tornai diverse volte a Napoli, ovviamente con tempi necessariamente lunghi, per concludere la ricerca che alla fine ebbe frutti davvero inaspettati. Iniziai a sfogliare i numeri de L’Indipendente dal momento della sua prima uscita. Fino al settembre del 1863 non trovai nulla sulla brigantessa, tanto meno su Pietro Monaco. Poi, mano mano, una notizia dietro l’altra fino a vedere diverse prime pagine dedicate alla coppia e infine, sui fogli del marzo 1864, quando Pietro Monaco era già stato ucciso e mentre era in corso il processo a Maria Oliverio presso il Tribunale Militare di Catanzaro, il ritrovamento di un racconto storico di sette capitoli dedicato ai nostri briganti scritto da Alexandre Dumas, mai pubblicato in forma di libro e sconosciuto fino ad oggi. Rimando all’ottavo paragrafo del terzo capitolo, a p. 168, un approfondimento e all’Appendice la stesura integrale inclusi tutti gli articoli riguardanti questa vicenda pubblicati dal giornale.

    Ma il mio lavoro restava incompleto per carenza di fonti primarie provenienti dal luogo maggiormente deputato a fornirmele: l’Archivio di Stato di Cosenza. Purtroppo, pur potendo fruire del cospicuo fondo sul brigantaggio, fino al 2000 i processi di quegli anni sono stati accessibili con difficoltà perché i locali della ex Prefettura, in Via Pezzullo, dove erano depositati gli atti, erano umidi, in disordine, si poteva permanere in quei locali poche ore e dietro appuntamento. Nonostante tutto, mio zio era riuscito ad individuare alcuni fondi dell’archivio e ad aprire i fascicoli di qualche processo. Dal 2000 divenne impossibile ogni consultazione perché l’archivio di Stato stava cambiando sede; i fondi dei tribunali rimasero inaccessibili fino al 2009.

    Stavo ormai decidendo di pubblicare lo stesso utilizzando solo il materiale trovato fino a quel momento, quando, alla fine di luglio del 2009, mi recai nella nuova sede dell’Archivio di Stato presso i locali ristrutturati dell’ex convento di San Francesco di Paola, e ho ritrovato i processi finalmente consultabili.

    Ripresi in mano i vecchi e sparuti appunti e, con il sostegno degli esperti dell’Archivio, provai a ricercare (in verità con poca convinzione, visto il mare magnum di documenti che mi trovavo davanti). Impostai una ricerca a tappeto senza punti di riferimento se non quello, di alcuni scaffali, del nome di un brigante, di una località, o di una semplice data.

    Di nuovo, per la terza volta, l’emozione fu notevole. Come in un film, ho ritrovato tra i fascicoli polverosi le cartuzze segnalibro e la grafia dello zio (deceduto nel 2006). Uno dietro l’altro con difficoltà, ma con l’entusiasmo (condiviso con gli operatori dell’Archivio, come quando assieme leggemmo i viglietti del brigante) di scoprire un vero tesoro: riuscii a ricostruire quasi tutti i processi e tutti i delitti contenuti in quei processi commessi dalla banda di Pietro Monaco. Alla fine erano ben 38. Oggi, forse, a ben guardare alcune indicazioni archivistiche segnate sulle copertine dei fascicoli, la gran parte di quelli che credevo singoli processi, furono accorpati e videro la conclusione intorno all’anno 1875. Ma attendiamo il lavoro di riordino a cura dell’Archivio di Stato, in corso mentre si scrive, per giungere a una migliore identificazione della fonte archivistica.

    Le scoperte si moltiplicavano ancora e l’interesse pure. Ho anche fatto un lavoro di dura selezione (dura, perché ho scartato cose interessanti che avrei voluto approfondire) scegliendo di mettere in luce, al secondo capitolo, solo le cose più importanti o inerenti la storia della coppia. Il risultato finale è una lunga tabella riassuntiva dove sono elencati sinteticamente gli elementi essenziali dei processi: le imputazioni, i luoghi dove furono commessi i reati, le date dei delitti, gli imputati, le indicazioni delle fonti archivistiche ed eventuali note.

