Il richiamo della foresta
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Con questo breve meraviglioso romanzo Jack London ha cantato il suo amore per l’America. L’America più a Nord, quella delle colline infinite, dei fiumi ghiacciati, delle foreste, delle vette irraggiungibili, dei laghi senza nome. L’America dei pionieri, dei cercatori d’oro, che ha temprato nella fatica del duro lavoro di ogni giorno generazioni di uomini di poche parole e di grandi imprese. Quell’America che tutti non possiamo fare a meno di amare.
Jack London
Jack London (1876-1916) was an American novelist and journalist. Born in San Francisco to Florence Wellman, a spiritualist, and William Chaney, an astrologer, London was raised by his mother and her husband, John London, in Oakland. An intelligent boy, Jack went on to study at the University of California, Berkeley before leaving school to join the Klondike Gold Rush. His experiences in the Klondike—hard labor, life in a hostile environment, and bouts of scurvy—both shaped his sociopolitical outlook and served as powerful material for such works as “To Build a Fire” (1902), The Call of the Wild (1903), and White Fang (1906). When he returned to Oakland, London embarked on a career as a professional writer, finding success with novels and short fiction. In 1904, London worked as a war correspondent covering the Russo-Japanese War and was arrested several times by Japanese authorities. Upon returning to California, he joined the famous Bohemian Club, befriending such members as Ambrose Bierce and John Muir. London married Charmian Kittredge in 1905, the same year he purchased the thousand-acre Beauty Ranch in Sonoma County, California. London, who suffered from numerous illnesses throughout his life, died on his ranch at the age of 40. A lifelong advocate for socialism and animal rights, London is recognized as a pioneer of science fiction and an important figure in twentieth century American literature.
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Anteprima del libro
Il richiamo della foresta - Jack London
ITALIANO
1. VERSO UN MONDO PRIMITIVO
Buck non leggeva i giornali, non poteva sapere le sventure che si stavano preparando. Per lui e per tutti i cani di grossa taglia, di robusta muscolatura e di pelo folto e caldo tra lo stretto di Puget e San Diego. Gli uomini, scavando nell’Artico, avevano tirato su un metallo giallo. Le compagnie di navigazione e quelle dei trasporti avevano fatto girare la notizia e ora migliaia di cercatori arrivavano da ogni parte nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani. Cercavano cani forti, muscolosi, adatti alle grandi fatiche. E con folta pelliccia, per resistere al freddo.
Buck viveva in una enorme casa nella vallata di Santa Chiara, una enorme casa esposta al sole. La chiamavano Proprietà del giudice Miller
. Un po’ lontana dalla strada, era quasi nascosta tra gli alberi, attraverso cui si poteva scorgere la grande veranda ombrosa che la circondava da ogni lato. Si arrivava alla casa percorrendo viali di ghiaia, in mezzo a vasti prati. Sulla testa rami intricati di alti pioppi. C’erano, sul retro, grandi stalle, accudite da una dozzina di stallieri e aiuto stallieri. C’erano file di casette ricoperte di vite selvatica, le abitazioni per la servitù, e una grande e ordinata distesa di costruzioni minori. E poi lunghi filari di viti, pascoli verdeggianti, frutteti, e cespugli. C’era anche un pozzo artesiano e una grande vasca di cemento dove i ragazzi del giudice Miller facevano il bagno tutte le mattine e prendevano il fresco al pomeriggio. Buck regnava su questa vasta tenuta. Lì era nato e lì era vissuto per quattro anni. C’erano altri cani. In una proprietà così grande ci dovevano essere altri cani. Ma stavano nei canili affollati o vivevano ignoti nell’intimo della casa come Toots, il cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana spelacchiata, strana creatura che raramente metteva il naso fuori dalla porta o le zampe a terra. C’erano poi i fox-terriers, una banda che latrava minacciosamente a Toots e a Ysabel attraverso le finestre. Ma una reggimento di cameriere, armate di scope, proteggevano quei due.
Buck non era un cane casalingo e neanche un cane da canile. Lui era il re della tenuta. Si tuffava nella vasca con i figli del giudice. Andava a caccia con loro. Scortava Mollie e Alice, le figlie del giudice, nelle lunghe passeggiate al mattino o al tramonto. Nelle sere d’inverno stava accucciato ai piedi del giudice davanti al camino scoppiettante in biblioteca. Si lasciava cavalcare dai nipotini del giudice, li faceva rotolare sull’erba, sorvegliava i loro passi in avventurose escursioni alla fontana nel cortile delle scuderie e anche più in là, verso i prati e i cespugli. Andava imperiosamente fra i terriers e ignorava Toots e Ysabel nel modo più assoluto, perché lui era il re. Il re di tutto ciò che camminava, strisciava o volava nella proprietà del giudice Miller, anche degli uomini.
Suo padre era un San Bernardo. Era stato il compagno inseparabile del giudice. Buck non era grosso come lo era stato il padre. Pesava solo centoquaranta libbre. Sua madre era una cagna da pastore scozzese, più piccola. Si chiamava Shep. Suo padre Elmo. Ma centoquaranta libbre bastavano a Buck per comportarsi da re, rispettato da tutti. I suoi primi quattro anni li aveva vissuti da aristocratico danaroso. Viveva orgoglioso di sé e della sua vita. Era anche un po’ egoista, come succede spesso ai gentiluomini di campagna, che stanno troppo da soli. Ma non era diventato un grasso cane casalingo. Andava a caccia e si muoveva all’aria aperta. I suoi muscoli si erano sviluppati per bene. Amava l’acqua inoltre, e l’acqua era un salutare tonico per il suo corpo.
