Ascoltami: Genitorialità ad alto contatto e disciplina dolce
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Info su questo ebook
Il libro, che si propone come una sorta di racconto da mamma a mamma, è scritto con un linguaggio semplice e lineare; accurate bibliografia e sitografia corredano il testo, fornendo consigli di lettura e contatti utili per i genitori che vogliono approfondire le tematiche sviluppate.
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Anteprima del libro
Ascoltami - Romina Cardia
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/
I
ALTO CONTATTO
Definizione di alto contatto: John Bowlby e la Teoria dell’attaccamento
Cosa vuol dire alto contatto
? E quali sono i benefici per il bambino e per la mamma?
Per i neonati, il contatto con il corpo della madre o del suo caregiver (figura di riferimento che può essere anche rappresentata dal padre, dalla tata, ecc.), è di vitale importanza per la sua evoluzione psichica e fisica. Studi autorevoli sostengono che quando un bambino nasce non è ancora pronto a una vita fuori dall’utero. Ashley Montagu, antropologo, scienziato e umanista inglese, ha raccolto tutti questi studi nel suo libro dal titolo Il linguaggio della pelle. Il senso del tatto nello sviluppo fisico e comportamentale del bambino¹.
Molti di questi studi parlano di una fase chiamata esogestazione
, che è il tempo di cui il bambino necessita per completare il suo sviluppo al di fuori del grembo materno. Durante tutto questo periodo il neonato ha bisogno di essere tenuto in braccio, di essere allattato, coccolato e abbracciato. Insomma, ha bisogno di sentire lo stretto contatto con la madre e i suoi caregiver. Attraverso il tatto, prima ancora che con la vista e con l’udito, il bambino fa esperienza della propria identità: inizia a percepire se stesso, gli altri, e a conoscere i propri confini corporei. Se le sue esigenze di contatto vengono soddisfatte, inizia a gettare le basi sicure per la sua autostima.
Secondo numerosi altri studi anche le mamme traggono benefici dall’esperienza ad alto contatto, in quanto sono meno soggette alla depressione post partum e al baby blues². Inoltre, il contatto continuo tra madre e bambino permette loro di conoscersi e riconoscersi dopo quella lunga intimità durata 9 mesi.
Chi per primo formulò la teoria dell’attaccamento
fu John Bowlby³ (psicologo e psicoanalista britannico), nel 1969. Bowlby definisce la base sicura come quella da cui un bambino parte per esplorare il mondo e a cui può far ritorno in ogni momento di difficoltà o in cui ne senta bisogno
.
I bambini, quindi, cercheranno la loro base sicura nei momenti di pericolo, di malattia, di stanchezza o dopo una separazione. Da questo concetto, segue la riflessione su quelli che comunemente vengono chiamati vizi
. I bambini non hanno vizi: hanno solo bisogni da soddisfare. Siamo noi genitori che, per comodità, li chiamiamo così, colpevolizzando chi colpe non ha.
Sempre secondo la teoria dell’attaccamento, più un bambino vedrà soddisfatti i suoi bisogni, più acquisterà fiducia in se stesso e negli altri e questa base sicura lo porterà a raggiungere la sua autonomia più precocemente e con più serenità. Imporre ai bambini un allattamento a orario, costringerli a sostare
su passeggini o dentro un box, farli dormire da soli nelle cullette o nei lettini lasciandoli piangere per abituarli, frenarli nella loro naturale voglia di scoperta del mondo imponendogli numerose limitazioni non aiutano di certo l’autostima e la conquista dell’autonomia dei nostri piccoli.
Diversamente, il bambino e poi l’adulto si sentirà libero di differenziarsi e allontanarsi dalla mamma per iniziare a esplorare il mondo esterno, con la sicurezza di poterla sempre ritrovare al suo ritorno.
Secondo gli studi di Bowlby, avvalorati da altri importanti psicologi, è in mancanza di tali condizioni che il bambino ha più probabilità di rimanere mammone
o di manifestare altri disturbi, e non il contrario. Questo perché avrà sempre bisogno di conferme, di assicurarsi che la madre ci sia, nonostante i sensi di colpa derivanti dalle numerose limitazioni ricevute.