    Alla fine di questa ricerca credo che si possa ridisegnare con maggiori informazioni le figure dei due briganti nel panorama storico in cui vennero a trovarsi. L’occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, di cui il brigantaggio ne fu un tragico corollario, è il momento opportuno per sottoporre agli occhi degli studiosi e dell’opinione pubblica un approfondimento delle vicende di Maria Oliverio e Pietro Monaco dando uno sguardo al fenomeno del brigantaggio con più profondità, analizzando non solo i libri già scritti, ma le singole e crude vicende delittuose normalmente affrontate da Carabinieri, soldati, giudici, testimoni, vittime e colpevoli. In questo modo si scopre un mondo di relazioni e si apre una finestra sui fatti concreti, sulle tragiche storie vissute, sui racconti diretti dei protagonisti (anche se pur sempre filtrati dai cancellieri di turno incaricati a trascrivere le deposizioni tradotte in gran parte dal dialetto).

    Pietro Monaco e Maria Oliverio sono stati al centro dell’attenzione di studiosi e letterati come Nicola Misasi e Vincenzo Padula. Il primo, nel suo romanzo La Magna Sila, scritto nel 1883, racconta la vicenda di Maria Oliverio all’apertura del libro; il secondo, sul suo giornale, Il Bruzio, scrive del brigante Monaco in diversi trafiletti, nonostante fosse già morto quando il giornale iniziò le sue pubblicazioni. L’eco delle gesta di Monaco fu argomento di molti suoi articoli. Giuliano Manacorda, nel 1981, alla fine gli anni di piombo, riprendendo gli scritti di Padula paragona, arditamente, i briganti, compreso Pietro Monaco, alle Brigate Rosse[3].

    Di Monaco e Maria Oliverio hanno scritto diversi storici e giornalisti: Gaetano Cingari[4], Franco Molfese[5], Carlo Alianello[6], Maurizio Restivo[7], Rosario Villari[8], Francamaria Trapani[9], Salvatore Scarpino[10], Alfonso Scirocco[11] e Francesco Gaudioso[12]. Quest’ultimo, nel suo libro, Calabria Ribelle, ha approfondito alcuni dati numerici sulla consistenza del brigantaggio nelle province meridionali stabilendo che la provincia di Cosenza era tra le più colpite dal fenomeno.

    Alcuni di questi (Maurizio Restivo e Franca Maria Trapani) hanno considerato Maria Oliverio la regina delle brigantesse forse perché fu l’unica brigantessa ad essere condannata a morte dai tribunali militari.

    Fu, inoltre, scritta un’ode (Cosenza 1865) e un dramma (Reggio Calabria 1875) dedicate a Ciccilla da un giornalista cosentino di nome Luigi Stocchi.

    Sono stati preziosi per la comprensione del fenomeno, oltre al libro di Pietro D’Ambrosio che racconta le vicende del brigante dal punto di vista della appartenenza alla comunità presilana, anche il libro di Vincenzo Feraudo, che racconta la storia del proprio avo rapito ad Acri da Pietro Monaco del quale pubblica i suoi viglietti insieme alle missive che alcuni rapiti spedirono alle loro famiglie quando erano sequestrati[13].

    Dalle mie ricerche, colpisce la notorietà della vicenda all’epoca in cui si svolsero i fatti: il giornale L’Indipendente (molto noto soprattutto per il suo direttore) pubblica una decina di prime pagine con notizie di Pietro Monaco e Ciccilla, diverse notizie uscirono anche sul giornale Il Popolo d’Italia e su La Borsa. Circolarono anche alcune foto della brigantessa (siamo agli esordi della fotografia e la gran parte dei giornali non erano tecnologicamente in grado di pubblicarle) che fanno parlare di questa donna, non druda di un brigante, ma amazzone e che imbracciava il fucile vestendosi da uomo.