Verso la fine del 1897 questa era la vita di Buck. In quell’anno la scoperta dei giacimenti auriferi del Klondike attirò uomini da ogni parte in quel posto gelato, al Nord. Ma Buck non leggeva i giornali. Non sapeva che Manuel, l’aiutante giardiniere, era una persona pericolosa. Manuel era un giocatore incallito. Amava la lotteria cinese. S’era fissato con un sistema che avrebbe dovuto farlo ricco. E fu la sua rovina. Un sistema di gioco succhia denaro. Molto denaro. Molto di più di quanto guadagna un aiuto giardiniere. Manuel aveva anche moglie e figli. Tanti figli.
Una sera, mentre il giudice era a una riunione dell’Associazione dei Viticoltori e i ragazzi discutevano tra loro sulla organizzazione di un circolo sportivo, Buck accompagnò Manuel in quella che lui credeva fosse una semplice passeggiata, come tante altre. Nessuno li vide mentre attraversavano il frutteto. E un solo uomo li vide arrivare alla stazione di College Park. Quell’uomo parlò con Manuel e si sentì un tintinnare di monete tra i due. Era straniero e disse in modo brusco: Bisognerebbe impacchettare la merce alla consegna
. Manuel allora passò una corda attorno al collo di Buck. Due giri. Torcete la corda e starà fermo
.
Buck non si era opposto alla corda. Era una cosa strana, alla quale non era abituato, ma aveva fiducia negli uomini che conosceva. Col tempo si era convinto che erano saggi, più saggi di lui. Quelli che conosceva. Quando però la corda passò allo straniero, ringhiò minaccioso. Di solito un suo ringhio equivaleva a un ordine. Ma la corda si strinse attorno al suo collo togliendogli il respiro. Allora saltò furioso addosso all’uomo, che lo colpì mentre saltava, strinse la corda ancora più forte e con uno strattone se lo caricò sulla schiena.
Buck annaspava furioso. La corda stringeva senza pietà. La lingua gli penzolava fuori dalla bocca. Non riusciva a respirare. Mai era stato trattato così. E mai era stato così arrabbiato. Alla fine la vista si annebbiò e non si rese neanche conto che i due lo stavano caricando sul carro bagagli di un treno.
Quando riprese i sensi, sentiva male alla lingua. Capì dallo sballottolare che era su un treno. Aveva viaggiato con il giudice. Si sentiva come un re rapito. Appena aperti gli occhi, l’uomo lo prese per la gola, ma Buck fu più veloce di lui e gli azzannò una mano. Tenne strette le mascelle su quella mano maledetta finché non perse nuovamente i sensi. Il responsabile del carro bagagli era accorso sentendo quel baccano. Maledizione, ha un altro attacco. Lo sto portando a San Francisco. Il padrone vuole che lo veda un veterinario di là
.
Nel retrobottega di una taverna del porto di San Francisco, lo straniero si lamentava: Neanche per mille dollari lo rifarei. Quel cane maledetto. M’ha distrutto una mano, Per cinquanta dollari miserabili!
. Aveva la mano avvolta in un fazzoletto sporco di sangue e il pantalone era stracciato, a destra, dal ginocchio alla caviglia.
- E quello che te l’ha venduto quanto ha preso? - domandò il padrone della taverna.
- Cento. Neppure un soldo di meno.
- Fanno centocinquanta, ma li vale.
Il ladro si tolse la fasciatura sporca di sangue e si guardò la mano ferita. - Se non mi piglio la rabbia...
- Sei nato per finire impiccato. Dammi una mano a imballare il carico.
I due presero Buck che cercò di resistere alla morsa. Soffriva molto. Limarono il collare d’ottone. Quando lui cercava di muoversi lo colpivano senza pietà. Alla fine gli tolsero anche la corda e lo infilarono in una gabbia di legno.
Rimase nella gabbia per il resto di quella spaventosa notte covando la sua rabbia e il suo orgoglio ferito. Non riusciva a capire che cosa voleva dire tutto questo. Che cosa volevano fare di lui quegli strani uomini? Perché lo avevano stretto in quella gabbia? Non riusciva a capire, ma sentiva l’oppressione di una sciagura che stava per arrivare. Nella notte balzò in piedi più volte. Ogni volta che aprivano la porta si aspettava di vedere il giudice o i ragazzi. Ogni volta vedeva invece la faccia da alcolista del taverniere che lo guardava con una candela. E ogni volta il grido di gioia che già tremava nella gola di Buck si cambiava in un mugolio selvaggio.
La mattina dopo quattro uomini sporchi e con i vestiti laceri entrarono e presero la gabbia. Buck abbaiò furiosamente contro di loro. I quattro si misero a ridere e infilarono un bastone tra le sbarre. Buck lo addentò rabbioso. Poi si accorse che era quello che volevano. Allora si sdraiò e rimase in silenzio mentre i quattro issavano la gabbia su un vagone.
Poi la gabbia con lui dentro passò di mano in mano. Impiegati della ferrovia lo misero su