È durante l’adolescenza che diventano visibili i risultati. Chi ha vissuto un’esperienza di alto contatto, sarà più portato a distaccarsi dai genitori per allargare i propri orizzonti e cercare anche altre figure di riferimento, pur mantenendo un solido legame con la famiglia. Dall’altra parte ci sono quelli che rimangono morbosamente attaccati ai genitori e non sono in grado di dirigere verso altri il proprio attaccamento.
Sempre secondo Bowlby, infatti, il comportamento di attaccamento nella vita adulta è una continuazione di quello dell’infanzia
.
La soddisfazione dei bisogni di contatto rende i bambini sicuri e allontana il rischio di rapporti morbosi nell’età adulta.
Nei capitoli successivi si parlerà di allattamento al seno, sonno condiviso e babywearing, tutte pratiche che favoriscono l’alto contatto.
II
ALLATTAMENTO
Storia dell’allattamento al seno
L’allattamento è un argomento di grande attualità. Ma ci siamo mai soffermati a pensare come lo affrontavano le donne dei secoli passati? E quali erano i problemi a cui esse andavano incontro o i comportamenti adottati dalle società antiche?
La donna ha percorso un cammino difficile anche in questo (non che oggi sia facile, purtroppo), pieno di ostacoli e di malattie. La sua maggiore preoccupazione era quella di non potere proseguire l’allattamento, precludendo così al suo bambino la sola fonte conosciuta di cibo: il latte materno. Ella si appellava costantemente alle divinità che lo presiedevano e proteggevano lei e il suo bambino, affinché i piccoli inconvenienti e i grandi problemi potessero trovare una risoluzione. L’allattamento veniva praticato in tutte le civiltà antiche, tranne in casi di estrema gravità, come la malattia o la morte della madre, o nella eventualità ci si trovasse in presenza di gemelli.
Lungo il nostro percorso storico, il primo nome che dobbiamo ricordare è quello di Sorano di Efeso¹ (98-138 d.C.), che visse a Roma nella prima metà del II secolo dell’era cristiana. Egli, come un moderno puericultore, si interessò di tutti gli aspetti dell’allevamento del lattante e del bambino, fornendo consigli pratici di igiene e di assistenza al neonato, con particolare attenzione all’allattamento materno. E proprio su questo punto è incentrata la sua importanza, perché le sue teorie influenzeranno profondamente i comportamenti sociali delle popolazioni dei secoli a venire.
Sorano era convinto per i primi due giorni di vita il neonato dovesse essere alimentato soltanto con miele bollito, e bisognasse aspettarne altri venti prima di attaccarlo al seno, nutrendolo nel frattempo con latte di altra donna (egli riteneva infatti che il latte dei primi giorni fosse indigesto e inadatto ai bisogni del neonato). Se, trascorso questo periodo, la donna fosse stata impossibilitata a iniziare l’allattamento o se, immediatamente dopo l’inizio, non avesse potuto continuare, si doveva fare ricorso a una balia, scelta seguendo precisi e rigidi canoni, fisici e morali.
Questi comportamenti rimarranno invariati per secoli e si andò sempre più diffondendo l’usanza dell’allattamento mercenario (balia), soprattutto come distinzione di prestigio e rango sociale. Proprio in questo contesto, molte voci autorevoli si alzarono per sostenere, difendere ed elogiare l’allattamento.
Plutarco, ad esempio, affermò che la Natura aveva posto il seno della femmina umana in una posizione alta perché ella potesse abbracciare e affezionarsi al figlio mentre lo allattava. Infatti, fin dalla notte dei tempi, si erano intuite l’insostituibilità e la perfezione del latte materno, ma ora ci si convinceva soprattutto della presenza, in esso, di quel valore aggiunto che rendeva speciale il legame madre – figlio.
Un altro aspetto segnò e influenzò profondamente i comportamenti sociali e le abitudini sessuali dall’antichità fino al Rinascimento. Si riteneva che l’allattamento fosse incompatibile con i rapporti sessuali a causa della teoria dell’emogenesi² del latte, poiché il rapporto sessuale, e l’eventuale conseguente gravidanza, interferivano con la distribuzione del sangue nel corpo della donna, determinando problemi alla qualità e alla quantità del latte e provocando persino la morte del feto. Questa proibizione portò, come si immagina, numerosi problemi.