    Entrano nella storia anche personaggi storici protagonisti di quei momenti, come il Conte di Cavour che individuò nel Maresciallo Fumel la persona destinata a combattere il brigantaggio inviandolo proprio in Presila dove iniziava la sua carriera criminale Pietro Monaco; Giovan Battista Falcone eroe di Sapri morto a Sanza assieme a Carlo Pisacane, con i famosi trecento della poesia di Luigi Mercantini, ed Agesilao Milano, l’attentatore del re, conosciuti dal Monaco durante il servizio di leva a Napoli. Il Governatore Donato Morelli, grande artefice dell’avanzata di Garibaldi in Calabria e anche componente della Commissione Parlamentare sul Brigantaggio; Garibaldi stesso, Giuseppe Sirtori, Presidente della Commissione Parlamentare sul Brigantaggio e protagonista della cattura dei due briganti; i generali Ursini, La Marmora, Pernot, il Re Vittorio Emanuele che concesse la grazia a Ciccilla e, buon ultimo (ma nessuno sapeva fino a quanto fosse coinvolto), Alexander Dumas.

    Quest’ultimo scoprì il brigante Monaco e la brigantessa e gli apparve subito l’occasione per raccontarne le gesta, come già fece con gli altri briganti immaginati in gioventù in due suoi racconti del 1840 e 1842, poi ne rimase deluso. Forse per ricostruire quel modello letterario che tanto lo affascinò scrisse, lo stesso anno, Robin Hood, il Proscritto, romanzo pubblicato postumo nel 1882 che divenne uno dei suoi romanzi più famosi.

    Partendo dall’affermazione che Dumas fece nel primo capitolo del suo racconto quando scrive che Pietro Monaco …combattè a Capua con tanto coraggio che fu nominato sottotenente…; ho cercato di capire come si intreccia la sua storia con quella dei Mille e in che modo Pietro Monaco fu coinvolto nel passaggio di Garibaldi da Cosenza. Ho approfondito la battaglia di Agrifoglio (che tutto fu, meno che battaglia) prendendo spunto da un prezioso e antico libro di Raffaele De Cesare, Una famiglia di Patriotti, che scova le sue preziose fonti, spesso riproducendole integralmente, dall’introvabile archivio di Donato Morelli. Purtroppo la ricerca ha trovato un limite nell’Archivio di Stato di Napoli dove sono custoditi i documenti dell’esercito borbonico.

    La famigerata crudeltà di Maria Oliverio conseguente al terribile omicidio della sorella Teresa con 48 colpi di scure, alla luce di quanto è documentato negli atti processuali presi in esame, ne esce molto ridimensionata. Sono interessanti le testimonianze delle vicine di casa al processo per questo omicidio, come sorprende la sensibilità della brigantessa verso i rapiti e le vittime della banda. Anche la figura della sorella muta: da vittima innocente nelle mani della crudele e gelosa sorella (Nicola Misasi), a vittima colpevole di calunnia.

    Dall’analisi della sequenza temporale dei processi si scopre che Pietro Monaco diventa il brigante che conosciamo solo dopo questo delitto. Come inaspettati sono gli indizi che testimoniano un’attività filo piemontese del brigante prima del delitto di Teresa Oliverio. Abbiamo notizie, o intuizioni di questa attività vicina a Donato Morelli anche da Salvatore Scarpino[14]. Ancora una scoperta è il conflitto sanguinoso tra la banda di Pietro Monaco e la banda di briganti filo borbonica di Leonardo Bonaro. Inoltre, sono davvero sorprendenti le documentazioni che portarono alla concessione della grazia del Re che commutò a Maria Oliverio la sentenza di pena di morte in carcere a vita.