Nel XIII secolo, in Francia, il medico Aldobrandino da Siena definì con precisione le rigide regole per la scelta accurata della balia, perché era convinto che, attraverso il latte, si trasmettessero al bambino non solo le malattie, che potevano essere mortali, ma anche le predisposizioni psichiche della persona che allattava.
Ci si domanda a questo punto perché, ben conoscendo l’insostituibilità e la perfezione del latte, e pur elogiando e sostenendo l’allattamento, gli autori si soffermarono così attentamente sul baliatico?
Le donne passavano la loro vita fertile tra una gravidanza e l’altra e questa continua condizione impediva la prosecuzione dell’allattamento, a causa della proibizione secolare di allattare mentre si stava aspettando un bambino. Inoltre, gli uomini non accettavano di buon grado di doversi allontanare dal letto coniugale, per il divieto di avere rapporti sessuali durante la fase allattante.
La storia dell’allattamento materno si intreccia inevitabilmente e sciaguratamente, quindi, con quella del baliatico.
Dal 1300 in poi, con l’aumentato ricorso alla balia, la condizione dei bambini si fa sempre più precaria e drammatica. I piccoli venivano spesso allontanati dalle braccia della madre e mandati in campagna dopo disagevoli e lunghi viaggi, sottoposti a condizioni igieniche sfavorevoli, allevati con incuria, nutriti con un latte di pessima qualità, costretti alle sofferenze della denutrizione, delle sperimentazioni alimentari e delle malattie, soprattutto quelle intestinali.
A ciò si aggiungevano i vizi delle balie, il loro continuo variare (per le gravidanze o le malattie ricorrenti), la loro povertà e la non rara evenienza di morte per soffocamento nei letti affollati dagli adulti. Il privilegio di ricorrere alla balia fu dapprima riservato ai ceti aristocratici, ma poi si estese a quelli medi, che si stavano sviluppando in attività lavorative, nelle quali c’era sempre più bisogno della presenza femminile. I bambini delle famiglie povere, invece, erano abbandonati nei brefotrofi, negli ospedali o, in casi estremi, addirittura uccisi.
I medici e gli uomini di lettere non si stancavano mai di celebrare il latte materno, perché convinti che fosse uno strumento per forgiare il bambino e per rendere ancora più solido il legame affettivo tra madre e figlio.
La medicina cominciava a interrogarsi sulle modalità dell’allattamento, sulla durata della poppata, sulla quantità del latte assunto dal lattante, anche se la gestione del problema era delegata all’esperienza e alle pratiche quotidiane della gente comune, che seguiva insegnamenti e consuetudini interpretati e tramandati da generazioni.
Si pensava soprattutto alla salute del bambino, ma chi pensava a quella della donna? Si incominciò quindi a considerare anche la nutrice, colei che nutre, come una donna bisognosa di assistenza e di protezione, per i numerosi problemi che doveva superare: i disturbi fisici collegati alle ripetute gravidanze e al parto, la debilitazione conseguente e le patologie legate alla mammella poiché tutto ciò poteva portare all’infermità della madre e alla inevitabile cessazione dell’allattamento.
I medici si occuparono tutti di allattamento, tentando di dare regole precise sul numero delle poppate e sulla quantità di latte per ognuna di esse, insistendo sulla sua importanza e necessità. Possiamo solo immaginare quale impatto e influenza ebbero le esortazioni mediche sul costume e sui comportamenti delle donne.
Un personaggio chiave per la diffusione e la divulgazione di queste teorie mediche fu un estraneo alla medicina, il filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-78), che dalle pagine della sua opera Emilio³ (pubblicata nel 1762) biasimò duramente le donne che affidavano i propri figli alle balie, privandoli del latte materno.
Il clima di quegli anni era concorde con il tipo di mentalità. Nei ceti nobili, in special modo, si ebbe un ritorno all’allattamento, con la conseguente riduzione della mortalità infantile. In controtendenza, invece, i ceti medio-bassi cominciarono a rivolgersi alla balia, i primi perché questo era un segno di distinzione sociale, gli altri perché la necessità di lavorare, spesso in posti particolarmente insalubri e in lavori