    Infine, tra le vittime privilegiate di Pietro Monaco ci fu la famiglia Gullo, suoi vicini di casa a Macchia di Spezzano Piccolo. Secondo alcune fonti orali il particolare accanimento era dovuto al fatto che, forse, qualcuno della famiglia utilizzò l’istituto della surroga, o del cambio, per evitare il servizio di leva e che Monaco lo sostituì. Purtroppo le mie ricerche nell’Archivio di Stato di Napoli, anche per questo aspetto della vicenda, presso il fondo dell’esercito borbonico custodito in Via Egiziaca a Pizzofalcone, sono state vane e particolarmente infruttuose. È probabile che i documenti siano andati distrutti. Per gli ufficiali dell’esercito borbonico e i reparti dei mercenari svizzeri esistono e sono consultabili in codesto fondo dell’Archivio di Napoli, i "libretti di vita e di costume, ma non ho avuto notizia di alcun altro fondo d’archivio sui soldati semplici (pur dietro esplicita richiesta scritta). Ho trovato solo degli indizi per future ricerche. Infatti, all’interno di alcuni fasci, riguardanti dei procedimenti disciplinari contro alcuni soldati, ho rinvenuto delle schede, dette filiazioni", dove veniva segnata la carriera di ogni singolo soldato dell’esercito borbonico.

    L’accanimento verso la famiglia Gullo e quella terribile esperienza portò, molti anni dopo, a influenzare positivamente uno dei componenti di quella famiglia che rielaborò quei fatti e quel conflitto e ne individuò la causa nelle condizioni sociali dei contadini senza terra. La famiglia in questione è quella che diede i natali al costituzionalista e Ministro dei contadini Fausto Gullo, che cercò di colmare quel debito di speranza lasciato da Garibaldi ai contadini senza terra riconoscendo, dopo 84 anni, i loro diritti e, soprattutto, riconoscendo alla classe contadina meridionale di essere pienamente parte della Repubblica e dell’Italia Unita.

    [1] Pietro D’Ambrosio, Brigantaggio. Pietro Monaco e Maria Oliverio. Storia di un mito della Presila, Cosenza, 2002.

    [2] Salvatore Scarpino, La mala unità. Scene di brigantaggio nel Sud, Cosenza, 1985, pp. 83 e 84.

    [3] Vincenzo Padula, Il brigantaggio in Calabria (1864-1865), Introduzione di Giuliano Manacorda, Roma 1981, pp. 13, 14 e 15.

    [4] Gaetano Cingari, Storia della Calabria dall’Unità a oggi, Laterza, 1982.

    [5] Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, 1966.

    [6] Carlo Alianello, La conquista del Sud: Il Risorgimento nell’Italia Meridionale, Milano, 1994.

    [7] Maurizio Restivo, Ritratti di brigantesse. Il dramma della disperazione, Manduria 1997.

    [8] Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, 1961.

    [9] Francamaria Trapani, Le brigantesse, Roma, 1968.

    [10] Salvatore Scarpino, Indietro Savoia! Briganti nel Sud, Milano, 1988.

    [11] Alfonso Scirocco, Briganti e società nell’Ottocento: il caso Calabria, Lecce, 1981.

    [12] Francesco Gaudioso, Calabria ribelle. Brigantaggio e sistemi repressivi nel cosentino (1860-1870), Milano, 1987.

    [13] Vincenzo Feraudo, Briganti alla Caccia, Cosenza, 2007.

    [14] Salvatore Scarpino, op. cit., p. 124: L’avventura rivoluzionaria anche per Monaco fu breve esaltante, ma infine deludente, villani senza terra, coloni e soldati già regi da Scilla a Soveria fino a Napoli si sono battuti con rabbia e speranza, seguendo le direttive di uomini nuovi e potenti come Donato Morelli.

    Primo Capitolo

    Le origini e l’omicidio di Teresa Oliverio

    1.1. Maria Oliverio e Pietro Monaco prima del 1861

    Maria Oliverio nacque a Casole Bruzio il 30 agosto 1841 da Biaggio e Giuseppina Scarcella[1]. Il padre fu un bracciante, la madre, una filatrice. La casa dove trascorse la sua infanzia è nell’odierno centro storico del paese, all’angolo tra Via Antonino Ponte e Vico I dei Bruzi. Una zia di Maria, ci racconta Alexandre Dumas, era una brigantessa di nome Maddalena Scarcella, alias Terremoto, druda di un brigante fucilato sette o otto anni prima[2].

    Casa natale di Ciccilla

    Frazione Macchia di Spezzano Piccolo

    Pietro Monaco nacque poco distante, dietro la collina dove sorge Casole, a Macchia di Spezzano Piccolo, cinque anni prima, il 2 giugno 1836, da Biagio e Maria Francesca Caruso[3]. Il padre Biagio, massaro, sebbene non certamente ricco, poteva definirsi quasi un benestante per i criteri dell’epoca: vivevano un po’ sopra la media di allora. Ad esempio, potevano permettersi di dare, pur tra molte difficoltà, un’istruzione ai figli. Pietro, infatti, imparò quanto meno a leggere e a scrivere, la qual cosa gli consentì di avere accesso a una serie d’informazioni e notizie ad altri precluse e di comunicare per iscritto. Da giovinetto trascorse le sue giornate tra i boschi della Sila lavorando come carbonaio insieme allo zio Salvatore Ciarlo e al cognato Lopez Pietro Santo di Serrapedace. Al ritorno dal lavoro, ma anche tra i boschi, giocava insieme agli amici di Serra. Si tramanda che Pietro fosse una persona prestante, agile, pronta allo scherzo e alla convivialità.

    A circa diciannove anni, intorno al 1855, fu selezionato per prestare il servizio di leva a Napoli. In questa città i militari e gli studenti universitari calabresi s’incontravano in un comune circolo frequentato da personaggi come Agesilao Milano di San Benedetto Ullano e Giovan Battista Falcone di Acri[4]. I due erano legati dalla comune frequentazione del Collegio di Sant’Adriano a San Demetrio Corone, che fu la fucina dei patrioti al centro della rivolta del 1848 nell’area di Castrovillari e nei paesi italo-albanesi (conclusasi tragicamente con l’eccidio di Campotenese) e dell’attività antiborbonica degli anni successivi[5]. Agesilao Milano fu, infatti, l’attentatore del re Ferdinando II e sei mesi dopo, GiovanBattista Falcone fu protagonista della spedizione di Sapri guidata da Carlo Pisacane.

    L’8 dicembre 1856 Pietro Monaco fu tra i soldati schierati nella parata militare presso il Campo di Marte, nello stesso battaglione di Agesilao Milano, quando questi, lanciandosi con la baionetta sguainata, attentò alla vita di Re Ferdinando II. Agesilao Milano fu subito imprigionato, processato, condannato a morte e impiccato poco tempo dopo.

    Monaco, da soldato borbonico fu presente anche a Sanza, dove finì nel sangue la triste avventura dei famosi trecento descritti dalla poesia La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini. Insieme a Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera, il terzo dei triunviri di quella spedizione fu proprio Giovan Battista Falcone, forse era lui quel …bel capitano …Giovane …dai capelli d’oro, descritto dalla celebre poesia.

    Pietro Monaco lo vide morire accanto a Carlo Pisacane. Assistette inorridito e impotente al linciaggio che seguì la loro cattura da parte dei contadini lucani che i trecento patrioti consideravano loro naturali alleati. Insomma, egli conobbe quei martiri, sapeva leggere, e sicuramente venne a contatto con gli ideali per i quali immolarono le loro giovani vite.

    Torniamo, adesso, tra le colline coltivate e la piccola valle che separa il rione Macchia di Spezzano Piccolo da Casole Bruzio.

    Probabilmente fu in quel rione che Maria Oliverio conobbe Pietro Monaco, nelle occasioni in cui questi si recava a trovare la sorella Teresa di tredici anni più grande. Quest’ultima, infatti, benché maritata (sposò nel 1852 Salvatore De Cicco di Macchia), fu donna di costumi disinvolti: diversi testimoni riferiscono di commerci carnali tra lei e il futuro cognato Pietro.

    Maria era molto bella. Pietro fu subito affascinato dal suo aspetto e la chiese in sposa, forse chiedendo consigli alla stessa Teresa. Maria accettò di buon grado quel matrimonio con un uomo di buona famiglia, istruito e attraente, soprattutto quando tornava in paese da Napoli con la divisa dell’esercito.

    Il 3 ottobre 1858 si sposarono: lei aveva diciassette anni, Pietro Monaco ventidue, ma aveva già alle spalle, come abbiamo visto, la dura esperienza del servizio militare per l’esercito borbonico.

    Maria andò a vivere con Pietro a Macchia di Spezzano Piccolo, nella stessa casa della famiglia Monaco, dove abitavano la suocera Francesca Caruso e i cognati Elina e Lelio.

    La casa è generalmente indicata in una tipica casetta, oggi abbandonata, che si trova in Vico Nord, appena sotto la filanda Gullo, sebbene permangano dubbi sul fatto che fosse proprio questa la casa in questione, posto che l’abitazione dei coniugi Monaco dovrebbe essere stata bruciata nell’agosto del 1863 dalla Guardia Nazionale di Spezzano Piccolo guidata da Giò Battista Spina[6].

    Presunta abitazione di Pietro Monaco

    In questo contesto, la coppia di sposi Maria e Pietro visse una esistenza tormentata, soprattutto a causa del carattere violento ed impulsivo di lui. Maria, come tante donne di Macchia, lavorava al telaio, come lei stessa disse di se nel presentarsi ai giudici. Pietro, invece, era spesso lontano e trascorreva gran parte del tempo a Serrapedace con gli amici di quel paese.

    Spesso le vicine di casa dovevano difendere Maria dall’ira di Pietro, come pure emergono i cattivi rapporti che la stessa aveva con la sorella e le confidenze che faceva alle amiche su quanto andava scoprendo della relazione fra questa ed il marito.

    L’anno successivo al matrimonio, il 1859, fu critico per la coppia. Probabilmente il lavoro in Sila accanto ai parenti carbonai di Serrapedace non bastava a farli sopravvivere. Alcune fonti[7] dicono che Pietro si arruolò militare al posto di un benestante di Macchia in cambio di denaro. Era, infatti, questa una pratica in uso presso l’esercito borbonico e consentita dalla legge che divenne molto diffusa in quegli anni incerti per il futuro del regno[8].

    Le stesse fonti dicono anche, che il ritorno alla vita militare non durò molto. Forse il clima prerivoluzionario che si respirava a Napoli, soprattutto dopo la morte del re Ferdinando II insieme alle attese per il preannunciato e temuto arrivo di Garibaldi, non aiutarono il Monaco a una facile permanenza in quella città, tanto da spingerlo alla diserzione e a ritornare nelle braccia della bella Maria (e dell’amante Teresa).

    Per un soldato la situazione era di grande disorientamento. Da un lato la difficile transizione che si determinò dopo la morte del re Ferdinando II e il modo di rapportarsi con l’esercito del nuovo Re Francesco II[9]; dall’altro l’attesa di Garibaldi, ampiamente preannunciata, creava un clima di precarietà e ne sono testimonianza i tradimenti e le diserzioni che precedettero la spedizione dei mille[10].

    Però dobbiamo scrivere che le ricerche condotte fin ora per confermare le ipotesi avanzate dalle fonti citate e che il nostro protagonista fosse effettivamente un soldato di quell’esercito non trovano conferme (ma nemmeno smentite) nell’Archivio di Stato napoletano di Via Egiziaca a Pizzofalcone (luogo dove sono conservati una parte consistente dei documenti dell’Esercito Borbonico), forse perché andati, in parte, distrutti. Non abbiamo la prova, perciò, se Pietro Monaco si recò effettivamente a Napoli o se rifiutò del tutto di adempiere all’obbligo assunto, rendendosi subito latitante. Non si può escludere, anzi, è un’ipotesi più che probabile, che la scelta di disertare fosse stata concordata con gli ambienti liberali e filo-savoiardi del suo paese o cosentini, in attesa dell’arrivo di Garibaldi o, quanto meno, da

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